Detective 10 e lode
Simone, come è nata la tua passione per il cinema e come ti sei avvicinato alla sceneggiatura?
Tutto è nato Civitavecchia, la piccola città di provincia dove sono nato. Tutto inizia quando mio padre, appassionato di fotografia, mi cede la sua videocamera; le immagini in movimento non hanno mai incontrato i suoi gusti. Così, a 12 anni, ho iniziato a giocherellarci. E non ho più smesso. Mi sono avvicinato alla sceneggiatura quando ho iniziato a comprenderne l’importanza. Quando ho smesso di farmi affascinare dalla tecnologia, spesso fine a sè stess.. Quando mi sono accordo che è facile girare un brutto film partendo da una buona sceneggiatura, ma è impossibile girare un buon film partendo da una brutta sceneggiatura.
Mi puoi fare un breve excursus della tua carriera e della tua formazione?
Ho iniziato a studiare seriamente sceneggiatura con Daniele Vicari, nel corso che teneva presso la Scuola Delle Arti di Civitavecchia (un bell’esperimento, purtroppo durato solo pochi anni, che è stato a mio avviso un po’ la “prova generale” della Scuola d’Arte Cinematografica Volontè). Dopo aver realizzato vari videoclip e piccoli documentari per RAI, MTV, e Current TV ho sentito il bisogno sempre più pressante di girare qualcosa di più profondamente “narrativo”. Così nel 2008 ho scritto e girato il mio primo film, “Torno Subito”, girato da un manipolo di veri eroi che hanno lavorato duramente per creare un film che abbiamo voluto diffondere gratuitamente sul web in alta definizione (siamo stati i primi pazzi a farlo). Il film ha fatto il percorso inverso rispetto alle pellicole tradizionali ed è arrivato su Sky grazie a Current TV, dopo il successo sul web. Conclusa l’esperienza del film mi sono reso conto quanto fosse necessario tornare sui banchi di scuola per fare un salto di qualità nella scrittura ed ho partecipato al corso RaiScript che mi ha dato gli strumenti del mestiere necessari per affrontare un lavoro così complesso come quello dello sceneggiatore. Dopo aver scritto e girato webserie per Endemol e FOX, riesco a tornare al cinema. Nel 2013 con la co-sceneggiatura de “Il Salto”, scritto con Maria Teresa Venditti e nel 2016 con “L’Isola Di Babbo Natale”, scritto insieme alla regista del film, Antonella Cecora. Spero che entrambi i film vedano presto la sala!
Il tuo progetto “Detective 10 e lode” è arrivato primo nella graduatoria del Ministero dei Beni Culturali per la scrittura di opere televisive. Ci puoi fare un pitch, senza svelare troppo?
La mia serie racconta la storia di Marta. Lei era solo una semplice maestra d’asilo, ma nella mia fiction si trova a risolvere delitti efferati. La sua collega e migliore amica Giulia, 40 anni, viene uccisa da un assassino del quale non si conosce l’identita’. L’omicidio avviene a scuola, subito dopo l’uscita dei bambini. Marta scopre pero’ indizi importanti relativamente all’omicidio. E lo ha fa interrogando un testimone oculare. Di tre anni e mezzo. Un alunno di Giulia, Achille, 3 anni, ha visto bene in faccia l’assassino. Marta sa interpretare il linguaggio dei bambini. Lo fa da 20 anni. E per questo motivo verrà strappata dalla sua scuola da Marco Porfido, 45 anni, un magistrato decisamente poco ortodosso. Lui la farà diventare una di loro, o quasi, trasformandola in una consulente del Tribunale dei Minori.
Qual è l’idea forte del concept che secondo te è stata premiata?
Probabilmente quello che ha colpito è stato il fatto dell’aver inserito un elemento nuovo in una detection, ovvero il fatto che i testimoni dei delitti siano tutti bambini. Oppure è piaciuto come nella mia serie tutti i personaggi, anche quelli minori, hanno un loro arco narrativo, una sfida che la vita ha posto loro davanti e che devono vincere per sopravvivere o per crescere.
Attualmente il panorama della fruizione seriale è in grande formento, dove hai pensato che potrebbe andare in onda la tua serie sulla tv generalista, sulla pay-tv o sulle nuove piattaforme VOD? Oppure non ci hai pensato affatto?
La serie è nata in conclusione della mia partecipazione al corso RaiScript, quindi è mirata ad un pubblico generalista. Tuttavia, modificando i casi di puntata, rendendo il racconto più crudo, diretto ed esplicito, credo che la serie potrebbe anche piacere al pubblico delle paytv e delle piattaforme VOD.
Qual è la tua idea di serialità? Quali sono le serie che ami e che riferimenti hai avuto per il progetto?
Mi piacciono le serie che non vorresti mai finire. Mi piace quel meccanismo che scatta quando metti un freno al binge watching e centellini gli episodi perché non vuoi arrivare all’ultimo. Tra le serie a tema poliziesco mi piacciono quelle dove emerge preponderante il lato emotivo del detective. Quelle dove il privato invade il lavoro fino a renderlo quasi impossibile. Tra tutte, ho amato True Detective, Broadchurch ma la mia preferita è Happy Valley, un poliziesco britannico ambientato nello Yorkshire che ha vinto il Bafta nel 2015 come miglior serie drama. Queste serie sono quelle che più si avvicinano al mio progetto.
