Grand Hotel
Caro Peter, Grand Hotel è in onda su RAI uno dal 1 settembre, gli ascolti non sono altissimi e il giudizio spartito – come sempre – tra fan e detrattori. Non vogliamo entrarci. Le nostre domande tendono invece ad esplorare il territorio del nostro lavoro e per questo cominciamo dall’idea di base, dal soggetto. Sappiamo che la fiction viene da una serie spagnola che ha avuto tre stagioni dal 2011 al 2013, crescendo negli ascolti e vincendo premi. L’hai vista? Cosa ci puoi dire?
Quando sono stato contattato da Cattleya era stato fatto già un tentativo di adattamento della serie che però non soddisfaceva le attese di Rai Uno e se ben ricordo neanche quelle del co produttore tedesco. Volevano ripartire da zero.
Così ho preso visione della prima serie spagnola e sono rimasto colpito soprattutto dalla messa in scena e dalla bravura del gruppo di attori protagonisti. La drammaturgia era semplice, a volte rozza, ma puntava dritto all’effetto, infischiandosene della credibilità o di un approfondimento psicologico dei personaggi. Un colpo di scena dopo l’altro, con un ritmo forsennato e una regia molto accattivante. Mi colpirono in particolar modo i flash back. Il regista e credo anche gli autori si erano inventati una compresenza di passato e presente nello stesso ambiente, che dava al racconto una cifra molto originale. Col procedere delle puntate però i nodi venivano al pettine. Molte contraddizioni, linee secondarie che finivano miseramente e personaggi che perdevano forza e motivazioni. Insomma a mio avviso l’inizio di questa serie era sfavillante e in qualche modo innovativo, sul finale però, il racconto perdeva mordente e diventava o meccanico o sconclusionato. Ma c’erano i protagonisti, c’era una trama, c’era un’interessante commistione di generi e soprattutto c’era l’idea di una serie in un unico ambiente. Una bella sfida. Dunque ho accettato l’impresa.
Quali sono state le indicazioni della produzione e della rete ai fini dell’adattamento italiano?
Il primo grande cambiamento rispetto alla serie spagnola è stata la cornice naturale. Il loro albergo sorgeva sul mare, il nostro, un po’ per esigenze di co produzione, un po’ per vantaggi dovuti ad una locale film commission pronta a coprire dei costi, sulle Dolomiti. Se la serie spagnola aveva una forte connotazione locale, la nostra sarebbe stata più mitteleuropea, con tutti i problemi e le difficoltà che ne sarebbero scaturite. Ho visto poi anche le seconda stagione della serie spagnola e ne sono rimasto profondamente deluso. Le idee erano appannate e i due protagonisti avevano perso smalto e centralità nel racconto. Tutto era diventato più corale, più votato alla commedia, e in generale l’impressione era che la ‘macchina’ fosse stanca. Se non sbaglio anche gli ascolti della seconda serie spagnola sono andati calando. Nella prima riunione editoriale con il network e il produttore ci è stato espressamente chiesto di rendere più credibile la trama, di fondare meglio i personaggi e le loro linee e soprattutto di approfondire psicologie e caratteri. In sintesi di guardare più a modelli anglosassoni come ‘Downton Abbey’, pur mantenendo una struttura e un ritmo da soap opera melo’. Una parola!
Che cosa è arrivato esattamente a voi scrittori, quale il patrimonio acquistato? La così detta bibbia o le intere sceneggiature?
Ci sono arrivate prima le puntate girate, dalle quali noi stessi abbiamo desunto una specie sequenza di scene e dialoghi. Poi abbiamo ricevuto anche qualche sceneggiatura, che per alcuni versi non corrispondeva esattamente al risultato girato. Cosa che ha confermato la nostra sensazione che nella messa in scena e nel progredire del progetto, siano state fatte modifiche fondamentali, tanto che a volte non tornavano le cose o erano state in qualche modo aggiustate strada facendo. Insomma l’idea che mi sono fatto della serie spagnola è un po’ questa: avevano scovato una location interessante, un vecchio albergo di lusso appena restaurato, location perfetta per una serie tutta ambientata lì. Avevano due fascinosi protagonisti (già molto conosciuti e amati dal pubblico) e un abile regista con una sua visione estetica ben precisa. La trama c’era, ma neanche tanto definita. Sicuramente si voleva unire il melò ad un giallo abbastanza classico ispirato alle indagini dei più famosi detective della letteratura gialla all’interno dei grandi alberghi, (Agatha Christie, Conan Doyle, etc.) avevano un gruppo di giovani attori e qualche nome di peso per dei cammei, e sono partiti. Il tutto, immagino, molto più rapidamente che da noi.
