Il silenzio dell’acqua
Con grande orgoglio abbiamo intervistato i nostri soci Jean Ludwigg e Leonardo Valenti, creatori della serie crime “Il silenzio dell’Acqua”, andata in onda su canale 5 che segna il nuovo corso della fiction Mediaset voluto dal direttore Daniele Cesarano. Leonardo e Jean ci raccontano come hanno lavorato alla scrittura della serie, rapportandosi ai modelli del genere, con un ragionamento sull’evoluzione del panorama della serialità. E in conclusione anche qualche osservazione sindacale sul contratto tipo.
Domanda iniziale di rito: ci fate il pitch della serie?
Leonardo Valenti: In realtà è assolutamente banale come pitch. In un piccolo borgo che dà sul mare la scomparsa di una ragazza scoperchia i segreti di quelli che sembravano non avere segreti l’uno per l’altro. Una comunità che sembrava unita e legata e aperta in realtà si rivela piena di segreti per la scomparsa di uno dei loro membri.
Ci potete raccontare come è stato avviato il progetto, ho letto che è stata proprio una richiesta di Cesarano il primo imput. E come si è svolta la scrittura?
LV: Sì, Daniele mi ha chiesto un murder mystery. E io gli ho detto che andava bene, e che l’avrei scritto con Jean. A quel punto, dopo 15 giorni, abbiamo presentato un documento che è stato approvato dalla rete e ha dato origine alla scrittura della serie. La scrittura è durata un anno solare preciso. Dal giorno della consegna di questo concept alla consegna dell’ultima versione della sceneggiatura è passato proprio un anno. Abbiamo iniziato l’11 aprile e si è terminato l’11 aprile dell’anno successivo. Poi considera che non è che non abbiamo riscritto, abbiamo fatto riscritture di soggetto di serie in itinere, trattamenti e tutto questo in un anno solo. In due.
Jean Ludwigg: Vorrei far capire questo. Noi abbiamo lavorato a una velocità impensabile per i motivi che ha detto Leo, e anche per poter iniziare le riprese entro un certo tempo previsto. Abbiamo lavorato a un ritmo frenetico, e ho fatto una cosa che non ho mai fatto prima: se mi mettevo a letto e mi svegliavo in piena notte e capivo di non avere sonno, mi alzavo e mi mettevo a scrivere fino alle cinque, cinque e mezza, sfruttavo ogni momento possibile. Questo per fare capire come Leo e io lavoravamo.
È dichiarata l’ispirazione da Broadchurch, molto forte anche nella messa in scena, e gli omaggi a Twin Peaks. In America la ragazza assassinata piena di segreti è considerata quasi un archetipo, un topos della serialità tv tant’è che si parla di “dead girl show”. Come vi siete sganciati da questi riferimenti per produrre qualcosa di originale, con una chiara impronta italiana?
LV: Per me, in un genere così codificato, quello che cambia può essere l’identità della vittima, o a un livello più profondo il tema, quello è la cosa che contraddistingue il murder mystery da una serie come un’altra. Noi siamo partiti con l’intenzione di fare un murder mystery italiano, perché ci era stato anche chiesto. Siamo partiti da un’idea di plot e poi ci siamo focalizzati sul tema. L’idea di plot era avere una ragazza incinta di poche settimane che scompare e poi viene ritrovata morta. Ma poi questa cosa della maternità e della paternità è diventata il tema portante di tutta la serie. “Il silenzio dell’acqua” parla di questo, di maternità e paternità, anche nei sospettati minori questa cosa ha un’eco. Nico, il bidello che ha la figlia… tutto gira a attorno a quel tema lì, in modo centripeto, va verso quella direzione, che riguarda madri, padri e figli, paternità mancata, maternità mancata, maternità voluta, paternità voluta, cosa vuol dire essere padre, cosa vuol dire non poterlo essere, che cosa vuol dire essere madre e cosa vuol dire non poterlo essere, questo è il cuore del racconto che volevamo sviscerare e ci rende assolutamente originali rispetto a qualsiasi altro murder mystery che abbiamo analizzato scena per scena evidentemente.
