Le pietre in tasca
“Le pietre in tasca” di Laura Sabatino. Oltre a essere, molto semplicemente, un bel romanzo – e anche molto divertente – è un libro che tutti gli sceneggiatori dovrebbero leggere, un po’ come fu “Saga” di Tonino Benacquista un paio di decenni fa. Non solo perché il protagonista, Guido, è uno sceneggiatore, ma perché Laura ha saputo descrivere con grande finezza tutti i meccanismi mentali che contraddistinguono la nostra categoria, e tutti i meccanismi perversi del nostro ambiente. Compreso il rapporto sadomasochistico che spesso ci lega alle nostre – per dirla da sindacato – controparti.
Laura Sabatino, sceneggiatrice, narratrice, e naturalmente socia WGI. Ti va di raccontarci un po’ più di te?
Ho cominciato a studiare e occuparmi di sceneggiatura mentre ero ancora al liceo, grazie ai corsi di un centro culturale napoletano che è stato il punto di riferimento di molti. Appassionata di cinema da sempre, della sceneggiatura mi piaceva l’idea di essere all’inizio del processo creativo, stare dietro le quinte e costruire storie. Già scrivevo racconti, come credo un po’ tutti a quell’età, ma con gli amici conosciuti al centro ho iniziato a scrivere i primi tentativi di sceneggiatura, desunti dai quei racconti. Nel frattempo mi sono laureata con una tesi sempre sulla sceneggiatura in Italia, e poi al secondo tentativo ho vinto il concorso al Centro Sperimentale di Cinematografia. Così è cominciata la mia avventura romana. Erano gli anni dell’articolo 28 e articolo 8, una legge sul cinema molto vituperata che però aveva il merito di finanziare opere cinematografiche prime e seconde. In questo modo sono nati i primi film che ho scritto, spesso assieme agli amici conosciuti a Napoli e al Centro, che restano tuttora il mio nucleo di riferimento. Di televisione se ne faceva poca, ma poi arrivò “Un Posto al sole”, primo vero successo della lunga serialità in Italia, e quindi “La Squadra”. Io ho scritto per entrambi, prima di passare alle miniserie di Mediaset, da “Onore e Rispetto” a “Caterina e le sue figlie”.
Il protagonista de “Le pietre in tasca” all’inizio è pieno di sogni, poi compie una sorta di discesa agli Inferi e infine risorge. La sua discesa agli Inferi coincide con il suo rapporto con una produttrice televisiva: La Signora. Possiamo definirla un’alleata-antagonista? Ci parli di questo personaggio e del rapporto che Guido instaura con lei?
È un rapporto dalle molte facce: a un primo livello certamente committente/autore, ma potrebbe anche essere visto come madre/figlio, tiranno/suddito, grande seduttrice/sedotto. La signora è di sicuro un’alleata che diventa un’antagonista e forse, a un certo punto, anche una nemica, e mi fa piacere che tu lo dica, perché solitamente questi sono gli antagonisti che preferisco nelle storie. Il rapporto che instaura con Guido progredisce e diventa invasivo perché in un certo senso è lo stesso Guido a permetterglielo, subendone il fascino. Una delle caratteristiche di Guido è quella di saper mediare e non cercare mai lo scontro aperto, caratteristica che però comporta un rischio notevole se non si riesce a trovare il giusto limite di ciò che si può sacrificare di se stessi. Il limite è sottile, il compromesso può diventare facilmente tradimento, la compiacenza può portare alla corruzione. È ciò che Guido scopre sulla sua pelle (credo, ammesso che il romanzo funzioni!).
Hai iniziato con il cinema, ora la narrativa e, in mezzo, una lunga carriera televisiva. Di cui però, nella biografia sul retro del tuo libro, non vi è traccia. È stata una discesa agli Inferi, come per Guido?
