Impazienti
Mario e Stefano, vi siete trovati a lavorare insieme, per la prima volta, su uno stesso progetto. Partiamo prima da voi. Raccontateci la vostra vita professionale, con la abituale capacità di sintesi di un pitch.
Stefano: Ho iniziato diversi anni fa con un cortometraggio, la scrittura per la televisione e il cinema è sempre stata una cosa che ho sentito mia, come le orecchie a sventola o l’apparecchio per i denti… Poi, corso RAI di sceneggiatura, l’incontro con una famosa collega a cui ho fatto leggere un soggetto… Et voila’.
Mario: Anche io sono partito dalla scrittura di un corto. Poi, ho frequentato l’Accademia del Cinema di Bologna, seguendo il corso di un nostro associato (Guido Fiandra), e ho continuato a scrivere cortometraggi, due dei quali li ho anche co-diretti.
Veniamo al pitch, vero e proprio, di Impazienti. E’ una sit-com: quindi, più che lo sviluppo della storia (praticamente immobile, come da struttura) ci interessano gli elementi portanti, conflittuali, della narrazione. Quali sono?
Stefano: Un dualismo nord sud, Roma contro Milano, due caratteri diversi, ma con uno scopo e un destino comune, cioè fare fesso il perito dell’assicurazione che si occupa dell’incidente (scatenante, è il caso di dirlo!) e agguantare i soldi.
Mario: Sì, dualismo nord e sud e diversità di caratteri che vengono rafforzati dalle famiglie dei due protagonisti e dalle loro relazioni.
Come siete arrivati ad Impazienti?
Stefano: A Rai Fiction mi conoscevano per aver letto miei soggetti, tramite alcune produzioni, e quando e’ stato fatto il mio nome hanno accettato. Ho incontrato l’head writer, ne abbiamo parlato e ho scritto alcuni episodi di prova.
Mario: dopo un breve scambio di mail con Franceso Nardella, vice direttore di Rai Fiction, a cui avevo inviato il mio cv, sono stato ricevuto da Alessandra Ottaviani, responsabile di produzione, che mi ha parlato del progetto e mi ha messo in contatto con l’head writer. Ovviamente, anch’io ho presentato le sinossi di un paio di ipotetici episodi: una sorta di “test d’ingresso”.
Veniamo alla scrittura. L’idea iniziale è di Max Tortora, ma l’headwriter è Fabrizio Gasperetto, già capo progetto di altre sit-com. Come funzionava la commissione delle puntate? C’era una supervisione comune?
Stefano: Scrivevamo l’idea dei soggetti, condensati in poche righe (tieni presente che l’episodio principale di ogni puntata non superava i cinque minuti). Li leggevamo insieme nella riunione collettiva, apportavamo le modifiche che venivano suggerite anche dagli altri colleghi e scrivevamo la sceneggiatura.
Mario: Più che una supervisione sui plot proposti, infatti, c’era, settimanalmente, un confronto comune e stimolante. Molto più prolifico e, personalmente, molto più utile.
C’era una linea orizzontale? Avevate dei soggetti di puntata? Un minimo di sviluppo dei personaggi?
Stefano: No, potrei dire che non c’era una linea orizzontale, la vicenda di ogni episodio si apre e si chiude nella stessa serata. Lo sviluppo dei personaggi riguarda spesso la confidenza acquisita e quel minimo di fiducia nel loro fare comunella, quando si tratta di prendersi gioco degli altri pazienti o eludere il “dottorino”, perche’ sembra l’unico che ha capito chi siano veramente i due impazienti. Ma tornano poi a punzecchiarsi e farsi dispetti, subito dopo.
Mario: Esatto. Nessuno sviluppo dei personaggi, semmai del loro rapporto. Ma, comunque, molto lieve.
Impazienti ha delle specificità interessanti. Tra cui anche la formula contrattuale. Avete firmato per un minutaggio bassissimo e per diverse tipologie di fiction (dallo sketch alla sit-com) nello stesso contratto. Come funziona?
Stefano: C’è un contratto particolare per questo tipo di fiction, che più che una sit-com è una sketch comedy. Ci sono delle specificita’ che questo lavoro ha comportato e, chiedendo lumi ai miei colleghi che avevano già lavorato in altre sketch comedy, mi sono state spiegate alcune regole contrattuali.
Mario: Io non avevo mai firmato contratti per la scrittura di fiction in generale. Quindi, anch’io ho chiesto informazioni a colleghi con maggior esperienza e, soprattutto, consigli alla WGI.
Come avete fatto per articolare una storia con questo meccanismo da patchwork? Avete rinunciato alla storia a favore dello sketch?
Stefano: Ogni puntata è composta da due brevissimi episodi, uno iniziale e uno finale, decontestualizzati da quello centrale, cosi’ da poter essere scambiati per la messa in onda in base al minutaggio e allo slot. Questi pezzi brevi hanno un sapore di sketch, perché giocati sulla velocità della situazione. Ti faccio un esempio che ho scritto: i pazienti anziani giocano al musichiere e usano i campanelli di emergenza sopra il proprio letto per prenotarsi alla risposta della canzone misteriosa. L’episodio centrale, ovviamente piu’ articolato, si svuluppa in tre sketch. Tutti potevano partire da una battuta, un misunderdstanding, un doppio significato di una parola o di un oggetto. Tieni presente che il set era ridotto a pochissimi ambienti e che, pur essendo una sketch comedy, avevamo dei paletti, dovuti alla collocazione e alla rete, che dovevamo rispettare.