JL: Per noi era importante avere un tema, un tema che è venuto quasi da solo. Avevamo deciso senza neanche saperlo che quello era il tema, poi è e venuto fuori a livello cosciente e lo abbiamo fatto sbocciare.
Voi avete scelto di focalizzarvi su questo tema della genitorialità perché lo ritenete legato all’Italia?
LV: Io lo ritengo universale. Questa doveva essere una serie italiana per alcuni elementi del racconto, come il calore, eccetera. In linea di massima sono rispettati i codici di un racconto internazionale. È un tema che può parlare a un italiano, come a un francese, un tedesco, come a un cinese. Poi non sappiamo se questa cosa accadrà. Ma le chance che con un tema così il racconto si apra a una vendita estera in realtà c’è. In realtà il tentativo è stato di cercare qualcosa di universale.
JL: Anche perché, dirò una cosa estremamente banale, ma è così: siamo tutti figli e molti di noi sono anche padri e madri. Più transgenerazionale e universale di così.
LV: E poi la cosa interessante è che oggi come oggi c’è un grande dibattito sul non voler diventare genitori, perché dopo l’autodeterminazione della donna, che stanno cercando di eliminare del tutto a colpi di picconate legislative, non è più solo una questione femminile, è diventata anche una questione maschile. Voglio essere o non voglio essere genitore, questa cosa anche se non è affrontata frontalmente è legata al tema della maternità e della paternità, perché oggi è tornato a essere un tema centrale.
JL: È un tema che si può vedere sotto diversi punti di vista, questo fa sì che sia un tema molto ricco, che unisce tutti ma divide tutti. È un tema molto forte.
È abbastanza anomalo per le serie generaliste italiane fare a meno del caso di puntata verticale. Anche se certo non è più l’epoca di Distretto e Ris, possiamo dire che almeno per canale 5 avere un crime con solo linea orizzontale non è così frequente, mentre le tendenze della serialità soprattutto cable sembrano andare verso una totale orizzontalità. Dal punto di vista della sceneggiatura quali sono le difficoltà e i vantaggi dei due modelli e voi quale preferite?
JL: Abbiamo fatto in modo che ci fosse un sospettato per ogni puntata sempre, questo per dare più forza all’intera puntata. Ogni puntata è concentrata su un personaggio. Abbiamo concepito otto puntate da cinquanta e ogni puntata metteva in luce un sospettato del caso d’omicidio. Abbiamo fatto un’orizzontalità concependo una struttura a segmenti, in questo senso un po’ classica. L’orizzontalità è sempre più bella. È un racconto. Si lavora sui personaggi in maniera più ritmica, non devi correre, scegli tu i tuoi tempi. È quasi il modo con cui si scrive un romanzo. Non è un caso che Leo abbia scritto una serie che ha nel titolo Romanzo. Se fosse stato verticale non avrebbe potuto chiamarsi Romanzo. Per me come autore non c’è battaglia tra un format e l’altro. Parlo come piacere di scrittura, di sviluppo dei personaggi.
LV: Io, come scrittore, nasco coi casi verticali e quella per le serie a caso chiuso è una battaglia che dura da tempo. Il caso verticale ha un suo senso, perché permette l’accesso alla serie in ogni momento. Non hai bisogno di aver visto necessariamente tutta la prima puntata per capire la puntata 8 o la puntata 7, permette una programmazione abbastanza libera. Guardate come in televisione programmano NCIS o Criminal Minds. Qui in Francia fanno serate con un episodio inedito e degli episodi delle stagioni precedenti messi uno dopo l’altro. Il grande vantaggio della serie verticale è che non morirà mai. Oggi c’è una richiesta maggiore da parte dei network di serie orizzontali, ma il caso verticale non morirà mai perché per un broadcaster mainstream programmarlo è più facile. Per un broadcaster come Sky il caso di puntata non ha molto senso. L’orizzontalità te la godi in binge watching. Diventa una necessità per fidelizzare lo spettatore. Per colpa di Jean, ieri, per esempio mi sono visto Tin Star con Roth, mi sono sparato cinque episodi in una serata. Tempo fa mi sono intrippato con Longmire, con casi verticali, però mi capitava di vederne due per serata, ma cinque no. Le cose, andando su Internet, richiedono orizzontalità. Longmire è nata come serie mainstream, aveva un target un po’ più ampio, poi è finita su Netflix perché aveva caratteristiche particolari, tant’è che credo che le ultime stagioni siano un po’ più orizzontali. C’è il cambio di broadcaster, che cambia anche il format. In Italia è ancora possibile la via mediana, il modello serializzato, tra orizzontalità e verticalità, che ha inventato Valsecchi. Distretto di Polizia era questo. Ma anche RIS, se vuoi. C’era una via di mezzo tra il caso verticale e il caso orizzontale. Distretto era un calderone in cui c’era di tutto. C’era il drama, c’era il poliziesco, c’era la verticalità, c’era l’orizzontalità. Ris in questo è stato un po’ più scientifico, perché almeno lì l’alleggerimento comico già non c’era più. Però c’era un modello di mezzo. In Italia è stato possibile, quindi credo che in Italia sia ancora replicabile.
