C’era una volta Studio Uno
La nostra socia Lea Tafuri ha scritto con Lucia Zei (che firma anche il soggetto) la sceneggiatura della miniserie C’era una volta Studio Uno, in onda il 13 e il 14 febbraio su RAI UNO.
Lea, la prima domanda come sai è il pitch d’obbligo, cosa racconta C’era una volta Studio Uno? La risposta sembra scontata e invece è la chiave di tutto: stupiscici…
All’inizio degli anni ’60 tre ragazze entrano alla Rai con aspirazioni diverse e scoprono, lavorando al programma di punta Studio Uno, di avere un talento diverso da quello che immaginavano. Un sogno che divenendo realtà le libera dai loro sogni…
Facci capire meglio: i protagonisti storici come Mina e le gemelle Kessler finiscono sullo sfondo e arrivano in primo piano i personaggi secondari. Non avete avuto paura di un effetto deludente, tipo “voglio ma non posso”? La narrazione non perde di fascino?
A me non sempre convince la scelta di raccontare i personaggi storici in maniera diretta, soprattutto quando si tratta di icone dell’immaginario collettivo recente. Preferisco poterli guardare assumendo come punto di vista personaggi che tu definisci “secondari”, soprattutto di finzione: questo lascia maggiore libertà nel racconto. Non temo l’effetto “vorrei ma non posso” perché credo che sia proprio attraverso il punto di vista di personaggi più comuni, più vicini a noi, che si possa restituire il fascino per esempio della celebrità o del mondo dello spettacolo, e il brivido di potercisi accostare.
Questa scelta di “invisibilità” dei protagonisti era stata già parzialmente frequentata da “1992” con gli intoccabili come Berlusconi e Craxi mai interamente visualizzati… E’ un precedente con cui vi siete confrontati? Ne avete imparato qualcosa?
Che mi ricordi non ne abbiamo mai parlato… Ma anche Mina potrebbe per altri versi essere ritenuta intoccabile!
Assolutamente sì. Facciamo una controprova: chi dei protagonisti di allora ha diritto ad una messa in scena e al volto di un attore?
Chi stava dietro le quinte e pertanto aveva o ha un volto meno riconoscibile. Gli autori e registi di Studio Uno Falqui e Sacerdote, il direttore generale Bernabei e il suo più stretto collaboratore Gennarini.
Domanda tecnica: come è nata la storia, come si è sviluppata la scrittura, ci sono state richieste del regista sulla sceneggiatura, le riprese rispettano il testo?
Il progetto ha avuto una lunghissima gestazione: credo che se ne parlasse da anni, che da principio si volesse farne una serie e che altri autori avessero scritto delle bibbie… Poi la Rai ha optato per una miniserie. Io sono entrata solo in quest’ultima fase, grazie a Lucia Zei che è l’autrice del soggetto e con cui ho spesso lavorato in passato. Naturalmente abbiamo cominciato con il lavoro di documentazione. Fondamentale è stato potersi avvalere di una testimonianza diretta come quella di Ettore Bernabei, che in diversi colloqui ci ha raccontato la Rai di quegli anni. Devo dire che in tutte le storie ispirate a personaggi o fatti reali, l’incontro con i testimoni diretti o comunque con chi partecipa di una realtà mi ha sempre aiutato ad individuare la chiave di accesso sintetica più di tanti libri. Per il resto, dopo l’assestamento delle prime stesure, il processo è stato abbastanza lineare. Il regista Riccardo Donna ha contribuito con note e idee e soprattutto ha fatto un grande lavoro di messa in scena.
Veniamo all’altro rischio di un’operazione di questo genere: la tv che parla di se stessa. Rischio involutivo, come un’ammissione di colpa: era meglio la tv di allora, cerchiamo di rilanciare l’oggi in nome della gloria passata… Come avete risolto?
Il rischio dell’autoreferenzialità è stato a tutti ben noto e che dire… speriamo di superare la prova! In ogni caso, guardare al passato ti consente di farti delle domande, al di là delle solite recriminazioni… Personalmente ritengo che già questo – riuscire a porre delle domande – è per uno sceneggiatore un grande traguardo. Poi tocca ad ognuno rispondere.
Sarai andata a rivedere le puntate originali: che ci dici dei testi di allora? Hai individuato delle caratteristiche ricorrenti, dei filoni? Come risultano messi a confronto con l’intrattenimento di oggi?
Guardando le puntate di Studio Uno in realtà sono rimasta colpita più che dai testi dalla fotografia: mi ha sorpreso tantissimo l’uso del controluce, del contrasto, delle luci di taglio, soluzioni quasi da film noir impensabili nella tv di oggi. In questo davvero un programma come Studio Uno mi è apparso più “moderno” e sperimentale rispetto ai suoi omologhi di oggi.
Piume e paillettes, coreografie affollate, mimi, sketch, canzoni… Il varietà è efficace tanto più segue il tradizionale impianto, la scaletta di un circo?
Probabilmente sì, non sono un’esperta del genere ma credo sia questo il senso del genere “varietà”, come dice la parola stessa… Anche la televisione in un certo senso segue la stessa logica: un montaggio di numeri e attrazioni diverse…
Le vostre protagoniste sono tre donne, tre ragazze: perché questa scelta dominante di genere? Da dove è nata?
Ci piaceva raccontare storie di emancipazione femminile nell’Italia degli anni ’60 e ci è venuto naturale differenziare il tema in tre personaggi e percorsi diversi che si riflettono l’uno sull’altro. In realtà accanto alle tre ragazze, c’è anche un personaggio maschile che ha lo status di co-protagonista e che compie un percorso di formazione analogo. Comunque per quanto si possa considerare una scelta non nuovissima, devo dire che per me ha funzionato e funziona, anche nel dare una patina di freschezza al racconto.
I film collettivi come questo rischiano di essere dispersivi, l’identificazione col pubblico più difficile. Come avete ovviato?
Sì, il rischio c’è, ma al tempo stesso le storie corali offrono più chance: si può scegliere a chi affezionarsi, in quali panni riconoscersi e anche preferire ora l’uno ora l’altro personaggio a seconda dei diversi momenti dei loro percorsi – il che è una dinamica molto umana. Io ho una preferenza netta per una delle tre ragazze, ma al momento non posso rivelarla!
Passiamo al tema. In alcune note di sceneggiatura hai parlato – per quanto riguarda l’arco narrativo dei protagonisti della miniserie, non protagonisti di Studio Uno – del “sentirsi utili nel partecipare a un grande processo collettivo”. Collettivo in che senso? Nel trasferimento di senso dai libri, dalla scuola, dalle piazze alla tv?
Sì, mi sembra che la cultura sia sempre espressione di una collettività, frutto di collaborazioni, di incontri, relazioni e reazioni. A questo proposito mi riaggancio alla prima domanda che mi hai fatto: non credo che a fare la storia siano solo i personaggi principali, e neanche le “masse”, ma ogni singolo “personaggio” che sulla scena del mondo contribuisce con le sue scelte e le idee a tracciare la strada comune.
La tv non è più l’unico luogo popolare dell’audiovisivo, le piattaforme si moltiplicano, ma la RAI in quanto tale, a tuo avviso, deve continuare a fare i conti con questa responsabilità di salvaguardare, diffondere, alimentare l’identità del paese?
Direi proprio di sì!!!
Grazie, Lea, e in bocca al lupo!