Quali sono state le vostre indicazioni di autori, che cosa avete voluto cambiare o mantenere voi?
Siamo partiti dai personaggi e man mano che li andavamo a sviluppare abbiamo sentito la necessità di renderli più credibili e più articolati. Conseguentemente anche la trama doveva essere modificata. Ci ha guidato il loro agire. La serie spagnola mirava unicamente all’effetto, alla sorpresa ad ogni costo, la nostra, rinunciando forse al troppo minaccioso incalzare degli eventi, preferiva scandagliarne le motivazioni, sempre nell’ambito del genere naturalmente.
Inoltre avendo scelto le Dolomiti e l’atmosfera ‘fin de siècle’ o ‘finis Austriae’ non potevamo prescindere da alcuni modelli letterari e figurativi legati a quel mondo. Per tacere invece della situazione politica alla vigilia di una grande guerra che avrebbe sovvertito equilibri e regni secolari. Da un lato questo chiaro riferimento culturale, era uno stimolo e un piacere, dall’altro un pericolo. Temevamo di scivolare in un prodotto troppo raffinato per l’idea di platea che ci si era prefissa. Ecco il vero problema di questa serie. Essa non è pienamente una soap e d’altro canto non è stata mai concepita come rievocazione raffinata di un’epoca, con dialoghi profondi e riferimenti colti alla realtà di quel tempo. C’è un po’ dell’una e po’ dell’altra.
C’è una diversità di durata delle puntate, 80’ in Spagna, più di 100’ da noi. Come avete agito? Avete compattato più puntate o al contrario riempito lo spazio con una vostra narrazione?
Siamo partiti con l’intenzione di compattare e riorganizzare il materiale narrativo preesistente, per poi invece procedere liberi. Per forza di cose la materia ci cresceva in mano. Alcuni personaggi esigevano più spazio, le trame modificate finivano per suggerirci soluzioni diverse dal modello spagnolo.
Quando si tratta di adattamento, di solito i compensi degli sceneggiatori si abbassano, perché si ritiene che il più è fatto. Ad adattare invece spesso si fa una fatica doppia… Quali sono state le difficoltà in questo caso?
Devo dire che fin dall’inizio sono stato consapevole che in realtà si sarebbe trattato di una vera e propria riscrittura e che, in quanto tale ma con dei limiti imposti, sarebbe stata ben più laboriosa e faticosa del lavoro creativo su un soggetto originale. Dunque ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di contrattare il mio compenso come se si trattasse di un lavoro di scrittura vero e proprio, dalla bibbia alle sceneggiature. A mio avviso la vera difficoltà è stata alla fine risolvere magagne narrative che i nostri colleghi spagnoli avevano nascosto nella trama. Ripeto, loro miravano all’effetto e tante incongruenze le hanno semplicemente nascoste, devo ammettere anche con grande maestria, oppure rimandate a stagioni successive, delle quali erano sicuri. Mentre noi dovevamo confezionare un prodotto compiuto, certamente con un rilancio per la seconda serie, ma soprattutto appagante nel finale della prima, dove tutti i personaggi e le loro linee dovevano tornare alla perfezione.
L’arrivo della luce elettrica, l’inizio del Novecento… Perché la narrazione popolare torna a cercare quell’epoca? Perché così vanno in scena i veri ricchi, le ambientazioni di lusso e si può ancora sperare nelle favole delle principesse? Non ci rassegniamo alle repubbliche, assai meno poetiche?
