Tre giorni dopo
Enrico, ciao! Ma quanti sceneggiatori per Tre giorni dopo! Com’è andata, come vi siete aggregati? Come avete lavorato?
Effettivamente, crediti alla mano, siamo un’infinità! In realtà non abbiamo lavorato tutti assieme ma a ondate successive in anni diversi. Daniele Grassetti, il regista, e Fabrizio Vecchi hanno scritto il soggetto e la prima stesura nel lontano 2007, poi per la prima revisione si è aggiunto Matteo Berdini e solo dal 2009 siamo subentrati Chiara Laudani ed io. Per me, tra l’altro, era una prima assoluta perché uscivo proprio allora dal Centro Sperimentale di Cinematografia. Devo ringraziare la produzione e Chiara Boschiero, che mi hanno dato questa opportunità, nonché Daniele e Chiara che, nonostante la mia inesperienza, mi hanno dato fiducia e trattato subito da pari. Dal punto di vista lavorativo, siamo partiti dall’assunto di non stravolgere il lavoro fatto in precedenza dai nostri colleghi, puntando invece a ottimizzarne gli elementi narrativi principali.
Domanda d’obbligo: il pitch di Tre giorni dopo. Qual è la storia?
È la storia di Matteo, Sandro e Nicola, tre coinquilini che si ritrovano invischiati in un misterioso omicidio. A causa dei debiti di gioco contratti col dottor Carlo, boss del quartiere nonché loro padrone di casa, i tre sono costretti a giocarsi l’unica cosa che gli resta, la macchina, in una disperata partita a biliardo. Non solo la perdono ma, il giorno dopo, se la ritrovano inspiegabilmente sotto casa. Ma quel che è peggio è che nel bagagliaio della vettura c’è il cadavere di Pistacchietto, il figlio del boss… Cos’è successo? Perché nessuno di loro si ricorda niente della sera prima? Ora hanno solo tre giorni di tempo per cavarsi dai guai…
Entriamo dentro al film. C’è un bel pot pourri di elementi noti, ma usati in modo originale. Partiamo dal Pigneto, quartiere di riferimento per tutto ciò che fa alternativo e giovane a Roma. Perché qui?
Perché è uno dei quartieri studenteschi per eccellenza ma, rispetto a un San Lorenzo, conserva ancora tracce dei suoi trascorsi «delinquenziali», con buona pace della «gentrificazione» in atto… Ci sembrava adeguato al tipo di storia avventurosa che volevamo raccontare.
Secondo elemento noto: il biliardo. Da Paul Newman al nostro Francesco Nuti. Capisco la voglia della regia di giocare con quelle benedette biglie colorate, ma per la scrittura… Qual è il punto d’appeal per voi?
Il biliardo è stato uno dei punti fermi sin dalla prima stesura. Noi abbiamo cercato di sfruttarlo per mostrare l’arco di trasformazione di Matteo, il nostro protagonista tecnico, che dall’iniziale insicurezza arriva ad affrontare la propria paura di non farcela senza dover ricorrere agli ansiolitici.
Terzo elemento noto di questo schema, è lo scontro del giovante talento contro il mago, l’esperto, l’inarrivabile. Romanzo di formazione, scontro con i padri… Un padre criminale in questo caso. Mi correggo: un po’ criminale, perché – senza spoilerare – lo trattate bene, alla fine…
Indubbiamente il dottor Carlo non è un cattivo «serio», per quanto minacci di tagliare dita a destra e a manca, ed esce dall’intera vicenda tutto sommato in maniera pulita; farlo finire malamente sarebbe stato una forzatura drammatica inutile. E poi, visti i tempi che corrono, che il cattivo se cavi è forse il tratto meno favolistico dell’intero film.
Curiosità: c’è davvero qualcuno che gioca ancora a biliardo al Pigneto e ci scommette sopra?
Questa è una buona domanda, ma non ho un’altrettanto valida risposta! Contando che l’ultima volta che ho giocato a «stecca» risale a vent’anni fa, forse non sono la persona più indicata a risponderti.
Quello che trovo azzeccato è la descrizione del mondo affettivo di sostegno del protagonista. Prima di tutto il mondo dei pari, gli amici maschi: danno e salvezza… Funziona ancora così, eh? Loro sono parte di me…
Per quanto mi riguarda sì, senza ombra di dubbio. È vero che andiamo sempre più verso l’ultra-individualismo, ma credo ancora molto in quei rapporti di amicizia fraterna capaci di durare anche una vita intera. Gli amici veri sanno supportarti, sopportarti e, quando esageri, se mi si passi il termine, «sfancularti» proprio perché ti vogliono bene. Non c’è opportunismo nell’amicizia ed è questo che la rende preziosa e salvifica.
Poi, in secondo piano dopo gli amici, le ragazze… Carine, funzionali, generose… Accessori, eh?
In realtà Olimpia ha una sua dignità di personaggio: è una ragazza emancipata, coraggiosa, una che non ha paura di affrontare gli sgherri del dottor Carlo a viso aperto e di correre in aiuto dei nostri tre in piena notte, anche a rischio della propria incolumità. È lei a fare il primo passo con Matteo quando capisce che la sua estrema timidezza lo blocca. E poi quando c’è da mandare qualcuno a quel paese lo fa e basta, senza tanti giri di parole.
E poi, gli adulti di cui si fida assai poco. E’ così anche per te, il mondo degli adulti è costituito da una serie di rottami abbandonati, come il deposito auto al centro della storia?