Devo sinceramente dire che quella della biografia non è stata una cosa intenzionale. La nota biografica che avevo preparato era più lunga, forse troppo e qualcosa andava tagliato, ma del taglio mi sono resa conto solo a libro stampato. In pratica sono rimaste soltanto le sceneggiature dei film per cui ho ricevuto dei riconoscimenti, che poi sono anche i due film di cui – alla fine di tutto – vado più fiera: “Ribelli per caso”, di cui avevo scritto anche il soggetto, e “Il Resto di Niente”, tratto dal romanzo di Striano, alla cui sceneggiatura invece ho solo collaborato. Non è che mi vergogni del lavoro televisivo, al contrario, e non credo che la televisione di per sé sia una discesa agli inferi. Può diventarlo nel momento in cui ci si lascia fagocitare da persone, rapporti e cose. Ma questo vale per qualsiasi ambiente di lavoro, credo, ovunque ci siano persone che vogliono fare il lavoro per cui sono preparati e si scontrano con antagonisti che li ostacolano per una grande varietà di motivi. In buona o cattiva fede, per noncuranza, arroganza o per semplice incompetenza.
Il tuo protagonista, Guido, compie poco prima del finale una doppia – per usare un termine “da sceneggiatore” – visita alla morte, e il tono della narrazione cambia, si fa duro, non fa sconti. Guido grazie ad essa si riappropria di qualcosa che aveva dimenticato o trascurato. Cosa rischiamo di dimenticare?
Si è portati a pensare che cinema e televisione siano mondi effimeri, mentre invece non lo sono. Quello che si rischia di dimenticare è che ogni film, ogni fiction, ogni cosa che pubblichiamo, ha una valenza politica, anche quando la politica non è l’argomento, anzi forse ancora di più quando la politica non è l’argomento. Credo che di fondo bisogna essere autentici e sinceri in quello che si vuole raccontare, con un punto di vista saldo. A Guido capita di non esserlo più e ci mette un po’ di tempo per capirlo.
Quali sono i problemi della televisione in Italia, secondo te? E di cosa soffre maggiormente la nostra categoria?
Credo che ci troviamo in un momento di transizione, lo streaming ha già cambiato il modo di guardare la tv e quello che mi auguro è che porti in futuro anche in Italia un maggior numero di produzioni e più varietà nei soggetti e nei progetti, più controparti diverse dalle generaliste che sono in qualche modo obbligate a inseguire il loro pubblico e i grandi ascolti, e fatalmente finiscono per ripetere se stesse. Se è vero che altrove si sta vivendo una sorta di età dell’oro della fiction, forse cambiando lo scenario, un passo avanti è possibile farlo anche da noi. Talento e passione non ci mancano. Proprio per questo mi piacerebbe che la categoria fosse più compatta, unita, e direi anche collaborativa. Anche se molto meno che in passato, è una categoria che soffre ancora di invisibilità e mancanza di regole. Resta un ruolo che molti ricoprono senza essere effettivamente preparati per farlo. La sceneggiatura è un tipo di scrittura difficilissima, scrittura tecnica e artistica insieme, difficile da realizzare e difficile anche da leggere e capire. E però di fatto, chiunque può firmare una sceneggiatura, chiunque può mettere bocca, e se da un lato questo può essere una risorsa, dall’altro credo che il ruolo vada difeso meglio. Un sindacato forte e compatto sarebbe una tutela e una garanzia per tutti, i giovani che vogliono affacciarsi a questo mondo e i veterani.
Mi ha molto colpito un passo del tuo libro. A Guido viene raccontato un soggetto improbabile, da una persona altrettanto improbabile, ma da quel soggetto a quanto pare c’è l’intenzione di trarre un film. E tu scrivi: “Dopo un primo momento di totale stupore e perplessità, Guido era già passato alla fase successiva, di apertura e costruzione”. Oltre a riconoscere nelle tue parole un meccanismo mentale noto, mi ha fatto pensare allo sceneggiatore come a un “riparatore” che non riesce a resistere davanti alla possibilità di dare una forma sensata a ciò che ne è privo, un riparatore di storie e forse della realtà. Cosa è per te il nostro mestiere?
Sì, è esattamente quello che tu dici, un riparatore di storie, quando non ne è il creatore. Una specie di ricercatore e guardiano del senso profondo, e la tentazione sempre presente è di fare lo stesso anche nella realtà, anche quando non è possibile. Ricomporre il quadro, mettere insieme i tasselli del puzzle, rimontare. Io ho sempre vissuto il mio lavoro come simile a quello di un falegname o di un artigiano, uno che aggiusta e crea, modella e sistema, dando struttura alle cose. Oppure di un timoniere, che tiene la rotta anche nella tempesta.