L’orizzontalità è considerata anche un problema, come ha evidenziato un vecchio articolo di The Atlantic, “From Twin Peaks to The Killing: The Problem of Noir in Tv”, è che una volta che il mistero viene risolto, l’attenzione del pubblico scema e la serie non riesce a trovare abbastanza propellente narrativo per andare avanti, e la storia deve ripartire in qualche modo. CI sono diverse soluzioni: la stagione 2 di Broadchurch parla del processo sullo stesso caso, The Killing ha risolto il caso in 2 stagioni per poi introdurne uno nuovo, nella terza. Come avete immaginato il futuro di Il Silenzio dell’acqua?
LV: No, non è come Broadchurch. Ci sarà forse una seconda stagione. Non è pensata per terminare qui. Ma il caso si chiuderà alla fine della prima stagione. In The Killing ho trovato pecche, allungamenti nella prima stagione, e quindi non lo volevo per la nostra serie. Il rilancio che ci potrebbe essere nella seconda stagione non dovrebbe essere come quello di Broadchurch. Non ha una vera attinenza con quello che abbiamo raccontato nella prima, nonostante ci siano personaggi che dovrebbero ritornare. Ma non posso dire nulla perché attualmente non c’è nulla di certo, e Jean lo sta sviluppando con un’altra persona, perché io sono in esclusiva con la Lux. Ma l’intenzione che avevo l’anno scorso era di proseguire, ma non come ha fatto Broadchurch, e nemmeno come ha fatto The Killing con lo stesso caso diviso in due-tre stagioni.
Quindi alla fine della prima stagione avremo tutte le risposte?
JL: Tutte le risposte, e, se ci sarà un seguito, un nuovo caso.
Parliamo della parte pratica del lavoro, per capire come ha funzionato. Qual è stato il vostro ruolo al di là della scrittura? Voi avete un credito nella serie come creatori, volevo sapere se siete stati coinvolti nelle decisioni creative e avete fatto un po’ più da showrunner?
LV: Creatore e showrunner sono due cose diverse. Dick Wolf firma da creatore, ma non è necessariamente showrunner, gli showrunner sono cambiati nel corso del tempo. Per quindici anni di messa in onda ce non sono stati sette-otto. Sono due ruoli completamente diversi, e c’è uno scrittore internazionale che non vuole fare lo showrunner, ed è Micheal Hirst. Lui fece un’intervista in cui gli chiesero come fare lo showrunner, e lui disse che non faceva lo showrunner, ma se ne sta comodamente a casa a scrivere: “rompo le palle da lì”, ha detto. “Sul set ci va un altro, io scrivo”. Esistono delle formule, come per Vikings, 8×50, in cui creatore e showrunner non sono la stessa persona. Tutto questo per dire che noi non abbiamo fatto gli showrunner della serie.