No, non direi. Semmai mi piace pensare che Matteo, Sandro e Nicola non ne combinino una giusta proprio perché scimmiottano il mondo dei sedicenti adulti che li attornia, quelli che, per citare Riccardino, lo sfasciacarrozze, si fanno sempre «li cazzi loro». Almeno i nostri tre personaggi hanno la scusante della giovane età. Che poi da questa avventura traggano solo in parte una lezione di vita, dal momento che nei titoli di coda li vediamo comportarsi sostanzialmente come a inizio film, è una conseguenza diretta e un po’ beffarda di come vanno realmente le cose nella vita, ossia sperando continuamente di imparare dagli errori compiuti, senza riuscirci (quasi) mai…
Tutto cade un po’ a pezzi agli occhi di questi giovani (e dunque forse ai vostri): anche la Chiesa. In senso letterale e in senso figurativo… Si sente la lezione di don Camillo e forse quella più attuale di don Ciotti, di un sacerdozio di frontiera. Come la vedi tu?
Che il film possa offrire il destro a una riflessione del genere non può che lusingarmi ma, a onor del vero, trascende gli obiettivi che ci eravamo posti. A noi premeva sfruttare le opportunità offerteci dal Pigneto per costruire fughe e inseguimenti che, per quanto rocamboleschi, fossero il più verosimili possibile. Viuzze strette, cantieri a cielo aperto, localini di ogni sorta e per l’appunto, essendocene ben due, chiese. E poi ci facciamo accadere una serie di cose abbastanza estreme (furti, dopaggi, pomiciate), il che, oltre a inorgoglirmi un po’, visto il mio animo iconoclasta, è in linea con l’irriverenza di fondo delle black-comedy.
E si ride. La macchina filmica è veloce, divertente, molte battute funzionano, i personaggi sono simpatici, non si cade mai nella volgarità, tutto è leggero. E proprio per questa leggerezza, qualcuno non riesce ad entrare nel film, non trova un gancio abbastanza solido per sentirsi coinvolto. Apprezza, ma resta fuori. E’ una critica che riconosci valida in qualche parte?
Mah, direi che è importante sapere cosa ci cerca in un film per non rimanerne delusi; a questo servono i generi. La leggerezza di questa commedia, dove sostanzialmente prevale l’intreccio sulla fabula, è solo apparente. In fondo parliamo di corruzione, di tossicodipendenza, di precariato e pure di morte. Scherziamo addirittura coi santi! Certo, lo facciamo in maniera lieve, ma penso che possa essere un valore aggiunto del film e non un difetto, qualcosa che, connotandolo, lo distingue dal resto della filmografia nostrana. Siamo abituati alle commedie impegnate, fanno parte della nostra tradizione cinematografica ed è giusto averle come riferimento, ma non c’è nulla di male a misurarsi anche con altre modalità del far ridere. Tra l’altro, ho come l’impressione che questa percezione della comicità come qualcosa di serie B, da controbilanciare sempre col «contenuto», sia una fissa tipicamente italiana. Ma far ridere, già di suo, è una cosa seria, oltrechè difficilissima!
La colonna sonora. Maurizio Filardo è il suono dei film di Genovese, di Max Bruno… Com’è andata con voi?
Non so come sia stata impostata la collaborazione artistica tra Filardo e Grassetti ma il risultato secondo me è perfetto; il film ne esce veramente arricchito. Tra l’altro la canzone «Devo andare, voglio andare», ossia la suoneria ossessiva del cellulare di Pistacchietto, oltre ad avermi fatto ridere come un matto è un tormentone elettro che mi si è ficcato in testa e ora non va più via! Ho letto di spettatori che volevano subito scaricarla! Tra l’altro, è cantata da Daniele stesso! Comunque voglio ricordare che nel film ci sono anche una serie di canzoni molto belle di gruppi come I cani, gli Zen Circus e i Tre allegri ragazzi morti che rendono la colonna sonora veramente molto interessante. Spero davvero che venga messa in commercio.
La produzione e la distribuzione. La prima impressione è che tanto talento – perché il film è pieno di talento – non abbia trovato gli interlocutori giusti per proteggerlo e potenziarlo. E’ un dispiacere. E’ il problema di tutti i piccoli film? Com’è andata?
È un’impressione che condivido e che, credo, rispecchi il pensiero dei miei colleghi. Indubbiamente i piccoli film vengono fatti con tante idee, tanta professionalità, tanto impegno e pochissimi mezzi, col risultato che spesso si ritrovano a non avere la forza di uscire in sala. È come se, una volta realizzati, avessero raggiunto il loro obiettivo, ma un film che non si misura col pubblico è un film che non esiste. Così si vanificano gli sforzi di anni e qui parliamo di un film che, dall’ideazione alla sua uscita in sala, di anni ne ha messi in fila ben nove… Noi ci siamo dovuti dare i pizzicotti a vicenda quando abbiamo scoperto che sarebbe uscito! Eravamo e siamo tuttora increduli e felici per questa opportunità e tuttavia se il film avesse potuto giocarsi le sue carte a suo tempo, ossia nel 2013, sarebbe stato sicuramente molto meglio. Mi chiedo che senso abbia arrivare così in ritardo e a stagione sostanzialmente finita, ma ciò non toglie che, per come vanno le cose in generale per gli esordienti con film low-budget, il bicchiere sia comunque mezzo pieno.