Nel tuo romanzo compaiono una serie di personaggi esilaranti e “riconoscibili”, nel senso che chiunque di noi può ritrovarvi qualcuno con cui ha avuto a che fare, dall’attrice capricciosa all’assistente editoriale sull’orlo di una crisi di nervi. Avevi in mente qualcuno in particolare o sono una summa di quelli con cui hai avuto a che fare?
Sono una summa, tutti verosimili (spero), ma nessuno perfettamente aderente alla realtà, anche se certamente dalla mia esperienza ho rubato parecchio. Tre romanzi estremamente diversi mi hanno guidata: “Il mondo deve sapere”, “Il diavolo veste Prada” e “Gli ultimi fuochi”, che tutti e tre costruiscono un loro mondo a partire da personaggi e ambienti reali. Ho scelto un protagonista maschile proprio per mettere il giusto distacco tra me e il personaggio, che doveva essere altro da me, così come il mondo in cui si muove doveva essere altro da quello reale. Non volevo scrivere un libro autobiografico, non volevo che la realtà fagocitasse il romanzo, volevo scrivere una storia che risuonasse e possibilmente colpisse in maniera differente. Devo anche aggiungere che l’idea di questo libro viene da molto lontano, ma che poi materialmente il romanzo è stato scritto in un momento molto particolare per me, in cui ero in pausa dal lavoro per cause di forza maggiore, e mi è capitato così di guardarmi indietro e ripensare, ricostruire, ricordare. Spero di averlo fatto senza acrimonia e con la giusta dose di nostalgia e spirito critico, soprattutto verso me stessa.
Ora che hai due romanzi all’attivo, ti senti più sceneggiatrice o narratrice?
Resto sceneggiatrice, non potrei farne a meno, oramai è la mia forma mentis. Ma il romanzo è una forma di espressione a cui non credo di poter più rinunciare, e nemmeno so dire esattamente il perché. So che entrambi i romanzi che ho pubblicato non avrebbero potuto essere soggetti per il cinema, sono storie maturate in un tempo molto lungo e che secondo me meritavano di vedere in qualche modo la luce. È come una piccola voce diversa da quella della sceneggiatrice, che vorrei mantenere viva.
Quali sono le battaglie di cui ha più bisogno la nostra categoria, secondo te?
Di primo impatto rispondo: quelle sindacali, di base. Uno sceneggiatore non ha giorni di malattia, non ha assicurazioni, ha una pensione risibile, orari di lavoro indeterminati, contributi versati che spesso non corrispondono al tempo speso su un progetto. E cosa succede se si ammala o ha un incidente, e deve fermarsi? Può solo contare su se stesso, e questo secondo me va cambiato. Non so in che modo, ma una forma di supporto va trovata.
Aldilà del fatto che ci si diverte per gran parte del romanzo, “Le pietre in tasca” sembra il frutto di un percorso molto sentito, e si chiude con una frase che ho amato molto. Non la riporto per non spoilerare, ma mi sembra che ci offra un suggerimento. Puoi parlacene?
Nello scrivere questo romanzo, guardandomi indietro, mi sono rivista con le mie ambizioni dell’inizio. Tante cose sono successe in questi anni, belle e meno belle, tante delle mie speranze le ho perse, ho perduto persone ed occasioni, ma quello che sento di aver acquistato è una certa consapevolezza di quello che sono, con le mie qualità, i miei errori e tutti i miei limiti. Così a conclusione del romanzo quella frase mi è venuta naturale, come giusta chiusura della storia del protagonista, in cui evidentemente mi riconosco.
Puoi raccontarci qualche tuo progetto per il futuro?
Ho scritto la sceneggiatura di una piccola commedia che credo abbia una sua grazia e dignità, che in questo momento si sta girando a Torino, “Bene, ma non benissimo”. Con gli amici-colleghi di sempre sto scrivendo altre sceneggiature per il cinema, e un documentario. Naturalmente sto pensando a nuovi romanzi e sto anche progettando qualcosa per la tv. In questi anni ho sempre lavorato su soggetti televisivi altrui, magari è venuto il momento di cambiare.