Il 3 luglio è uscito il DVD de LA STANZA DELLE FARFALLE, lungometraggio diretto da Jonathan Zarantonello, scritto dal regista con Luigi Sardiello e il socio WGI Paolo Guerrieri. Incontriamo Paolo durante il montaggio di un trailer per il cinema.
PAOLO GUERRIERI
Scrivere e produrre un thriller
Paolo, non tutti i soci WGI ti conoscono, quindi perché non ti presenti brevemente prima di parlare del film?
Sono romano da sette generazioni e mi sono già dato abbastanza da fare per mettere al mondo l’ottava. Lavoro da quindici anni come montatore per la televisione e da poco anche per il cinema. Ma scrivere è sempre stato il primo amore, prima d’ora più che altro platonico…
Okay, veniamo al film. Puoi riassumere la storia de LA STANZA DELLE FARFALLE in poche frasi?
Ti rispondo con le parole dell’attrice protagonista Barbara Steele, durante una pausa delle riprese: «Oddio, mi rendo conto solo ora che questo è un thriller in cui l’unico sangue che scorre è quello mestruale».
Non è un vero pitch però…
Hai ragione, anche se me lo tengo come teaser… Dai, provo di nuovo. «Los Angeles. Da quando ha rotto con la figlia Dorothy, la sessantenne Ann vive appartata e dedica la maggior parte del proprio tempo alla collezione di farfalle con cui ha tappezzato un’intera stanza. L’unica persona. di cui cerca la compagnia, è la piccola Julie, figlia di Claudia, una vicina di casa superficiale e non di rado assente, che ha appena divorziato dal marito. Sulla bambina Ann riversa tutto il proprio frustrato amore materno, arrivando perfino a metterla contro sua madre, in un crescendo di attenzioni morbose e molestie psicologiche. Intanto, al legame con Julie, si sovrappone – in flashback – quello con Alice, un’altra bambina che, in un passato recente, ha offerto a Ann il proprio affetto di figlia surrogata in cambio di denaro. E che ora è scomparsa nel nulla…».
Com’è nato il soggetto? Problemi con le vostre madri, da piccoli?
L’idea è venuta al regista Jonathan Zarantonello. Quando lo conobbi ne aveva già tratto prima un racconto e poi un cortometraggio con Piera Degli Esposti protagonista, dal titolo Alice dalle 4 alle 5. Non so se Jonathan abbia attinto dalla sua biografia, tutto sommato non credo, ma aveva colto un disagio comune a molte madri italiane, e quindi anche alla mia. La domanda di base era: cosa scatta in una donna quando suo figlio o sua figlia si allontanano per seguire la propria strada? Come possono riempire il vuoto affettivo che si crea e accettare di non essere più il punto di riferimento della vita delle loro creature? Nel cortometraggio la risposta era Alice, la bambina che si fa pagare per fingere di essere la figlia di Ann.
E nel lungometraggio?
Dovevamo andare oltre la “trovata” e raccontare una storia che fosse verosimile, anche nel paradosso. Ci siamo affidati a una struttura thriller, un genere di cui tutti noi ci siamo avidamente nutriti sin da piccoli. La storia parallela del rapporto di Ann con Alice getta una luce oscura su quello con Julie, in un gioco di rimandi a incastro che trovano una soluzione solo nel finale, al cospetto delle farfalle appese alla parete dell’omonima stanza.
Per diventare un film però, la sceneggiatura ha avuto una storia travagliata.
Sì, travagliata e lunga, se si pensa che la prima stesura risale al 2001… Le ragioni sono molteplici. Anzitutto – mi duole dirlo – ma non si tratta proprio di un high-concept. In secondo luogo il thriller di produzione italiana è un genere che negli ultimi anni non ha avuto riscontri particolarmente incoraggianti al botteghino. Basti pensare al flop di Occhi di Cristallo, il bellissimo film di Eros Puglielli, tratto peraltro dal romanzo best-seller L’impagliatore di Fulvio De Luca. Infine il fatto che le protagoniste fossero una vecchia e due bambine non ha incentivato più di tanto gli investitori.
E quindi vi siete autoprodotti.
Noi sceneggiatori e altre maestranze siamo entrati in partecipazione. Abbiamo rinunciato al nostro compenso in cambio di una percentuale sugli utili del film sul territorio italiano.
E ce ne sono stati?
Purtroppo no. Ma quando, a suo tempo, firmai la modifica del contratto la mia unica preoccupazione era che il film si facesse. E soprattutto non esisteva ancora la WGI…
Ciononostante i soldi non bastavano ancora.
Non bastavano mai… LA STANZA DELLE FARFALLE è arrivato sul set soprattutto grazie alla “tigna” di Jonathan Zarantonello, che nel 2008 ha preso armi e bagagli e si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha trovato una coproduzione e ha preso contatto di persona con la maggior parte degli attori, poi scritturati.
