Io non mi arrendo
Caro Jean, iniziamo dalla prova più dura, il pitch di Io non mi arrendo in cinque righe.
Il vice-commissario Roberto Mancini per primo in assoluto, negli anni ’80, scopre la Terra dei Fuochi dove i rifiuti interrati avvelenano e uccidono i suoi abitanti. Investigando fra i veleni sa che morirà anche lui. Ma decide di non rinunciare nonostante ami alla follia la moglie e la figlia e sappia che prima o poi le lascerà sole.
Il percorso produttivo di questa miniserie Tv è stato rapidissimo e meritevole. Non sei solo l’autore del soggetto, sei stato il motore dell’intero progetto, no? Raccontaci com’è andata, come si sono messe in moto le cose…
Sono stato il motore solo iniziale poi abbiamo lavorato in due, con Marco Videtta. Ho letto un articolo sul vice commissario Mancini. Mi colpì il fatto che era morto di cancro come le vittime della Terra dei Fuochi su cui indagava. E che lui storicamente era stato, come dire, lo “scopritore” del fenomeno criminale rifiuti.
Quindici, venti anni anni prima di Saviano e Gomorra.
Sono riuscito con non poche difficoltà a prendere contatto con sua moglie. Nessuno voleva darmi il suo numero. Tantomeno la polizia! Lei, invece, si è fidata di me. Poi ho parlato del progetto a Marco Videtta. Per la sua esperienza, perché è napoletano, perché è un amico. Lui in quel momento aveva dei contatti con Roberto Sessa di Picomedia che cercava una miniserie per Beppe Fiorello. Il soggetto, sembra che non sia una leggenda metropolitana, fece piangere Beppe. Tinni Andreatta disse “Una storia così non si può non fare” e tra la lettura dell’articolo e l’andata sul set abbiamo battuto il record del mondo.
Un poliziotto nobile, una storia vera. Il prodotto è tipico di RAI UNO, adatto a un pubblico generalista, nella linea delle biografie dei nostri eroi civili. Però… parlo allo scrittore, quali sono i problemi che hai dovuto affrontare subito per trasformare questa storia vera in un soggetto?
Dopo aver letto l’articolo, in piena notte, in quel dormiveglia creativo a cui spesso chiedo aiuto, mi ricordai, o meglio “mi arrivarono dal pianeta delle idee, su ali d’argento” le parole di Martin Luther King pronunciate a Memphis il giorno prima di venir ucciso: ”Se un uomo non ha scoperto qualcosa per cui è disposto a morire non è degno di vivere.” Avevo trovato il tema del mio personaggio e della miniserie. Per come lavoro io, non c’erano più problemi… tranne quelli legali, legati a raccontare personaggi reali e viventi.
La miniserie racconta della vita di Roberto Mancini, ma il protagonista appare con un nome diverso. Perché?
Noi autori eravamo contrari. Anche Beppe Fiorello. Il produttore invece voleva così. Non siamo stati presenti quando è stata presa la decisione finale ma comunque i motivi, giusti o sbagliati, sono stati solo di tipo legale.
L’arco narrativo della vicenda è ampio. Come avete fatto a concentrare trent’anni in due serate? Che soluzioni avete trovato?
Stiamo stati facilitati dal fatto che l’informativa di Mancini fu ignorata, fatta scomparire – e in parte distrutta – nei sotterranei del Palazzo di (in)Giustizia di Napoli per dieci anni. Nel frattempo si era anche sviluppato drammaticamente il cancro. Con una invenzione visiva abbiamo fatto un salto temporale che ci portava alla malattia in pieno sviluppo e alla ripartenza delle indagini.
L’indagine. La stampa racconta di Mancini come un eroe solitario, che nel silenzio delle istituzioni, ha portato avanti il suo lavoro, pagando infine con la vita. Quali sono i punti di svolta della storia, quali gli alleati, quali gli antagonisti?
Il punto di svolta è quando il protagonista intuisce che se continua con le indagini in quelle terre avvelenate che uccidono i suoi abitanti, lui morirà, o rischierà di morire, come loro di cancro. Ma decide di continuare. Io volevo la certezza “magica”, epica e poetica, di una forte intuizione interiore di una morte certa, come appartiene agli eroi che sanno di avere un destino. Temo invece che sia stata fatta da altri una scelta più razionale di una presa di coscienza di un rischio, non di una certezza, di morte, valutata secondo me erroneamente, più realista. Ma il tema del personaggio, anche se così è più debole, è comunque salvo.