JL: Ma ci sono state delle novità importanti. Credo che sia la prima serie su Mediaset dove c’è il titolo “Una serie ideata da”. Di questo siamo molto fieri. Aver il cartello “serie creata da” su Mediaset ci rende felici come sceneggiatori, è un primo passo importante. Cesarano è stato con noi, ci ha dato quello spazio, quel tempo, quell’ascolto. Ci ha chiesto dei produttori, chi preferivamo, chi pensavamo potessero quelli più indicati, ci ha chiesto degli attori, chi avessimo in mente. Ha chiesto con interesse, perché per lui era importante che chi creasse la serie dicesse la sua. Tutte cose che sembrano scontate, ma a me sembrano stupende. Non ci è stato chiesto non pro forma, ma perché era importante per Daniele saperlo.
La cosa che mi colpisce è quella della vision, il problema del non avere il “created by” è che manca la visione unificante. Si può dire che in questo prodotto c’è la vostra visione unificante?
JL: Assolutamente sì. In conferenza stampa l’unica cosa importante che sono riuscito a dire è che è la serie che volevamo noi. Era la serie che volevamo noi, all’80%, una percentuale enorme.
In fase di produzione, siete andati sul set, eravate presenti?
LV: No, non eravamo presenti sul set, al montaggio abbiamo fatto qualche osservazione, perché poi in linea di massima il lavoro era corrispondente a quello che avevamo scritto, tranne in alcuni casi in cui la rete aveva chiesto dei tagli, degli spostamenti e dei cambiamenti. Per questo non posso dirvi che abbiamo fatto gli showrunner. Ho fatto lo showrunner da Valsecchi, ma poi non l’ho più fatto. A parte Il Mostro di Firenze dove sono anche accreditato come produttore creativo, e dove ero presente ai casting, eccetera, a parte questi casi qui non ho fatto più lo showrunner. In quei casi magari non ero sempre presente sul set e scrivevo la puntata, ma se c’erano problemi sul set andavo a sistemarli, e quanti ne abbiamo sistemati!
Anche la visione dello showrunner che c’è in Italia, insomma dovrebbe essere una figura che previene i problemi del set, non chiamato a fare i rattoppi dopo.
LV: Io ho una sensazione, che negli Stati Uniti si raccontino in un modo, quando la verità è nel mezzo. La verità è che siamo tutti esseri umani e di registi che ti cambiano le cose sul set in un modo o nell’altro può accadere che succeda. Questa cosa te la cito non perché sia una mia fantasia, ma perché ne parlarono Carol Mendelsohn e non mi ricordo chi a proposito di un episodio di CSI, ma non raccontandola così: nel montaggio è stato dato ad alcune scene un senso completamente diverso da quello che aveva in un primo momento, proprio per alcune scelte registiche che erano state fatte. Ora se queste scelte siano state fatte in accordo con gli autori o no, non te lo so dire, ma loro hanno recuperato l’episodio in montaggio e sembra quasi che la storia si racconti da sé. Non so se sia stato fatto in accordo fra autore e regista. Immagino che accada poche volte, ma può accadere che uno showrunner salvi un episodio anche negli Stati Uniti. Un montatore insieme allo showrunner, che riporta il prodotto alla visione, quando ci si discosta dalla visione.
Io sono stata colpita nella cura del realismo dell’ambientazione e dei personaggi. Ci siamo domandati se c’erano dei particolari riferimenti a dei casi di cronaca nera e se avevate temi particolarmente legati all’Italia.
JL: Noi volevamo come ambientazione l’Italia, ma volevamo un ambiente che fosse come lo desideravamo noi. Volevamo un’Italia nuova sotto tanti aspetti, tant’è che con Leo abbiamo discusso a lungo se cambiarlo completamente, ambientarlo in montagna. È stato fondamentale creare un ambiente che fosse quell’ambiente lì, con quei personaggi, con quelle situazioni. Non è un borgo qualsiasi, è il borgo che abbiamo creato noi, può piacere o no, il borgo è come un personaggio.
Dove è stata girata la serie?
LV: Vicino Trieste.
JL: Nella zona di Duino. Prima con Leo abbiamo pensato alle Marche, alle zone meno conosciute, Tini ha trovato un’ambiente giusto e straordinario.