Una scelta che ha pagato anche in termini di distribuzione.
Non credo che “scelta” sia il termine corretto per descrivere com’è andata… Ad ogni modo, per l’uscita nelle sale dobbiamo ringraziare il produttore Enzo Porcelli, che ha distribuito personalmente il film tramite il circuito UCI Cinemas. Senza dubbio, ambientare il film negli Stati Uniti e girare con un cast americano ha facilitato la successiva collocazione nelle sale. E nel contempo ha attratto il pubblico degli aficionados, che attendevano con ansia il ritorno di Barbara Steele sulle scene, dopo oltre un lustro.
Nel film c’è addirittura Joe Dante che compare per pochi secondi nel ruolo di un tassista.
Sì, quella è una vera chicca. Joe Dante è un amico del coproduttore americano, Ethan Wiley, e si è prestato al gioco con grande disponibilità e professionalità. Personalmente, però, mi riempie maggiormente di orgoglio la partecipazione al film di Heather Langenkamp, la ragazzina protagonista del primo Nightmare. È stato come se si chiudesse un cerchio: con lei mi sono appassionato al genere horror e sempre lei ha – per così dire – tenuto a battesimo il mio primo thriller.
Soggetto e sceneggiatura sono firmati da te, dal regista Jonathan Zarantonello e da Luigi Sardiello, a sua volta già regista di due film. Come è andata la stesura?
Ognuno di noi ha apportato il suo personale bagaglio di esperienza allo script definitivo. Jonathan lavora sulle scene, ha un grande senso estetico e sa quello che vuole vedere prima ancora di girarlo. Luigi ha tenuto a bada i nostri voli pindarici, dando concretezza e realismo alle singole scene, ai personaggi e ai dialoghi dei minori. Da montatore, io ho contribuito soprattutto a livello di struttura, nel concatenare i diversi piani temporali, in modo che la trama si dipanasse tenendo alte curiosità e suspence.
A me risulta anche un quarto sceneggiatore…
Ah si è sparsa la voce? (Ride, ndr) È vero, quando Barbara Steele ha letto il copione per la prima volta, non era affatto contenta del suo personaggio. Lo voleva più attivo e più cattivo, sin dalle prime scene. Era la sua condizione per partecipare al film. E senza di lei, il film non si sarebbe mai fatto. Io non ho vissuto benissimo questa ingerenza, ma a posteriori devo ammettere che lo script si è giovato parecchio delle sue indicazioni, avvicinandosi di più al genere nel quale aspirava ad inserirsi.
C’è una scena di cui ti senti particolarmente fiero?
In realtà ce ne sono due, contigue tra loro, entrambe ambientate nel bagno dell’appartamento della protagonista. Nella prima Ann sta asciugando i capelli a Julie, dopo il bagnetto, e sotto l’asciugamano compaiono alternativamente i primi piani di Julie e di Alice, la bambina scomparsa. Poco dopo, Ann fa piangere Julie rivelandole che la madre le ha mentito, che non è partita per lavoro, ma si è presa una vacanza con quello che presto diventerà il suo nuovo papà. Un piccolo concentrato di cattiveria umana.
E una scena invece che toglieresti dal film?
La prima. Ann passeggia sul marciapiede di fronte a casa e dà volontariamente un calcio alla scala su cui un ragazzo stava potando gli alberi del vialetto, facendolo cadere rovinosamente. Nel prosieguo della storia quel gesto trova giustificazione in un conflitto pregresso tra i due personaggi, ma ormai è tardi per togliere dalla mente dello spettatore la convinzione che quella strana signora sia un po’ stronza. Ed è un peccato perché nel cinema, come spesso nella vita, non esiste una seconda occasione per fare una buona prima impressione.
Cosa hai imparato dalla storia produttiva de LA STANZA DELLE FARFALLE?
Da una parte, che bisogna lottare per portare avanti le proprie idee con determinazione e a tutte le possibili latitudini. Dall’altra, che a tale scopo non c’è mai una ragione sufficientemente valida per accettare di svilire i propri diritti, rinunciando al giusto compenso per il proprio lavoro.
C’è qualcosa che vuoi dire agli altri soci WGI e in generale ai colleghi sceneggiatori?
Di partecipare, di incontrarci e sostenerci di più, di fare “rete”. La WGI è uno splendido neonato che ha bisogno delle cure di tutti. Ai colleghi dico unitevi a noi, perché i fronti aperti a tutela dei nostri diritti sono numerosi e come sceneggiatori possiamo vincere solo restando compatti. Più siamo, più contiamo.
Intervista a cura di Aaron Ariotti