Le fiction d’epoca sospendono la realtà e invitano lo spettatore a lasciarsi andare al sogno e alla favola. Questo è risaputo. Ora non so quanto questo possa essere un trend inesauribile o se davvero tutto dipenda dal confezionamento di queste narrazioni. Sono però sempre più convinto, che nella fruizione di tali prodotti, ci siano in gioco forze contrastanti. Da un lato la semplicità, direi quasi l’elementarità, della trama e dei personaggi, che rassicura, che non inquieta, che non chiede al pubblico nessuno sforzo intellettivo, che lo culli in una specie di sonno della mente e della coscienza, e dall’altro la necessità di una trama complessa e avvincente, di emozioni forti che parlino non soltanto al ventre, ma anche al cuore e al cervello, che stimolino la curiosità di una ricerca, che facciano risuonare nello spettatore riferimenti letterari, figurativi e di cultura cinematografica. Insomma da un lato c’è Il segreto e dall’altro Downton Abbey. L’errore è pensare che il primo sia seguito solo da un pubblico poco istruito e l’altro invece da un élite. Credo che dovremmo sempre di più interrogarci sulla fruizione della fiction. Sul momento e lo stato in cui si vede cosa. C’è il tempo per pensare e quello per ‘sospendersi’, per mettere la propria mente in ‘stand by’, quello per ricevere stimoli e quello per rilassarsi. Noi scrittori di fiction dovremmo sapere esattamente per quale momento scriviamo. L’ibridazione è pericolosa e molto difficile. La programmazione della fiction sarà sempre più importante. Le giovani generazioni, soprattutto quelle più attente e istruite, consumano finzione televisiva d’avanguardia (spesso straniera e in lingua straniera) in streaming sul proprio pc, o in pay tv, per poi invece adagiarsi in una specie di rito famigliare davanti al televisore sui canali in chiaro, cullati da serie cosiddette popolari o generaliste. Sono sempre più convinto che questi due mondi narrativi coesistono, come del resto anche in letteratura. C’è il giallo da leggere sotto l’ombrellone e il libro d’autore che ti cambia la vita, il saggio che ti apre orizzonti. L’importante è che lo spettatore abbia chiaro in mente il prodotto che sceglie e lo scaffale dove lo può trovare e che il prodotto corrisponda alle sue aspettative e ai suoi bisogni.
Il primo Novecento è anche epoca assai tormentata, insicura e decadente: per Grand Hotel hanno tirato in ballo Sherlock Holmes, Jack lo squartatore come modelli per la storia gialla della serie. Tu che ne pensi?
Sì, questi riferimenti ci sono, anche se, per l’idea che mi ero fatto del prodotto potevano anche non esserci o essere semplicemente adombrati. Personalmente avrei spinto la serie molto di più verso la soap che verso il romanzo d’epoca. Idealmente Grand Hotel poteva essere una degna risposta al Segreto, insomma una fiction a bassissimo costo, tutta in un’unica ambientazione, carica di linee narrative da sviluppare all’infinito, capace di fidelizzare il pubblico, di rassicurarlo in una visione seriale confezionata con gusto italiano e recitata da attori giovani e poco conosciuti, in una ambientazione naturale tra le più suggestive del nostro paese. In più c’era la coproduzione con la Germania ad aprire una possibilità di mercato europeo.
Grand Hotel fa parte di un territorio televisivo già abitato da serie inglesi (per il periodo e il rapporto servitù/proprietari) e tedesche (per la centralità dell’albergo). Prima di scrivere avete dato un’occhiata alla concorrenza o siete andati dritti per la vostra strada?
Le serie inglesi della tv statale (BBC) spesso si prefiggono di fare cultura. Puntano a quello e non all’audience. Se poi viene anche il successo di pubblico, tanto meglio. Ma la spinta iniziale è fare un prodotto che rappresenti la tradizione culturale del paese, che metta in scena il glorioso passato storico, che rievochi per le giovani generazioni un periodo e allo stesso tempo ragioni su conflitti sociali, su eventi politici, su sentimenti che hanno attraversato la storia della nazione. Spesso queste serie riescono a compattare il pubblico a rispondere a entrambi i bisogni di cui sopra. Si tratta di un prodotto di fiction che si prefigge un traguardo culturale, che intende incidere sull’immaginario collettivo di una nazione e che, neanche tanto nascostamente, contiene dei messaggi educativi o in qualche modo etici.
Il germanico Tempesta d’Amore invece è un prodotto commerciale votato a catturare l’audience e a sfruttarne l’assuefazione per scopi pubblicitari. Rientra in quel discorso di prima, come fiction rilassante, come affabulazione rassicurante e poco impegnativa, che consente al pubblico una visione superficiale, ma allo stesso tempo appagante. Dunque tutt’altri presupposti e tutt’altro prodotto dal primo. Noi sceneggiatori di Grand Hotel conoscevamo entrambi i prodotti e li avevamo bene in mente quando siamo stati chiamati a riscrivere o adattare la serie spagnola. Ma non stava a noi dettare la linea editoriale, non stava a noi decidere che tipo di serie fare, o in quale direzione puntare. La serie spagnola a mio avviso tendeva decisamente verso la seconda categoria di prodotto, verso Tempesta D’Amore per intenderci, anche se conteneva conflitti e personaggi che potevano vagamente assomigliare a Downton Abbey.
