Il cuore sempre
Ciao Luca, innanzitutto raccontaci la trama del romanzo, o meglio il pitch.
È la storia di una donna che subisce un abuso e che trova dentro di sé la forza per riscattarsi. È ambientato in un sud particolare, cioè l’hinterland napoletano degli anni ’80, che in realtà sembra fermo a 50 anni prima. In molte zone dell’Italia, infatti, sopravvive ancora oggi una cultura atavica, di cui le prime vittime sono le donne. Donne che subiscono discriminazioni in famiglia e sul lavoro. Nel romanzo si parla di una discriminazione che nasce tra le mura domestiche ma poi si proietta al di fuori e attraversa la vita di tutti i giorni. La protagonista fa un percorso in cui passa da essere figlia – e vittima – a donna che decide del proprio destino e lo fa seguendo il proprio cuore, scoprendo dentro di sé quel talento e quella missione che noi tutti abbiamo. Tutti dobbiamo arrivare a scoprire il motivo per cui siamo qui sulla Terra e lei lo fa scappando da un grande dolore, ma è un percorso che alla fine è il percorso di tutti.
Come hai scelto questa storia?
È una storia vera di una persona che conosco bene e che poi ho romanzato. Inizialmente ho registrato una lunga intervista con lei, di circa 30 ore. Ingenuamente pensavo che sarebbe bastato fare una trascrizione, ero al mio primo romanzo e credevo bastasse questo. Ma la protagonista Angela parla in dialetto stretto e con la semplice trascrizione non si capiva niente. Ma soprattutto non c’era nelle sue parole il senso della sua vita. Ho capito che non basta riportare fedelmente dei fatti per dare un senso, ma bisogna reinventarli per rendere comprensibile l’anima del racconto. E questa operazione si fa sia selezionando il materiale, sia cercando una struttura e uno stile adeguati.
Solo nel momento in cui la mia voce si è fusa con quella della protagonista si è davvero creato un incontro con quel mondo e ho capito ciò che veramente mi interessava. La famiglia di cui racconto nel romanzo attua un abuso che è prima di tutto psicologico, nel senso che c’è una famiglia che decide per te, che dice: questo è il tuo destino. Ecco il tema che volevo sviscerare: come si può e si deve, al di là di quello che ti insegnano da piccoli, cercare una via personale per esprimersi e vivere. E come si debba prendere distanza dalle persone che sono i nostri punti di riferimento, le persone che dovrebbero amarci, ma che in alcuni casi diventano i nostri carnefici.
Perché hai deciso di scrivere un romanzo?
Nel 2011 lavoravo a Cento Vetrine ed erano ormai undici anni che lavoravo alla soap-opera, volevo cimentarmi con un altro genere di scrittura. La soap dà continuità professionale ed è un’enorme scuola, perché devi sempre scrivere, avere idee e si impara tantissimo, ma dopo un po’ di anni diventa logorante. Come sceneggiatore sentivo il bisogno di dedicarmi a cose mie. E un romanzo era l’unico lavoro che potevo fare nei ritagli di tempo, continuando a lavorare full-time alla soap. L’incontro con questa storia è stato molto casuale: Angela, la mia amica, un giorno mi ha confidato che quando era piccola il nonno aveva abusato di lei. Io mi sono incuriosito, le ho chiesto di dirmi di più e ho capito che, dietro questo fatto grave, c’era tutto un mondo di conflitti che poteva essere raccontato. Ho cominciato a scrivere le sere e quando potevo, è stato un processo molto lungo, con tantissime riscritture. Avevo un doppio problema: prima capire come gestire il materiale e poi capire lo stile da usare nel racconto.
Sembra che tu sia partito con l’idea di fare una cronaca, quasi un lavoro giornalistico, più che un romanzo.
Sì, inizialmente voleva quasi essere un instant book, ma poi mi sono reso conto che non era possibile. Quello che ho fatto è stato proprio un lavoro da sceneggiatore, cioè prendere una storia e farla mia. Noi non scriviamo di noi stessi, però raccontando altri personaggi parliamo anche di noi, e io ho fatto proprio questo. È strano, perché più tradivo il materiale di partenza, più in realtà lo rispettavo e più trovavo una mia voce. Il passaggio fondamentale è stato quando ho rinunciato a far parlare la protagonista in dialetto napoletano. Inizialmente pensavo solo di italianizzare leggermente la parlata per renderla comprensibile, invece poi ho fatto una scelta più drastica: lei parla un italiano pulito e tutti gli altri personaggi parlano in dialetto. In questo modo mi sono sentito più in sintonia con lei, perché io non sono di Napoli, l’italiano è diventata la nostra lingua comune. Il romanzo è in prima persona e la protagonista racconta la sua vita da quando era piccola fino ai giorni nostri (oggi ha 45 anni).