LV: Quello che volevamo evitare – proprio per statuto – era Roma per il romano, Napoli per il Napoletano. Senza avere nulla contro di loro, ho scritto e sentito parlare napoletano e romano per quindici anni, volevo che la serie fosse diversa anche del punto di vista del linguaggio. Se prendevi Giorgio Pasotti che è di lì non è che lo trapianti a Roma e gli metti attorno tutti attori romani, sta in quel borgo perché è di quelle zone lì e ci sta bene. Non tutti hanno quella cadenza lì nella serie, ma non è la solita romanità, la solita napoletanità o la solita ambientazione siciliana con la mafia, quello lo volevamo evitare come la peste. È un’Italia mai vista.
JL: Un’Italia mai vista. Bella e che magari ti sorprende, perché oltre a scoprire i segreti, c’è anche una scoperta dei posti, con un po’ di marketing, era questa l’idea
Sulla pratica di scrittura. Il vostro metodo di lavoro come funziona?
LV: Abbiamo scritto tutto dall’inizio alla fine in simbiosi, nel senso che le scene singole ce le siamo divise, gli episodi erano divisi in due, ma poi ci siamo ripassati sopra. Ci siamo sentiti tutti i giorni dalla mattina alla sera, dalle nove e mezza alle diciotto e trenta, con una pausa dall’una all’una e mezza. Tutti i giorni dall’11 aprile. Anche da prima dell’11 aprile perché abbiamo iniziato a scrivere a marzo. Quindi diciamo da marzo 2017 fino a quando non abbiamo consegnato l’ultima versione. Ci facevamo le note a vicenda e poi discutevamo su Skype, poi scrivevamo in diretta con la funzione collaborate di Final Draft. È stata proprio una scrittura fatta assieme, siamo stati una mente, non due, una mente, tant’è vero che nella serie non puoi dire ci sia un’idea di Leonardo e una di Jean, sono tutte idee di Leonardo e Jean, non ce n’è una che non sia stata partorita insieme, anche le cose che abbiamo sbagliato e poi rivisto le abbiamo fatte come una mente unica. Mai successo prima.
JL: vorrei aggiungere una cosa: Leo e io ci conoscevamo da anni, da anni volevamo fare cose insieme, in un anno ci siamo scambiati soggetti, idee, pensieri, imparando a conoscerci. Quello che è veramente interessante, e lo dico da scrittore a scrittori, è che Leo e io siamo partiti molto diversi, perché avevamo delle storie umane molto diverse, come uomini diversi, come scrittori diversi. La nostra grande vittoria, che non è evidente per niente, è che abbiamo incamerato i difetti e le qualità l’uno dell’altro. Qualche volta Leo su una determinata questione mi diceva: “Pensaci tu”, perché pensava io fossi più portato a risolverla di lui. E viceversa. C’era questo scambio assoluto, conoscendoci meglio. È come se per scalare la montagna hai un solo zaino, e cinquecento metri se li fa uno con lo zaino, poi lo prende in carica l’altro e così via. C’era questo modo di scambiarci le cose, anche con alcune litigate sane. Questo c’entra poco, ma mi ricordo che quando da ragazzo conobbi Age, lui mi disse che le peggiori litigate se le faceva con Scarpelli. E mi raccontò qualche esempio di lui che gli tirava i libri e dopo due minuti tornava indietro e diceva “C’hai ragione”. Queste cose che fanno un po’ storia, perché parliamo di due grandissimi nomi, sono vere ed è stato così anche fra noi. Con la sensibilità e l’intelligenza di venirci incontro. Se tu oggi mi dovessi chiedere cosa ha inventato Leo e cosa io, non te lo saprei dire. È proprio nostra, di tutti e due, allo stesso modo. Per arrivarci devi lottare contro te stesso, contro il tuo orgoglio contro tutte queste cose che noi scrittori conosciamo bene. Se sei disposto a farlo perché hai un obiettivo in cui credere allora puoi farcela, lo dico anche come essere umano, al di là del lavoro tecnico: è un lavoro contro te stesso per lasciare spazio all’altro. E così siamo diventati scrittori diversi, cambiati, nuovi. Migliori.
