I misteri di Laura
Caro Carlo, la storia è il personaggio. Leggiamo che Laura Moretti è un commissario di Polizia, è sposata e ha tre figli minori, ma a noi non basta, è come leggere un bugiardino dei farmaci. A uno scrittore serve invece innamorarsi del suo personaggio. Quindi, chi è per te, Laura?
Ammetto che ci ho messo un po’ ad innamorarmi di lei. Anche perché quando l’ho conosciuta Laura aveva già, come dire, “un’altra storia”. Questo ingombrante talento per la detection, da miss Marple in salsa Tenente Colombo, solo fintamente naive e in realtà arguta e spiazzante. Ed aveva persino già un volto: quello di María Pujalte, l’attrice spagnola protagonista della versione originale della serie.
Nonostante tutto c’era qualcosa che sfuggiva. La sua storia emotiva, come donna. Una donna che decide di separarsi dopo quindici anni di matrimonio. Ed è cercandola che abbiamo finito per innamorarci della “nostra” Laura. Una quarantenne oltre che poliziotta, mamma e moglie, che potresti tranquillamente incontrare coi minuti contati al supermercato tutti i giorni. Piena di paturnie ed insicurezze, ma affidabile e moderna proprio nella sua capacità di mettersi in discussione. Di riflettere su di se. Di non riuscire fino in fondo a concedersi ciò che le spetta. E cosa, se non soprattutto, l’amore?
La serie è un adattamento di una serie spagnola. E ci risiamo. L’industria della fiction italiana non crede in se stessa e per noi scrittori è un vero e proprio disastro. Ma vediamo i lati positivi: che cosa andava già bene nell’originale e hai traghettato volentieri nella versione italiana? Che cosa avete avuto a disposizione? La bibbia o tutte le sceneggiature?
Le doti investigative della protagonista, certo. Ma anche un certo taglio “femminista”, che nella versione spagnola è al limite del sessismo al contrario. Quanto alla scarsa autostima della fiction italiana, bisogna dire che, una volta tanto, siamo in buona compagnia. Los Misteros di Laura è stato adattato nel frattempo anche da NBC negli Stati Uniti, nonché in Russia ed in Olanda.
Magra consolazione dirai. E invece a colpire, partendo proprio dal materiale che abbiamo avuto a disposizione, sia bibbia che sceneggiature originali spagnole, è che qualitativamente non si discosta affatto dal livello medio di uno dei tanti prodotti della nostra fiction generalista.
Viene il dubbio che in Spagna ci sia più talento, o forse semplicemente più interesse, nella vendita all’estero che dalle nostri parti.
Sappiamo che gli adattamenti diventano per forza di cose delle riscritture. Le due Laure, spagnola e italiana, in che rapporto sono? Sorelle, cugine, compagne di scuola? Cosa si direbbero?
E’ stata la mia prima volta alle prese con un adattamento.
Inizialmente mi ripetevo “non strafare, non ce n’e’ bisogno, in fondo c’è già tutto, no?”.
Poi, giorno per giorno, insieme a Valentina Capecci, Riccardo Mazza ed Uski Audino, che hanno lavorato con me al soggetto di serie, ci siamo ritrovati con una quantitativo di materiale incredibile tra linea sentimentale e le varie linee family. Tutta riscrittura!
Ne è venuto fuori una sorta di racconto di formazione per mamme e mogli quarantenni. Con una donna che si ritrova a mettere tutto in discussione temendo di perdersi e scopre invece che non c’è modo migliore per trovarsi e appropriarsi di aspetti importanti di sé.
Anche la Laura spagnola credo si appassionerebbe alla vicende amorose della nostra Laura, che Carlotta Natoli ha interpretato veramente alla grande tuffandosi a capo fitto nel testo.
Gli adattamenti, tanto più su una tv generalista, sembrano fatti apposta per scoraggiare l’inventiva gli scrittori e invece sappiamo che tu difendi lo spazio per l’espressione personale di ogni singolo sceneggiatore. Come funziona? Come hai lavorato, tu head writer, con la tua squadra?
Una serie è innanzitutto un lavoro di squadra. Non mettere tutti gli autori in condizione di esprimere se stessi, quale che sia il loro livello di coinvolgimento nel progetto, è il peggior errore che si possa commettere. Per farlo e mantenere al contempo l’identità del progetto non c’è modo migliore che lavorare in writers room. Stavolta, anche nella seconda serie che stiamo già scrivendo, sono riuscito a metterla in piedi.