Sei uno scrittore affermato, le serie da te ideate e scritte hanno fatto sempre incetta di ascoltatori… Perché ti hanno chiesto di copiare un format straniero? Il tuo nome garantiva tanto quanto (e probabilmente alla prova dei fatti addirittura di più) gli ascolti e il successo in un paese diverso dal nostro. Agli occhi di noi sceneggiatori sembra una vicenda assurda… Tu che ne pensi?
Questa degli adattamenti è ormai una realtà radicata nel nostro panorama televisivo. Forse l’idea che un successo straniero presenti meno rischi dello sviluppo di un’idea originale spiega il perché sia i network che i produttori preferiscano investire in quella direzione. Probabilmente i soldi sono pochi e quei pochi vanno investiti al minimo dei rischi. Oppure c’è poca fiducia nella creatività degli autori nostrani. Non lo so. Forse la creatività non interessa, quanto la certezza di un successo. Forse si fa meno fatica ad immaginare qualcosa di già realizzato. In generale penso che la fiction televisiva è sempre stata considerata come la ‘rimasticazione’ di qualcosa di già creato. Parlo anche degli esempi più illustri e alti degli ultimi tempi. Sceneggiati desunti da grandi romanzi, da fatti di cronaca, da film di successo, da Romanzo Criminale a Gomorra, dai Promessi Sposi a Montalbano. Sono poche le storie originali nate solo per la tv che hanno inciso sull’immaginario collettivo. Anche nei generi, spesso ci si rifà ad un’arma, ad una squadra, ad un reparto ospedaliero, insomma si serializza un aspetto della realtà cercando di farlo rientrare in un genere. Basta scorrere i titoli delle nostre serie. Oltre oceano è stato ed è anche così, ma ci sono profondi cambiamenti in atto. Sempre più sta nascendo una narrativa seriale televisiva specifica. Autori e sceneggiatori creano e sviluppano idee direttamente per la fiction seriale riconoscendo finalmente l’enorme potenziale di un contenitore narrativo inesauribile. Non più solo il minutaggio limitato di un film, ma la possibilità di porsi di fronte al racconto senza fine, quasi senza limiti creativi, tanto che il cinema stesso si sta in qualche modo serializzando. Certamente avrei preferito che un produttore o il network, mi contattasse, magari facendomi anche vedere l’esempio spagnolo di Grand Hotel, stimolandomi però a creare una serie dagli stessi presupposti, ma originale. Bastava dire: ci piacerebbe realizzare un racconto televisivo tutto all’interno di un grande albergo, con ambientazione d’epoca e conflitto sociale tra il mondo dei ricchi ospiti e quello dei poveri camerieri. Forse non avrei scelto i primi del Novecento, ma mi sarei indirizzato più verso gli Anni Trenta, forse avrei preferito una cornice più mediterranea, più italiana, non lo so, ma sono sicuro che il risultato non avrebbe avuto nulla da invidiare alla serie dei nostri cugini spagnoli. Nonostante questo, alla fine non sono affatto scontento del risultato, che mi ha comunque coinvolto in modo creativo. La nostra serie si discosta dal modello spagnolo, diciamo che lo interpreta e lo sviluppa in un’altra direzione e mostra indubbiamente, nonostante l’accanita controprogrammazione e la poca promozione, delle qualità realizzative indiscutibili, un’eccellente messa in scena e una forte potenzialità commerciale.
Telenovelas sì, telenovelas no. Gli ascolti premiano i prodotti melò e sentimentali dove il racconto scivola senza difficoltà di comprensione e regnano avventura e passioni. Grand Hotel si è scontrato con questi prodotti… Tira tu le fila. Grand Hotel fa parte del genere?
Come già detto, Grand Hotel doveva far parte del genere (telenovelas/soap) se ci fosse stata un po’ di convinzione in più da parte dei produttori e del network. Sappiamo tutti che se questa serie fosse stata realizzata da Mediaset queste sue caratteristiche di partenza, avrebbero avuto tutt’altro peso. Rai Uno però mantiene (io dico anche per fortuna), attraverso i cambiamenti e il succedersi delle direzioni, una coscienza di televisione di stato e dunque di fabbrica culturale del paese. Soprattutto per quel che riguarda la prima serata. Forse il problema sta tutto qui: che l’offerta di fiction si sia ridotta essenzialmente alla prima serata di Rai Uno. Che le altre reti Rai offrano poco o niente. Che non esista più una fiction dedicata ai ragazzi, alla fascia pomeridiana, come a quella di seconda serata, insomma che la diversificazione dell’offerta sia ancora lontana. Inoltre c’è il problema dello scontro sugli ascolti. La Rai si ritrova a combattere contro la tv commerciale, dovendo allo stesso tempo cercare di dare un peso ai suoi contenuti. Se perde nessuno ne tiene conto, se vince spesso la si accusa di essersi venduta l’anima. Certo se ci fossero tante tv commerciali che combattono tra loro per l’audience pubblicitaria, e una tv di stato che fa essenzialmente cultura, i limiti sarebbero più chiari e le intenzioni più oneste e condivisibili.