In merito alla scrittura e allo sviluppo della storia, secondo quali priorità strutturi i vari elementi e qual è il filo conduttore della scrittura, nell’elaborazione di concept, tema, personaggio e arena?
Parto da ciò che mi fa venire la pelle d’oca. Può essere un luogo, una persona, un tema, un ricordo. Non importa. Deve essere qualcosa che mi emozioni. Allora capisco che vale la pena fermarsi e costruire un racconto basato su quel piccolo mattoncino. Un mattoncino uguale a tantissimi altri che però ha una crepa che lo rende unico. Quella crepa è il tema con il quale tutti gli altri elementi devono trovare la loro coerenza. Quindi le mie storie non nascono in modo rettilineo ma si sviluppano a macchia d’olio. Costruisco le mie storie con continui “zoom in” e “zoom out”; anche quando il soggetto è ancora in una fase embrionale ho bisogno di tuffarmi dentro ad una scena, scrivendone le azioni e i dialoghi, con la speranza che i miei personaggi prendano vita e mi parlino, suggerendomi modifiche della trama anche radicali. A volte sono gli stessi personaggi che plasmano il concept iniziale. Lavoro molto sulla costruzione del personaggio e ritengo che possano sempre essere migliorati fino al momento del ciak.
Riguardo l’aspetto produttivo della scrittura, che modalità di lavoro ti piace? Usi il sistema della writers’ room o scrivi anche da solo o con sceneggiatori di puntata? Che ne pensi del modello dello showrunner, sarebbe auspicabile e applicabile anche in Italia?
Lo showrunner è una figura fondamentale se vogliamo che la nostra serialità compia un salto di qualità. E’ fondamentale che ci sia una mente che riesca a dare la direzione. Una serie televisiva è una portaerei, come dice Domenico Matteucci, uno dei miei insegnanti nel corso RaiScript. Lo showrunner è colui che l’ha disegnata nei minimi dettagli. E’ colui che ne conosce ogni anfratto, comprese le falle. Ed è l’unico in grado di guidarla al meglio. Quando scrivo mi piace alternare momenti di solitudine ad altri di collaborazione. Quando cerco nuove idee per una serie mi piace stare da solo mentre quando la sviluppo mi piace farlo in gruppo. Quando scrivo la prima stesura di una scena mi piace farlo da solo, perchè ho bisogno che i personaggi mi parlino. E la loro voce è troppo flebile per essere percepita quando si è in tanti. Ma mi piace riscrivere in gruppo. Il mio metodo di lavoro ideale è un continuo palleggio tra la solitudine della mia stanza ed il caos della writers’ room.
Quali pensi che siano gli elementi di forza e quelli di debolezza della serialità italiana rispetto ai competitor stranieri?
Siamo forti nel “fare” tanto con “poco”. I budget risicati ed i tempi ristretti ci hanno trasformato in macchine da guerra capaci di produrre serialità di buon livello con tempi e budget ai limiti della sopportabilità umana. Quello che ci “frega” è l’autocensura che ci imponiamo. Per paura di vedere le nostre idee bocciate, finiamo per proporre sempre le stesse rassicuranti storie. Tutte le porte in faccia che abbiamo ricevuto ci hanno resi degli automi capaci solo di percorrere strade già tracciate. Invece bisogna prendere il machete ed inoltrarsi nella giungla; è lì che si nascondono le storie che il pubblico aspetta. E la giungla secondo me è la strada; tutte le persone che incrociamo per strada hanno qualcosa da raccontare e noi dobbiamo ritrovare il piacere di ascoltarle.
Hai usufruito dei nuovi finanziamenti alla scrittura del MIBAC che sono stati introdotti proprio grazie al lavoro di WGI e delle altre associazioni, trovi che sia stata una risposta sufficiente alle problematiche degli sceneggiatori? Credi che ci siano altre questioni sindacali urgenti da affrontare?
La WGI e le altre associazioni hanno fatto un lavoro enorme che sta migliorando sempre di più il settore. I nuovi finanziamenti del MIBAC sono una vera rivoluzione; il fatto che uno sceneggiatore possa avere un rapporto diretto con il Ministero senza il “filtro” delle produzioni permette a tanti professionisti fuori dal “sistema” di farsi conoscere ed iniziare a lavorare. La speranza è che la rivoluzione non si fermi qui. Dal punto di vista sindacale sono tante le problematiche da risolvere. Il lavoro degli sceneggiatori va rispettato e retribuito. Come dicevo all’inizio non possono esistere buoni prodotti audiovisivi senza buone sceneggiature. Ma gli sceneggiatori devono essere messi nelle condizioni di vivere dignitosamente di questo lavoro. E nella dignità sono contenute tutte le richieste sindacali che portiamo avanti da sempre.