Gli alleati sono gli uomini della sua squadra, ammalatisi anche loro, e sua moglie e sua figlia, due donne straordinarie. E un ragazzino di quelle terre, vittima predestinata, che gli fa da Virgilio.
Gli antagonisti: da un lato la mente organizzativa che ha avuto l’idea di guadagnare sui rifiuti e di interrarli, e dall’altro le istituzioni, a cominciare da alcuni superiori dello stesso Mancini, per finire a una parte della magistratura, ai medici, secondo me tutti più colpevoli della stessa camorra visto il loro ruolo, appunto, “istituzionale.” E, the last but not the least, la paura, che è sempre quella che condiziona tutti, buoni e cattivi, a prescindere.
Il tema. Ogni buon scrittore non si limita a raccontare una storia, ma ne intreccia un’altra: pone una domanda tematica allo spettatore. Qual’ è la domanda di Io non mi arrendo?
Le domande sono due, anche se collegate. Che avresti fatto al posto di Mancini? La tua vita è degna di essere vissuta?
La signora Monika Dobrowolska, moglie di Mancini, ha collaborato alla sceneggiatura: com’è andata?
Non ha scritto ma è stata molto importante. Ci ha presentato i componenti della squadra di suo marito, uomini segnati per sempre nel fisico e nell’anima. Come chi è stato in guerra. Perché loro sono stati in guerra. E poi ci ha raccontato, insieme a sua figlia, con un abbandono, una fiducia totale in noi, il suo uomo e tutta l’intimità, la gioia ma anche le difficoltà, della grande storia d’amore della loro famiglia.
La storia d’amore tra loro due è particolare, lei arriva in questura per ottenere un permesso di soggiorno, lui le fa la corte… Quanto spazio ha la loro vicenda personale nella miniserie?
Si capisce dalla risposta precedente: molto. Avrei voluto darle più spazio ancora. Sarebbe interessante fare un film con la moglie e la figlia di un eroe come protagoniste, non l’eroe! Non so se è stato già fatto…
L’attore protagonista Beppe Fiorello, dice che le tue sette pagine di soggetto lo hanno fatto piangere… Dài, dicci come si fa a concentrare tanta commozione in sette pagine.
Le pagine erano un po’ di piu, dodici se mi ricordo, ma questo è un dettaglio. Io avevo scritto un primo soggetto. Poi Sessa ci ha chiesto di scriverne uno mirato a convincere “l’attore”! Marco (Videtta) ha detto “scriviamolo in prima persona” però poi ha avuto l’intelligenza e l’umiltà di dirmi “ però scrivilo tu che ce l’hai dentro, pronto .Lo sento”. Io sono partito con la voce off del protagonista, al proprio funerale, che dice: “Sono morto due giorni fa.” E poi ho fatto parlare la sua anima come un fiume in piena che ogni tanto si riposa per poi essere pronto a lanciarsi verso una cascata. La chiave è non avere paura delle emozioni, dei sentimenti. Vengono spesso scritti male perché ci si vergogna, perché si pensa di essere ruffiani, furbi, o di sembrare poco intelligenti o poco intellettuali. I sentimenti sono banali se si usano, mai se si ascoltano. Anche e soprattutto dentro di noi. Basta non averne paura, riconoscerne la purezza, e l’unicità, la forza. Parlano loro per noi se li lasciamo parlare e li ascoltiamo.E hanno la forza della verità.
Sei un autore dalle molte nazionalità, che ha lavorato in America e in Francia… Cosa ci dici del quadro italiano a confronto con quello internazionale? Ci sono dei vantaggi nel sistema italiano che forse non apprezziamo abbastanza?
Il fatto è che, in Italia, in Europa, il produttore e i funzionari network sono, tranne rare eccezioni, come tutti gli esseri umani. Usano, cioè, il potere per sopraffare. Solo in America hanno capito, perché ragionano industrialmente, – non perché siano esseri umani migliori! – che puntare sull’autore porta a un prodotto che vende e rende di più. E allora w la différence!