E’ prevista una seconda serie?
Certo. La Cattleya con generosità ed entusiasmo ammirevoli ci ha già commissionato la seconda serie. Stiamo addirittura sviluppando i soggetti di puntata, questa volta però discostandoci profondamente dal modello spagnolo. La nostra seconda serie, semmai si farà, non avrà niente in comune con la seconda stagione spagnola.
Avete scritto soprattutto in tre. Con Daniela siete una coppia sperimentata, Isabella è stata una novità o sbaglio? Come avete proceduto nella divisione del lavoro?
Si è proceduto nel modo più classico: riunioni per trovare una linea comune e poi una suddivisione del lavoro. Anche se c’erano differenze generazionali, non abbiamo avuto particolari difficoltà ad accordarci. Naturalmente con la mia collega Daniela Bortignoni avevamo un affiatamento maggiore che viene dagli anni di lavoro in comune e dalla condivisione esperienze culturali che ci hanno formato.
E’ vero che le ultime revisioni spettano all’head writer, che senza di lui non ci può essere coesione nella narrazione? Voi come avete agito?
E’ vero. Ma non da noi. Rispondo a questa domanda annunciando che d’ora in avanti rinuncerò al ruolo di head writer, anche su progetto che partono da un mio soggetto originale. L’unico modo qui da noi per avere la coesione della narrazione di una serie è scriversela tutta e preferibilmente girarsela. In verità l’ultima parola sulla narrazione la detiene il regista. E se non lui il produttore/autore. Noi ‘normali’ sceneggiatori veniamo forse chiamati per risolvere dei problemi, per mettere come si dice delle toppe quando l’errore/orrore ormai è fatto, ma certamente non per dare coesione narrativa ad un prodotto. L’head writer in Italia non esiste. Perché è un ruolo che nessun produttore e network riconosce come tale. Un head writer, all’estero, ha diritto di veto su scelte editoriali legate al progetto, sul cast artistico e tecnico, e ha il diritto di conoscere i costi del prodotto, di giudicare le location e le scenografie, deve partecipare alle riunioni produttive ed è chiamato in causa durante tutta l’edizione della serie. Personalmente non conosco nessuno dei miei colleghi che svolge questo ruolo con queste caratteristiche. Dunque è un inganno. E mi sembra disonesto ritagliare dal budget un compenso per un ruolo che non esiste. Del resto nessuno ha interesse che questo ruolo esista davvero. I produttori non vogliono certo la rottura di scatole di una voce della coscienza che ricordi loro il senso della serie e del lavoro creativo fatto, idem i registi. All’interno delle strutture editoriali dei network poi ci sono ottime figure professionali che possono ricoprire il ruolo di coordinatori del gruppo di scrittura. Non vedo perciò la necessità di un head writer. E non venitemi a dire che serve per amalgamare il linguaggio, perché è risaputo che non c’è attore che rispetti alla lettera le battute scritte e che non si adatti la sua parte con il beneplacito del regista. E’ così.
Riccardo Tozzi ha dichiarato che da noi lo showrunner non può essere lo sceneggiatore, ma una specie di entità collettiva, non ci capisce bene. Con Grand Hotel com’è andata? Avresti voluto essere anche lo showrunner?
Il produttore Tozzi ha ragione. Lo showrunner non può essere lo sceneggiatore, per il semplice motivo che lo sceneggiatore non è compartecipe del progetto. Non detiene ormai più nessun diritto e dunque non corre nessun rischio. Nulla gli appartiene e nessuno sarebbe disposto a lottare per qualcosa che non è anche suo. Uno showrunner in altri paesi investe creativamente in una serie e letteralmente concorre per la vittoria di un progetto, perché se il progetto è vincente, lui stesso vince, spesso anche in termini non solo artistici, ma anche economici. Dunque ha ragione Tozzi a dire che da noi lo showrunner è un’entità collettiva. Precisamente questa entità è composta da chi detiene realmente il potere sul progetto e non solo economico. Chi con la propria decisione può influenzarne la fattibilità, può cambiarne la storia, i protagonisti, il formato. Direi che oggi, in questo frangente, per quello che riguarda la Rai, non è neanche il produttore lo showrunner. Oggi esiste una sola showrunner, per altro molto capace.