È interessante che tu abbia scelto di partire da un’intervista, perché uno sceneggiatore lavora soprattutto sul dialogo o diciamo che il suo stile di scrittura si esprime nei dialoghi, mentre invece in un romanzo è tutto molto diverso. Come hai vissuto questa differente esperienza di scrittura?
Ho notato che in una sceneggiatura si può anche barare. Quando diciamo che una scena o un dialogo “funziona”, a volte noi sceneggiatori lo diciamo perché manda avanti la storia, anche se non ne siamo completamente soddisfatti. E in generale, il mestiere ti aiuta a far quadrare i conti, a scrivere qualcosa di buono anche se non sei ispirato o non aderisci emotivamente alla storia. In un romanzo invece, ogni parola pesa. Non c’è scampo. La mancanza di ritmo si sente immediatamente, non si può aggirare il problema, se non c’è ispirazione avverti un crollo quasi energetico. Questo dipende anche dal fatto che la sceneggiatura è comunque un testo tecnico che prelude al film, poi è anche un’esperienza di lettura, mentre il romanzo è scritto proprio per essere letto, è solo un’esperienza di lettura. Quindi col romanzo sei più scoperto, più vulnerabile.
Materialmente come è stato il processo di scrittura per te?
È stato terribile, soprattutto perché partivo dall’inesperienza. Ho fatto corsi di scrittura, ma sempre finalizzati alla sceneggiatura. Per esempio, quando ero al Centro Sperimentale ci esercitavamo con dei racconti, ma servivano a coltivare la fantasia e la velocità. Poi con la soap mi sono ulteriormente specializzato, perché lì bisogna essere precisi e veloci, scrivere tanto, trovare ogni volta soluzioni nuove, però insomma, come scrittore di narrativa partivo da zero. Non avevo limiti di tempo perché non avevo scadenze, ma non avevo neanche punti di riferimento ed ero lì che mi chiedevo: Come faccio? Che stile uso? Io mi sono dato una regola: volevo un periodare asciutto, che non obbligasse il lettore a tornare indietro a rileggere. Volevo uno stile il più possibile diretto e lineare. Questo per rispettare il carattere della protagonista, che è una donna del popolo, e poi perché non volevo fare l’errore tipico di certi scrittori che nelle sceneggiature usano uno stile secco e incisivo e poi nei romanzi si sfogano e cominciano a scrivere frasi lunghissime e piene di descrizioni. Ho però cercato di infondere molto calore a quello che scrivevo e in questo la soap è stata una lezione importante. Volevo una storia di viscere, dove la protagonista creasse empatia con il lettore. Volevo dar vita a un mondo femminile forte, questo anche perché la mia vita è costellata di figure femminili importanti. E volevo un linguaggio che fosse specchio di quel mondo.
Questo è interessante, perché spesso ci sono romanzi come film, cioè dove tutto è raccontato attraverso eventi, conflitti, scene che esternano le emozioni dei personaggi. Quando invece il bello della letteratura è che ti permette anche di raccontare il mondo interiore e mi sembra che nel tuo romanzo questa dimensione interna sia appunto molto importante.
Sì, è così. Pensa che quando lavoravo a Centovetrine mi sono occupato soprattutto dell’edizione dei dialoghi. Invece scrivendo il romanzo mi sono accorto che i dialoghi sono pochissimi. Anche perché sono partito da un’intervista, quindi da una specie di monologo interiore, e non sono riuscito a distanziarmi da questo. Per me era anche importante rispettare questo aspetto di confessione, quasi psicanalitico, che è all’origine del romanzo.
Come hai strutturato il romanzo?
La struttura è fondamentalmente cronologica, tranne quando la protagonista ricorda momenti passati, come dei flashback: lì il tempo diviene più fluido. Il romanzo è anche la storia di una riconciliazione fra una madre e una figlia e quando questo avviene emergono dei segreti familiari, prima sepolti nel passato. Poi ci sono dei momenti in cui la protagonista si ferma a fare delle riflessioni personali e questo lo trovo giusto nel romanzo, mentre quando lo vedo in un film, affidato ai dialoghi o alla voce fuori campo, non mi convince quasi mai. Comunque, nel romanzo il punto di vista è quello di un’adulta che racconta quanto le è successo da bambina, quindi c’è sia partecipazione che distacco: il distacco le permette di riflettere, ma allo stesso tempo rivivere quei fatti la riporta a un passato di dolore.
Ci racconti proprio materialmente come è andata la scrittura, in che modo hai scritto, come hai vissuto le riscritture?