Sei un autore poliedrico dalla lunga carriera, cinema e tv… Quali consideri la tua carta vincente? L’esperienza nella lunghissima serialità, il melò…
Non credo nelle specializzazioni. Quando scrissi I ragazzi della IIIC non avevo mai fatto commedia. Eppure abbiamo fatto un ascolto di undici milioni su Italia 1. Quando ho scritto Incantesimo non avevo mai fatto soap, supersoap, mélo, chiamatelo come volete. Eppure le mie puntate hanno avuto per anni tutti i record di share e audience. Ora ho scritto Io Non Mi Arrendo. Non avevo mai fatto un prodotto, come si dice, social.
Quando avevo 18 anni ho lavorato con Jean Renoir, ormai molto anziano. Mi disse: “Scrivere è come imparare a guidare. Impari le 5 marce, poi guidi senza più pensarci. Allora tu impara bene la tecnica della sceneggiatura, poi dimenticala per sempre.”
Le cose più belle, parlo anche di struttura, mi sono venute sempre senza ragionare. Per esempio, il turning point, – quanto odio questi termini americani – no scusami, il punto di svolta, come giustamente scrivi tu, non lo cerco, non lo piazzo al primo, terzo, ventesimo atto. Mi viene. Mi viene anche un’intuizione, un’immagine, una scena. Una volta ho trovato l’arco narrativo di un personaggio per quattro puntate partendo da una scena che mi era venuta all’improvviso, apparentemente completamente slegata e folle, ma che ho capito che mi indicava la strada e dove volevo arrivare.Mi spiego meglio: Cenerentola è diventata la direttrice di un bordello dove le sue sorelle lavorano come puttane e la matrigna, per strada, cerca di convincere i clienti a entrare. Come c’è arrivata? C’è tutta una storia da raccontare. Forse solo per un film porno ma è divertente, no?
Sei uno dei soci fondatori della WGI, quello che più ha spinto verso l’autodeterminazione anche contrattuale, sei un cliente che non perde d’occhio i propri avvocati e scruta a fondo i contratti… Su cosa dobbiamo stare tutti attenti?
La WGI sta facendo un buon lavoro sui contratti. La condivisione, è un’idea giusta, innovativa e importante. Credo però francamente che i contratti non siano il punto essenziale. Il punto essenziale è avere la forza come categoria per imporli. E’ frustrante parlare di contratti senza avere la forza per imporli, o no? Non ci puoi credere fino in fondo. La forza, solo la forza, è quella che dobbiamo costruirci. Se ce l’avessimo sapremmo esattamente come fare i nostri contratti, o no? Non sarebbe certo un problema.
Che altro dovrebbe fare la WGI?
In questi ultimi anni la WGI ha fatto un lavoro enorme e riuscito per essere più presente sul mercato e dunque più forte. Bravi, bravi tutti. Ma io farei un brain storming, una “thinking rooom” un “congresso”, sul tema ” La forza sia con noi”. Azioni precise, concrete per dare alla nostra categoria più forza. E per far capire ai nostri soci che la soluzione dipende da noi, e solo da noi, il ns destino sta nelle ns mani. E allora perché non appropriarcene?! E’ un po’ come per la UE. Nessuno stato vuole rinunciare a un pezzo della propria sovranità per essere invece, tutti insieme, uniti e dunque più forti. La chiave sono cmq i diritti. Sono loro il core business della ns forza. E poi, Giovanna, lo sai, da sempre penso che l’idea vincente è che sia la stessa WGI a rappresentarci con dei nostri avvocati, insomma che fosse lei stessa la nostra agenzia. Un’agenzia con 150 sceneggiatori che difenda i nostri diritti, in senso lato. Negli USA la concorrenza fra autori, nelle agenzie di soli sceneggiatori – che guarda caso in Italia non esistono – non è un problema. In Italia, sì! Dipende da noi e solo da noi come vedi. La WGI così avrebbe una forza pazzesca e sarebbe più facile convincere i soci a combattere uno per tutti, tutti per uno, come 150 moschettieri. Ma è un sogno per adesso irrealizzabile. Lo so. Peccato però.
Grazie e in bocca al lupo a te e a Io non mi arrendo.