Rocco Schiavone
Ciao Maurizio, prima di tutto racconta in due parole chi sei e cosa hai fatto a chi non ti conosce.
Ho cominciato a fare questo mestiere ormai qualche anno fa… Dopo il Corso Sceneggiatori Rai sono entrato ad un Posto al Sole come dialoghista prima e poi nel gruppo di scrittura a Napoli, una grande esperienza umana e lavorativa. Dopo ho lavorato alla Squadra e ho partecipato in diversi ruoli in molte altre serie, I Cesaroni, Squadra Antimafia, Benvenuti a Tavola e altre cose.
E ora che ci siamo scaldati facci un pitch della serie Rocco Schiavone.
In tre righe, Rocco Schiavone è un poliziotto anarchico che non si accontenta di incastrare criminali e assassini ma ha anche la pretesa di giudicarli e talvolta di eseguire la sentenza secondo la propria personalissima etica e morale.
La serie nasce dai romanzi di Antonio Manzini, con cui hai cosceneggiato tutti gli episodi televisivi: com’è stato lavorare fianco a fianco con l’autore dei libri? Come ti sei trovato?
Io sono stato sin dall’inizio una grande lettore di Rocco, con Antonio ci siamo conosciuti proprio nel periodo in cui usciva il primo romanzo Pista Nera quindi per me è stato meraviglioso poter lavorare all’adattamento televisivo. Noi avevamo già lavorato insieme e c’era sempre stata una sintonia totale, un grande affiatamento ed anche stavolta è stato lo stesso. Anche se Antonio è il papà di Rocco, anche se è lui ad aver creato i personaggi e le storie, non lo ha mai fatto pesare ed è sempre stato pronto a rimettere in discussione tutto. Poi è chiaro che come conosce lui Rocco non lo conosce nessuno e quindi l’ultima parola spetta sempre ad Antonio, è normale che sia così.
Quanto si discostano le puntate della serie dai romanzi?
Il problema principale nel portare i romanzi sullo schermo è stato quello di cercare di perdere il meno possibile di tutte le cose belle che c’erano dentro. Per un momento abbiamo pensato alla classica voce narrante ma poi, proprio perché classica, l’abbiamo scartata. Rocco è un personaggio complesso, ricco di sfumature, pieno di malinconia, ma anche di rabbia, arroganza e di ironia.
E poi il rapporto con la moglie molto complicato da rendere visivamente. Non era facile riuscire a rendere tutto questo in una sceneggiatura che è inevitabilmente un mezzo più tecnico, più freddo e il rischio era di non riuscire a passare tutto. Anche perché i romanzi erano piuttosto lunghi e bisognava fare miracoli per contenerli in 100 minuti senza tradirne la struttura e l’impianto narrativo. Per gli ultimi due romanzi era davvero impossibile, si doveva tagliare davvero troppo e quindi abbiamo fatto tre episodi spostando delle linee da un episodio all’altro, visto che per come erano stati scritti si potevano prestare ad una soluzione del genere. In generale però siamo riusciti a non tradire i romanzi.
La messa in onda della prima puntata è stato un successo. Quali punti di forza pensi che abbia la serie “Rocco Schiavone” rispetto alle fiction italiane che sono andate o vanno in onda sulle reti generaliste?
Io parlo per la nostra serie. Rocco Schiavone è un personaggio vero che si muove in un mondo reale, che ci parla di noi, dei nostri vizi, delle nostre debolezze ma anche dei nostri grandi slanci di generosità verso il prossimo. E non cerca di piacere a nessuno, non cerca nessuna redenzione. Poi è stato fatto un grande lavoro a livello visivo, c’è stato il tentativo di dare un’identità forte, di restituire quei chiaroscuri del carattere del personaggio attraverso una fotografia virata su toni più cupi. E il tentativo secondo me è riuscito! L’ambizione è quella di riuscire a conquistare anche un mercato internazionale che per ora a parte poche eccezioni sembra essere precluso alla nostra fiction.
La serie è stata pensata fin dall’inizio per essere trasmessa su RaiDue? Questa scelta ha permesso una maggiore libertà nel linguaggio della sceneggiatura, non dovendosi rivolgere al pubblico più tradizionale (e tradizionalista) di RaiUno?
Si, é sempre stata Rai Due. Per i temi che tratta e per il linguaggio del protagonista non poteva essere altrimenti. E comunque dalla parte della Rai non c’è stata nessuna censura.
Com’è stato il rapporto tra gli scrittori e la produzione della serie? Avete assistito al casting? Siete stati interpellati? Siete stati sul set o al montaggio?
C’è stato un coinvolgimento di Antonio sul casting e in molte altre fasi della lavorazione, ma bisognerebbe chiedere a lui. Per quanto riguarda il set io per esempio io ci sono andato per una mia curiosità e per vedere come stavano andando le riprese o quando sapevo che c’era una scena che mi interessava in particolare. Poi si sa che andare sul set per uno sceneggiatore è sempre una piccola frustrazione, anche se tutti ti accolgono sempre con simpatia, hanno i loro ritmi, i loro tempi e dopo cinque minuti ti ritrovi da solo davanti al monitor a vedere le scene.
Credi che il genere, dopo avere ottenuto successi al cinema per esempio con Lo chiamavano Jeeg Robot, possa cominciare a trovare spazio anche nella produzione televisiva?
Io me lo auguro. Il genere è stata la nostra forza per molti anni ed ora che anche il cinema sembra averlo riscoperto, la televisione può sicuramente alimentare quel filone. Non a caso il nostro regista Michele Soavi viene proprio da quel mondo lì. Il genere è davvero un’ottima strada per raccontare la nostra società, quello che ci succede intorno e visto che la televisione si propone proprio questo quale matrimonio migliore?