Il direttore generale della RAI Campo Dall’Orto ha annunciato cambiamenti. A suo avviso la RAI è troppo arretrata sia come impresa che come contenuti. E’ diffusa la sensazione che nella fiction è ora di cambiare. Tu cosa vedi, cosa ti auguri?
Ho alle spalle diverse stagioni. E ogni volta si alza una voce che auspica il cambiamento epocale del nostro servizio pubblico. Devo alla Rai gran parte della mia carriera televisiva e dei miei successi e in qualche modo ormai sono affezionato ai suoi difetti. Se il cambiamento significa aggiornamento, maggiore libertà d’espressione, pluralità di contenuti, progettazione e ricerca di nuove frontiere nella fiction e nei suoi formati, coinvolgimento costruttivo delle giovani generazioni di autori, apertura al mercato europeo, e soprattutto difesa dei diritti degli sceneggiatori televisivi, non posso che accogliere con entusiasmo l’avvento del nuovo corso. Ciò che vedo all’orizzonte però ha un aspetto più nebuloso. Le cose stanno cambiando molto più rapidamente di come noi stessi vorremmo cambiarle. La tecnologia sopravanza l’immaginario, la fruizione, come dicevo prima, sta diventando più importante dei contenuti stessi. Ho la sensazione che come sceneggiatori finiremo per specializzarci sempre di più. Non esisterà più uno sceneggiatore televisivo ‘tout court’ ma uno specialista di un genere in particolare se non del suo sotto genere in quel particolare formato adatto per quella fruizione, su quella piattaforma. Un po’ come è accaduto per i medici. Ormai l’idea del dottore che curava l’insieme appartiene all’utopia. Vai dallo specialista che sa tutto solo di un organo e studia quello per tutta la sua vita professionale. Così vedo il futuro anche per noi sceneggiatori.
Credi nei prodotti per la tv generalista o pensi che la nuova domanda di prodotti on demand porterà l’attenzione sui generi?
Non sono certamente tra quelli che dichiarano moribonda la tv generalista. Credo anzi che le nostre due reti ammiraglie abbiano ancora un bel po’ di stagioni davanti e da protagoniste. Me le immagino come due soli di due sistemi stellari in perenne evoluzione. Sono le galassie che ruotano attorno ad esse che si stanno espandendo. La luce, l’energia, però viene ancora dal centro. E credo che durerà così ancora per un po’. Le pay tv, le piattaforme digitali, internet, fagociteranno di tutto, la fiction del passato quella del presente e quella del futuro, ma comunque vada tutto ciò avrà un costo sempre maggiore di quello che chiedono RaiUno e Canale5. Si consuma con molta più soddisfazione ciò che è gratis o quasi. Magari si è pronti a criticarlo, denigrarlo, disprezzarlo, ma alla fine costa poco o niente, sicuramente molto meno di un mensile internet illimitato o di un abbonamento a Sky. In più la tv generalista resterà l’unico palcoscenico che ci fa sentire parte di una collettività. Ognuno sul proprio pc/smartphone o altro si ritaglierà il proprio palinsesto, il suo personale menu di generi e storie di fiction, ma l’evento da condividere con gli altri, quello che ti farà sentire parte di una società in trasformazione, quello lo cercherai ancora sulle generaliste. E’ come la partita della nazionale. Se quella della tua squadra te la guardi sulla rete dedicata con il telecronista tifoso come te, quella della nazionale, naturalmente intendo negli eventi importanti che fanno epoca, come i mondiali o gli europei, quella la vedi insieme a tutti sulla rete ammiraglia. Per quanto riguarda i generi, vale la risposta di prima. Saranno sempre più importanti e sempre più specifici. Ognuno conterrà al suo interno dei sottogeneri, delle ibridazioni, dei cloni. Ci vorrà una nuova generazione di sceneggiatori altamente specializzata, con vocazione internazionale, preferibilmente bilingue, ma con la conoscenza approfondita di almeno un dialetto locale, multirazziale, aperta a tutte le religioni, a tutti gli aspetti della sessualità, appassionata fino al limite dell’ossessione di quel genere in particolare, al punto da conoscerne approfonditamente la storia, gli autori e le serie del passato. A loro passeremo il testimone.