Negli ultimi anni si è sentita una certa crisi di Mediaset, che a parer mio ha peggiorato il panorama generale, lasciando la Rai senza concorrenza. La vostra serie è una delle scommesse di Daniele Cesarano per la rete, certo è presto per fare bilanci, ma quali pensate che siano le prospettive per la serialità, proprio come generi, temi e storie? E per quanto riguarda i cambiamenti futuri, il cambiamento tecnologico: credete che la televisione generalista andrà a morire? I giovani neanche guardano più la tv, ma fruiscono direttamente dal web.
LV: Guarda, penso che la televisione generalista non morirà dall’oggi al domani. Certo, c’è stata un’erosione degli ascolti perché, mentre in altri paesi la generalista si è rinnovata cercando di fare concorrenza o dare un’offerta diametralmente opposta a quella dei servizi online, in Italia questa cosa non è successa. È anche vero che la Rai con alcuni prodotti dimostra che è ancora possibile fare il 40% di share. È ancora possibile intrattenere sei milioni di telespettatori davanti alla televisione, e nemmeno con una serie orizzontale, parlo di Montalbano. Difficilmente ci sarà una morte della generalista di qui a 3-4 anni. Se ci sarà, sarà molto più lenta. È necessario che Mediaset si dia da fare. Il percorso cominciato da Daniele penso vada nella direzione giusta: quella di creare prodotti che siano diversi.
Cosa intendi quando parli di innovazione nelle generaliste straniere?
LV: Fino a qualche anno fa per esempio non si sarebbero mai sognati di fare l’adattamento della serie inglese “The Fall”, che hanno rifatto per TF1che è il corrispettivo francese di Canale 5. Si sono molto specializzati nei generi. Non solo France Television che lo fa da tempo e ha continuato a farlo, ma anche TF1 ha abbandonato formati più familiari come Clem e Camping Paradis che continuano ad andare, ma hanno uno spazio in palinsesto minore. Adesso ci sono un po’ meno prodotti tradizionali, c’è più spazio a prodotti competitivi. È stata fatta una serie chiamata No Limit che era una sottospecie di 24, sempre su TF1, questo è stato grazie alle serie americane, perché mentre in Italia, tranne rari casi, non hanno mai funzionato facendo dei record di ascolti, in Francia ci sono stati casi emblematici come Criminal Minds e prima ancora CSI che hanno fatto il botto, più delle cose francesi. Questo ha messo paura ai produttori e alle reti che hanno evidentemente cercato un prodotto che andasse su quel terreno lì. Ma lo fanno da tempo, perché la scelta di rifare RIS nasce da quello: all’epoca andavano meglio le serie straniere che quelle nazionali, quindi acquistavano format che cercavano di mimare quel linguaggio lì. Mentre in Italia non c’è stata la volontà di proseguire su quella linea lì, perché noi non impariamo quasi mai dagli esempi che sconvolgono il panorama del linguaggio televisivo, e cerchiamo di riportare tutto a una normalità che prima o poi morirà, qui in Francia, che sono stati più intelligenti, hanno pensato di fare prodotti che andassero a cercare più il pubblico che guardasse CSI che Clem. Questo è banale, ma è normale. Se fosse successo anche in Italia, se avessimo imparato dal grande successo di House, probabilmente saremmo allo stesso livello. Invece l’hanno ammazzato programmandolo a cavolo, dicendo che il successo è stato un caso e che non è quella la strada. Invece la strada è quella e consiste nel creare prodotti che attirino le persone migrate sulle piattaforme. Piattaforme che però si stanno generalizzando perché sia Amazon, che Netflix, che Sky, hanno inseguito a lungo un prodotto elitario, ma adesso cercano anche un prodotto molto più largo. Se anche la SVOD comincia a generalizzarsi, la battaglia con la generalista potrebbe quasi tornare ad essere ad armi pari, quasi.
