The start up
Accendi il tuo futuro
Caro Francesco, tu sai che una storia dimostra di essere ben centrata se può essere raccontata in cinque righe. Qual è il pitch di The startup?
Un giovane reagisce a un’ingiustizia costruendo un sito on line per garantire che, nel mondo del lavoro, venga premiato solo chi lo merita. Ma il sistema ottiene un successo superiore ai suoi meriti e il giovane rischia di dimenticare gli ideali da cui era partito.
Il film è tratto da una storia vera e tu firmi il soggetto con Saverio d’Ercole. Come vi è venuta in mente quest’idea, come hai intercettato la storia, com’è cominciato il film? Da una notizia sul giornale?
Sì, da una notizia su un quotidiano.
L’idea di farne un film è venuta a Saverio, che ha scritto un primo soggetto. Poi sono subentrato io, per sviluppare il soggetto e la sceneggiatura, fino al coinvolgimento di D’Alatri.
Come avete agito con Matteo Achilli? Lo avete contattato subito, o dopo aver scritto il soggetto, deciso una linea… Quando?
Lo abbiamo contattato subito. Io ho trascorso alcuni giorni con lui, a Milano e a Roma, per raccogliere informazioni sulla sua vita e su Egomnia. Dopo aver scritto diversi biopic su personaggi del passato, questa è stata la prima volta in cui potevo parlare con il “soggetto” del mio film!
Avete mantenuto nel film il vero nome del protagonista e della start up: un limite, un vantaggio… come la vedi?
La mia linea, condivisa con il produttore, Luca Barbareschi, era quella di realizzare un film che narrativamente potesse “stare in piedi” anche se fosse stata una vicenda d’invenzione. Per questo il film, più che di Egomnia, parla della maturazione di un ragazzo. Ma il fatto che si usino i nomi veri e che si possa dire che è ispirato a una storia vera, credo renda più forte la metafora che il film contiene.
Gli “haters” – come Alatri definisce i detrattori del film – sostengono che avete gonfiato un evento abbastanza banale, come la nascita di una start up, per farlo diventare un doppione del film di David Fincher The Social Network. E’ ovvio che è un modello da cui non si può prescindere… Da autori come ci avete ragionato? Cosa volevate prendere e cosa no?
The Social Network è un capolavoro, da cui non potevamo prescindere. Ma la nostra storia è molto diversa. Non avevamo un fenomeno globale come Facebook. Non avevamo una storia di furto di idee con conseguente processo. Non avevamo un’icona mondiale come Zuckerberg. Imitare il film di Sorkin e Fincher – oltre che velleitario, almeno da parte mia – sarebbe stato fuorviante. Per questo siamo rimasti fedeli alla nostra ispirazione: raccontare il coming of age di un giovane italiano che nel giro di un anno è passato da Corviale a Piazza Affari, con tutto quello che ne è conseguito per lui e per i suoi rapporti personali.
Torniamo al vostro film. The start up, con il suo sottotitolo Accendi il tuo futuro, è stato presentato come una storia positiva, di speranza… Con un valore politico e morale di assoluto rilievo: “Siete giovani e purtroppo il vostro paese l’Italia non vi sta trattando bene, ma non arrendetevi, ce la potete fare…” Quanto ha contato per te, autore, questo messaggio? Avresti voluto percorrere altre strade, la storia di Matteo Achilli lo avrebbe consentito?
Sì, il film è animato da un senso di speranza. Ma non sono partito dall’idea di voler raccontare per forza una storia positiva e incoraggiante. Tutt’altro: quello che mi ha convinto ad accettare di scrivere questo film è il fatto che in realtà il percorso di Matteo Achilli ha attraversato vaste zone d’ombra. Zone che gli hanno permesso di imparare e crescere – e qui c’è l’aspetto di speranza – ma che per me era fondamentale raccontare. Anche per evitare il rischio di fare un film retorico o, peggio, una specie di spottone per Egomnia. E in questo Matteo è stato molto coraggioso: non ci ha mai chiesto di omettere nulla delle parti della storia in cui mostriamo i suoi aspetti più negativi.
Ti ho già fatto questa osservazione a proposito della miniserie Tv Sottocopertura, ma te la ripropongo: i personaggi buoni, che si comportano bene, in massimo grado se sono persone vere, sono un bel problema per lo scrittore, perché rischiano di annoiare e il loro cammino risulta troppo lineare. E’ paradossale ma vero: i personaggi negativi funzionano meglio sullo schermo. Così, noi scrittori, finiamo per attribuire loro conflitti esterni, che in un certo senso non gli appartengono. Come te la sei cavata con The start up?
Per fortuna Matteo Achilli, come ogni persona reale, è un personaggio complesso e ricco di chiaroscuri. Per questo è stato interessante raccontarlo. Oggi alcuni critici scrivono: ci sono tante storie di startupper di successo, perché proprio quella di Matteo Achilli, che è così controversa? Semplice: proprio perché è controversa!