Mario. In realtà, si puo’ dire che tutta la storia e’ formata da sketch. Come ha spiegato Stefano, due sono “autonomi” (il primo e l’ultimo) e tre sono legati tra loro, ma restano pur sempre sketch.
Vi sembra un meccanismo derivato dalle webseries?
Stefano: No. O, meglio: la web serie ha forse migliorato materie prime, che provengono dalle sketch comedy e dalle sit-com, e punta su una maggiore libertà.
Mario: Anch’io credo che sia il contrario: le webseries sono un derivato delle sit-com televisive, italiane (poche) e straniere (molte). E concordo con Stefano quando dice che le serie sul web hanno migliorato gli ingredienti delle sit-com della tv italiana.
Che idea avete della comicità? Sappiamo tutti che è molto più difficile del drama. Vi viene naturale, o la costruite a tavolino? Quali sono gli elementi a cui fate attenzione?
Stefano: Il rischio di rompere tutto e precipitare nello scontato, nell’ovvio e’ sempre in agguato. La mia generazione è venuta su con la commedia all’italiana, grazie ai film che la RAI mandava in onda la sera, a cavallo tra il bianco e nero e il colore. Poi, sono arrivati altri generi di comicità, in concomitanza con una maggiore offerta e un appiattimento di gusti dello spettatore. Io ho sempre amato un certo modo di far ridere, l’humor inglese per capirci, fatto di dialoghi esilaranti, ma credibili.
Mario: Come ho detto, questa è stata la mia volta come autore di sit-com. Inizialmente, ho sottovalutato il compito. Poi, mi sono reso conto di quanto sia difficile scrivere una sit-com. Non tanto nell’ideazione dei plot, quanto nello scrivere battute che non siano scontate o banali. E che facciano ridere. In questo, il confronto con gli altri autori mi e’ stato di grandissimo aiuto. Per quanto riguarda, invece, la mia idea di comicità, ti do solo un nome: Massimo Troisi. Sono cresciuto con i suoi film e per me, ad oggi, resta inarrivabile. Ma è solo un mio pensiero.
I comici, gli attori, hanno una loro chiave personale, conoscono quello che addosso, o in bocca, a loro funziona bene e cosa no. Immagino che molte delle vostre battute siano state stravolte. Sbaglio?
Stefano: Si’, alcune sono state cambiate, altre stravolte. Penso sia un fenomeno fisiologico. Se l’attore è bravo e intelligente, il suo apporto non può che migliorare il lavoro; se è un capriccio “autoriale” che lo pervade, per qualche sua debolezza o insoddisfazione, il discorso cambia. Ma qui deve entrare in gioco anche il regista, che lo tiene a bada. Celeste mi sembra abbia fatto un ottimo lavoro. Quello che non riesco spesso a capire è perché, nonostante una sceneggiatura scritta da professionisti, approvata da validissimi headwriter, dalla struttura e dalla rete, un attore si debba far revisionare la sua parte da un autore esterno di sua fiducia. Questo mi sfugge.
Mario: Devo dire che riguardo agli sketch che ho scritto e che sono gia’ stati trasmessi, ho piacevolmente notato che non sono state fatte modifiche sul set, fatta eccezione per una o due battute. Probabilmente per regista e attori funzionavano cosi’ com’erano. In ogni caso, concordo ancora una volta con Stefano: cambiare o stravolgere una battuta va bene, se permette all’attore di interpretare il ruolo in maniera più credibile. Se, invece, si tratta di un capriccio…
Possiamo dire che la comicità si alimenta del testo come un albero della radice, cioè trova linfa nel brogliaccio, nella struttura profonda, più che nella forma finale in cui si presenta?
Stefano: Si’, puoi dirlo. Ma non farti sentire dagli attori.
Mario: Esatto. Diciamolo pure. Sottovoce, pero’.
Che ne pensate della quantità di sit-com sulle reti generaliste? Andrebbe aumentata?
Stefano: Penso che bisognerebbe avere il coraggio di osare di più, nei contenuti, nei progetti… E non solo nelle sit com. Aumentare la fiction, in generale, ma spingersi oltre, per temi e argomenti.
Mario: Si, andrebbe decisamente aumentata. Ma non solo la quantita’ di sit-com formate da brevi sketch, come Impazienti o Camera café. Si dovrebbe puntare anche sulla produzione di sit-com più articolate e complesse, tipo Modern family o New girl, per fare degli esempi.
Siete due scrittori con due esperienze e due percorsi diversi. Cosa ha significato il passaggio attraverso impazienti?
Stefano: Guardavo con timore a questo tipo di lavoro, che non e’ affatto semplice come si potrebbe pensare. Ho imparato molte cose, che non fa mai male (e non solo riguardo alla scrittura) ma ne sono uscito rafforzato professionalmente e caratterialemente. Posso fare anche questo, mi sono detto, perche’ questo lavoro (quando riesci a farlo) e’ meglio di un vaccino o della meditazione! Viva la WGI, fuck the Lannister!
Mario: Anch’io ho imparato molto da questa esperienza. E’ stata un’ottima palestra formativa, che mi ha permesso di conoscere e confrontarmi con ottimi professionisti. E di capire che posso scrivere anche le sit-com.