Soprattutto in fase di concepimento, ma anche strada facendo, “costringo” tutti a passare lunghe giornate insieme. A discutere e confrontarsi, non necessariamente su quello che dobbiamo scrivere. Ho imparato con gli anni che la divagazione (o se preferisci il cazzeggio) è in realtà il terreno di coltura privilegiato per arrivare a personaggi e storie vive. Brillanti.
E quando arrivi a scrivere, tutto è più appassionante. Perché già più tuo.
Chi fa questo mestiere sa quanto si possa addirittura temere questo livello di coinvolgimento. Quanto, in particolare da autori di puntata, si preferisca mantenere le distanze per evitare prevedibili frustrazioni. Così facendo però si finisce per perdere il piacere ed il senso stesso del nostro lavoro. E c’è il rischio che, oltre che a percepirsi tali, sostituibili lo si diventi per davvero. L’antidoto è la fiducia. Se dai fiducia ad uno sceneggiatore, se non solo gli chiedi ma addirittura pretendi che esprima al suo meglio tutto il suo talento, dimenticando desiderata e condizionamenti vari, arrivano risultati sorprendenti. Straordinari.
Veniamo ai gialli. La serie spagnola ha già qualche anno, la nostra società è un po’ diversa… Ti hanno chiesto di mantenere i casi e le soluzioni? Quanto sei intervenuto e ti hanno permesso di intervenire?
L’adattamento dei gialli è stato l’aspetto più complicato del lavoro. In particolare sul piano della credibilità delle storie. L’impianto spagnolo, che abbiamo necessariamente dovuto mantenere, prevede una struttura molto classica, alla Agatha Christie. Per cercare di svecchiare un po’ il formato abbiamo lavorato molto sulla contemporaneità dei personaggi di puntata. Sulle dissonanze dei mondi patinati e benestanti all’interno dei quali, una straordinaria detective come Laura che invece vive, nell’Italia di oggi, la vita di una funzionaria di polizia col suo stipendio ed una famiglia da mandare avanti, si trova a doversi immergere alla ricerca del colpevole.
Restiamo sui gialli. Su una serie siamo disposti a sospendere l’incredulità, sennò dovremmo pensare che nella Gubbio di Don Matteo (e non lo cito a caso…) si concentri una criminalità superiore a quella di tutte le metropoli italiane messi insieme. Ma il giallo pone sempre il tema del male, della rottura del quotidiano, della precarietà dell’essere umano e questo sì, deve essere invece credibile, per poter partecipare alla storia. Come reagisce Laura? Dove ci guida?
Come e più di altri detective, Laura nasce come un personaggio di grande intuito. Di intelligenza e spirito d’osservazione unici. Il patto che stabilisce col pubblico è quello di riuscire di volta in volta a stupirlo nel risolvere casi apparentemente irrisolvibili (da cui appunto i Misteri).
Tutto ciò s’incarna in un personaggio nel cui quotidiano di donna e di madre è facile immedesimarsi. E quando l’enigma finalmente arriva a soluzione, il suo sguardo non è tanto – o solo – quello di una sfida nuovamente vinta. Ma è soprattutto quello delle emozioni che le produce quanto ha scoperto. Emozioni ogni volta diverse, non necessariamente di compassione o di condanna. Comunque senza facili moralismi. Ciò che credo colpirà di questo personaggio, come investigatore, è proprio questa libertà di pensiero sul male che si trova ad affrontare.
Ogni volta che c’è una protagonista femminile nella fiction sui giornali si parla di novità. Noi sappiamo che il firmamento della fiction invece è affollato di poliziotte donne, ultima arrivata in italia la Candice Renoir francese, anche lei dotata di gemelli pestiferi e che è piaciuta tanto ad Aldo Grasso. Ma il gioco del già visto non porta da nessuna parte e non serve a niente. Assai più importante è il tema e l’obiettivo che una serie tv può darsi. In poche parole, qual è la chiave di ingresso nei Misteri di Laura? Cosa vorresti che provasse uno spettatore guardandola?
La novità nella fiction non è necessariamente il genere. A maggior ragione quando comincia ad esserci un’offerta più ampia di canali specializzati che trasmettono serie italiane e straniere di genere, è proprio sulle reti ammiraglie che il genere segna il passo.