Ho scritto più o meno in ordine cronologico, dall’inizio alla fine, ma i primi capitoli sono quelli che ho riscritto di più. E infatti nelle prime pagine, secondo me, si sente di più la testa, perché non riuscivo ad affidarmi al processo creativo, cercavo di essere preciso, di controllare tutto. Il resto del romanzo è più libero e, dal mio punto di vista, migliore, anche se alcuni mi dicono il contrario, poi è molto soggettivo. Una volta iniziato a scrivere è andato tutto liscio, mentre il finale di nuovo mi ha dato problemi. Avevo scritto un finale che non mi convinceva e dopo essermi confrontato con dei colleghi ho deciso di cambiarlo e mi sono permesso di fare proprio un’opera di creazione. In realtà tutto il romanzo è pieno di invenzioni: per esempio, il momento in cui la protagonista prova per la prima volta il godimento sessuale io l’ho proprio raccontato e romanzato, mentre lei nell’intervista l’aveva liquidato in poche parole. Mi sembrava un punto di svolta importante, che tra l’altro era stato molto preparato, visto che Angela ha avuto sempre esperienze terribili con i maschi. Poi, per quel che riguarda le riscritture, ce ne sono state infinite da un punto di vista stilistico, fino a un attimo prima della pubblicazione, ci ho messo mano continuamente. Dal punto di vista strutturale ho operato soprattutto tagli e spostamenti: c’era ad esempio un capitolo introduttivo che ad un dato momento ho spostato al centro, poi verso la fine e poi l’ho eliminato del tutto! Anche alcuni episodi, pure corposi, sono stati tagliati, ma l’ho fatto in tempi più recenti, dopo aver maturato un po’ di distacco.
Come sei arrivato alla pubblicazione? Hai avuto una consulenza editoriale?
Ho provato a lavorare con un editor professionista, ma non mi sono trovato bene. Da sceneggiatore sono abituato a confrontarmi con i miei colleghi e a buttare continuamente idee sul tavolo, anche a stravolgere le cose velocemente. Mentre questo editor aveva un altro ritmo di lavoro, era abituato a far maturare le idee lentamente e quindi ho interrotto la collaborazione con lui. Poi, completato il manoscritto, ho iniziato a cercare una casa editrice, partendo naturalmente dalle più importanti, e mi sono trovato davanti a una dinamica molto simile a quella tra sceneggiatore e (certi) produttori: è difficile trovare il referente giusto per il proprio lavoro e ancora più difficile farsi leggere. Le case editrici in generale non leggono opere di esordienti e spesso non rispondono neanche alle mail per dirti che hanno ricevuto il materiale. Io ho avuto molte difficoltà a conoscere, anche dopo mesi dall’invio, un’opinione sul mio lavoro. Poi per fortuna ho incontrato questa piccola ed agguerrita casa editrice, L’Erudita, che è una costola di un editore romano conosciuto, Giulio Perrone. Loro hanno letto, gli è piaciuto e nel giro di poco più di un mese ho pubblicato.
Ci dai un anteprima sui tuoi progetti futuri?
C’è un progetto seriale di cui per ora non voglio dire nulla, per scaramanzia. Poi sto lavorando al montaggio di un documentario che ho scritto con Maria Teresa Venditti e diretto, si intitola Essere Divina e racconta di una scuola per Drag Queen che c’è a Milano, un posto meraviglioso, dove si può sperimentare una libertà espressiva che fuori quasi mai ci è concessa. È un progetto autofinanziato che adesso cerchiamo di portare a termine con una campagna di crowdfunding.
Un ultima domanda: come ti senti come membro della WGI?
Benissimo! Proprio ultimamente, all’interno del workshop con James Hart ho percepito l’importanza dell’Associazione. Negli ultimi mesi ho visto una crescita esponenziale delle attività e anche della partecipazione. E voglio davvero ringraziare i colleghi che mettono a disposizione tempo e fatica per far circolare notizie su festival, concorsi e altre informazioni che prima erano demandate solo all’iniziativa personale. È molto bello vedere gente che si vuole confrontare senza la paura che il confronto significhi perdere qualcosa, ma anzi convinti che un interscambio fra colleghi sia vantaggioso per tutti. Sono davvero contento e ammirato del lavoro della Guild, si è creato qualcosa di importante per tutta la categoria, una categoria che prima non credeva neanche alla capacità di aggregazione e condivideva solo un momento di crisi del settore. Adesso invece c’è una condivisione di iniziative positive, si condivide la parte positiva di questo mestiere e sento una bella energia. A me è venuta più voglia di partecipare e condividere con i colleghi le cose che faccio.