C’è un altro luogo comune con il quale il vostro film si confronta ed è quello che il denaro, quando confluisce in abbondanza nelle tasche di un individuo, finisce per trasformarlo in una brutta persona: egoista, fredda, irriconoscente, spaventata, arrivista. E’ un tema che hai già affrontato in Something Good. Come ve la siete cavata questa volta? Tu ci credi che funzioni così?
Nel caso di The Startup il problema del protagonista non è tanto il denaro, quanto il narcisismo. E in fondo è sempre così: il denaro è solo un innesco o uno strumento. Anche il protagonista di Something good, in fondo, era un narcisista.
Anche la tecnologia, che pure ci consente il progresso, ha questo contraltare della disumanità, è una specie di demonio a sua volta… Come la affrontate nel film?
Nel nostro film la tecnologia non è tematizzata in quanto tale, ma solo come uno strumento che, se ben usato, può aiutare a rendere il mondo meno ingiusto. Direi anzi che insistiamo soprattutto sul fatto che la tecnologia, da sola, è insufficiente: ogni sistema ha bisogno di decisioni cruciali e di costante manutenzione che solo gli uomini possono garantire.
C’è un’osservazione di Alessandro D’Alatri che mi ha colpito: dice che la famiglia è l’unica istituzione sociale ancora viva. Sei d’accordo? Il motore della crescita dei figli sono ancora i padri?
Per Matteo è stato così. Il primo e, all’inizio, l’unico a credere in lui è stato il padre, che ha finanziato il suo progetto. Ma non direi che il nostro film è “familistico”, al contrario. La prima cosa che fa Matteo quando comincia a guadagnare qualcosa da Egomnia è fare un bonifico al padre, per ripagare il suo debito, sì, ma anche per affermare la sua autonomia.
Torniamo un attimo al meccanismo tecnico: D’Alatri è entrato nel film a prima stesura della sceneggiatura già realizzata. Qual è stato il suo apporto per portarla a compimento, come avete lavorato?
Io ho lavorato per più di un anno a diverse stesure di soggetti e a tre stesure di sceneggiatura. Poi, una volta coinvolto D’Alatri nel progetto, abbiamo lavorato a quattro mani alle revisioni in vista delle riprese. Lavorare con lui è stata una grande esperienza: in Alessandro l’esperienza del maestro navigato convive con un talento esuberante e sbrigliato che di solito incontri negli artisti agli esordi.
Hai partecipato alla realizzazione, sei stato sul set?
Sì, ho fatto alcune visite. Anche perché è stata una produzione particolare: il film è stato girato fra Roma e Milano e in due fasi molto distanti: tre settimane nel novembre 2015 e tre settimane nel maggio 2016.
Molti sceneggiatori nascondono in petto dei potenziali registi… A te capita di pensare a dirigere un set?
Lo escludo. Quando scrivo qualcosa che mi sembra decente mi chiedo: perché dovrei rovinarlo girandolo io, invece che affidarlo a un regista con più talento ed esperienza di me?
Domanda doverosa per un autore come te che scrive e ha scritto tantissima tv: che differenze trovi nello scrivere per l’una o per l’altra piattaforma?
Una storia è buona o cattiva a prescindere dalla piattaforma. Però è naturale che, scrivendo per un mezzo o per un altro, si tiene conto di alcuni aspetti espressivi che sono magari secondari, ma comunque importanti. La fruizione al cinema o in tv è troppo diversa, non tenerne conto sarebbe da ingenui.
Visto che parliamo di spinte positive, ti faccio una domanda su di noi: WGI crede nella potenzialità del mercato delle idee e si muove per scompigliare e rimescolare le carte delle vecchie abitudini. Organizziamo pitch aperti, senza selezione preventiva, abbiamo chiesto contributi statali direttamente agli scrittori… Insomma, stiamo cercando di costruire anche noi una piattaforma, una specie di metropolitana affidabile e sicura per i progetti dell’audiovisivo, con appuntamenti e stazioni fisse. Che consigli ci dai, da scrittore di The start up?
D’Alatri ha dichiarato di aver accettato di girare questo film anche per il processo “industriale” che vi aveva visto: un produttore aveva finanziato lo sviluppo di una storia fino a una sceneggiatura che lo convinceva e poi aveva cercato, fra diversi registi, quello che gli sembrava più adeguato alla storia. Dovrebbe essere la normalità di un sano sistema industriale e invece D’Alatri ha dichiarato che era la prima volta che gli succedeva in più di trent’anni di carriera. Penso davvero che l’esistenza di WGI, con tutte le iniziative che sta mettendo in campo, sia un contributo fondamentale affinché esperienze come questa possano diventare la norma e non l’eccezione.