JL: Vorrei aggiungere una cosa, dall’esperienza fatta con Leo in Mediaset, anche grazie a Daniele che sta tracciano questa strada nuova. È tutta questione di mentalità, ma non è che si cambia un pensiero, ma si cambia proprio il modo di pensare. Che non significa dire: “a me piace quello o non piace quello, quello lo facciamo un po’ più osé, il pubblico ci seguirà oppure no”. Bisogna proprio cambiare pensiero, anche noi autori. Certo noi dobbiamo mangiare, se ci dicono di fare una serie classica italiota, tu che fai dici no, non la faccio e poi non mangi? Certo che la fai, però è lì la vera battaglia. Capire che si vince con un prodotto diverso, e quindi pensare a monte in maniera diversa, in toto. Vi faccio un solo esempio stupidissimo. Nella nostra serie abbiamo Ambra e Giorgio, tu vedi i titoli di testa e i loro nomi, ma Ambra appare dopo quaranta minuti, non si è quasi mai fatto in Italia, anche lì c’è stata una battaglia su questo. Avere il coraggio di fare certe cose che sembrano evidenti, ma che per alcuni con certi schemi mentali, sembrano scioccanti. C’è un’altra cosa, nella serie, su Ambra e Giorgio, che in conferenza stampa è stato detto anche da Daniele: non hanno una storia d’amore, nemmeno un tentativo, un abbozzo, proprio niente. Anche questa è una novità. Tu dirai è poco, ma è un modo di pensare diverso. Bisogna dare al pubblico quello che non si aspetta. Questa è la chiave vincente.
Si parlava prima di generi e storie, avete citato House, in Italia il medical è un genere poco praticato, se non in un senso molto consolatorio come Braccialetti Rossi.
LV: Il punto è che il medical deve essere fatto in un modo preciso, è la messa a rischio della vita, che poi sia la banalità della vita quotidiana come in ER o indagini mediche come in Dr. House, sono due cose diverse. Anche in Grey’s Anatomy, per quanto ci sia una forte orizzontalità, i casi sono affrontati in modo diretto e frontale. Se noi l’affrontiamo all’acqua di rose, non riusciamo ad avere un prodotto competitivo che può convincere il pubblico, perché quella è magari gente che i medical li ha visti e se vede una cosa che è il generone all’italiana allora ti abbandona
Quello che mi colpisce è che danno la colpa all’Italia. Siccome in Italia c’è una sfiducia nella sanità, allora il medical in Italia non funziona.
JL: Questo è comico… Si pensa che per vendere non si debba mai cambiare. Ma per vendere, in tutte le industrie, ci si rinnova continuamente, ma questo in Italia non succede.
Domanda sulle questioni sindacali: Noi con la WGi abbiamo collaborato con le altre associazioni per la legge cinema che ha sbloccato i finanziamenti diretti agli scrittori e adesso stiamo cercando di lavorare a una proposta di contratto tipo. Io volevo il vostro punto di vista sull’urgenza, sulle priorità, a livello professionale secondo voi.
LV: Sul contratto non ho idee particolari, se non il fatto che se un autore crea una serie, debba essere coinvolto automaticamente nella partecipazione degli utili della vendita all’estero. Questo perché dà centralità non solo al valore nominale dell’autore, ma anche al valore economico dell’idea. Mentre attualmente è tutto rimesso alla contrattazione.
JL: Importante è aver fatto un nuovo contratto. Però non vanno dimenticate due cose più che fondamentali 1) Bisogna costruire la forza per discuterlo e “imporlo”. E la forza dipende solo da noi sceneggiatori. Cosa siamo pronti a sacrificare del nostro egoismo per costruirla. Pronti a scioperare? Dunque, per esempio, va creato un fondo, finanziato proporzionalmente dai nostri introiti, da tutti i membri WGI. Un fondo per sostenere i più deboli, quelli che non possono mettere in stand by neanche una rata di pagamento. 2) non siamo direttamente noi sceneggiatori a discutere i contratti ma gli agenti – quanti racconti ho sentito dai colleghi . Gli agenti spesso sono i primi a non voler nemmeno sentir parlare di certe clausole, figuriamoci richiederle ai produttori, e se lo fanno, lo fanno “costretti” e ovviamente non convinti con l’effetto inevitabile di un sonoro no. Dobbiamo portare chi tratta per noi, gli agenti, dalla nostra parte.