La fiction per le reti generaliste deve saper innovare nei contenuti, nei toni, nel livello di consapevolezza che richiede al suo pubblico di riferimento, ma non si deve snaturare sfociando nel genere puro.
Il format del family, che abbiamo inserito nel nostro adattamento, credo che sia conforme a queste necessità.
Ed avere messo in palio – col tono disincantato di una commedia sentimentale – l’emancipazione quotidiana di una madre con tre figli che decide di separarsi e tutto ciò che ne deriva per chi le vive intorno, credo e spero possa intrattenere e coinvolgere il pubblico consentendogli di riconoscersi ed appassionarsi alle vicende dei nostri personaggi.
Poliziotta, Squadra Omicidi della Mobile, città di Torino. Vabbè, ma pare che Laura Moretti e Valeria Ferro debbano per forza incrociare le spade tra loro in nome della competizione delle reti… Non vogliamo stare a questo gioco. Con Claudio Corbucci hai collaborato tanto negli anni passati, vi si trovava in tutte le serie e le miniserie più importanti… Quindi la domanda è un’altra. Per mantenere identità alla propria serie nel mondo occidentale esiste il ruolo dello show runner, ma uno scrittore italiano che cosa può fare, contro cosa deve combattere, su cosa può contare?
Deve combattere contro chi dimentica, più o meno in buona fede, che l’identità del prodotto è garantita solo se al timone c’è un creativo vero.
Di contro va detto anche che, tecnicamente, in Italia di sceneggiatori con le competenze per condurre uno show come accade in molti altri paesi, Stati Uniti in testa, praticamente non ce ne è. E’ un lavoro di produzione esecutiva, che prevede skill manageriali ed artistici più ampi di quelli del “semplice” scrittore. Altrove sono produzioni e network ad investire sulla formazione di sceneggiatori già di comprovata esperienza particolarmente promettenti e predisposti.
Da noi, se si riesce a contare sulla fiducia illuminata di produttore e network, quelli che – come me e Claudio ma non solo – gradiscono mettersi nei guai, possono provare in un contesto completamente diverso e con strumenti contrattuali infinitamente minori da un vero show runner, a mantenere l’identità di una serie. Continuando sul campo il lavoro intrapreso col proprio team di scrittura. Andando sul set, collaborando e sostenendo la regia e gli attori. Arricchendo se necessario la serie con continui aggiustamenti, fino al montaggio, condividendo sempre tutto ma con la libertà creativa adeguata al ruolo dell’ideatore di una serie.
Laddove non arrivano i contratti, è necessario incontrare tra produzione, network, regia e cast, persone disponibili e preparate, sinceramente convinte che la centralità dello scrittore sia preziosa, per riuscire ad ottenere dei risultati. E nel caso de I Misteri di Laura, devo dire che sono stato particolarmente fortunato.
I misteri di Laura è stata una riscrittura. I contratti erano adeguati, ne hanno tenuto conto?
Assolutamente sì. Sono stati in linea con i compensi per una serie originale. Forse l’aspetto più spinoso è la parte relativa all’adattamento dei gialli che spesso hanno richiesto un lavoro decisamente extra.
La fiction ha bisogno di industria, di botteghe creative. I misteri di Laura quanti scrittori ha coinvolto? Ti trovi bene con una squadra folta, pensi che ci sia una misura giusta a secondo delle durate o del sistema produttivo?
Il primo anno abbiamo lavorato in quattro, per otto puntate. Quest’anno, per dodici puntate, siamo in totale nove sceneggiatori di cui sei coinvolti a vario titolo nel soggetto di serie. La tendenza a rendere i gruppi di scrittura più omogenei, quindi più autoriali, è a mio avviso giusta.
I misteri di Laura va in onda in un momento particolare, mentre i dati Auditel non vengono diffusi. Come la vedi? Un’avventura al buio o un’opportunità?
Né l’uno, nell’altra.
I dati saranno comunque noti alle reti. E tra l’altro il buio durerà solo per la prima puntata.
E’ solo una pausa tecnica, quello che ci vorrebbe veramente, la vera opportunità, sarebbe ripensare il sistema sul serio.
Sui nostri televisori tre giorni fa, è apparsa l’app di un canale che profila i propri spettatori giorno per giorno, in base alle scelte che fanno nella library messa a disposizione. E che sulla base di questo articola e progetta la propria offerta.
La favoletta che ci propinano da anni, che internet è cosa diversa dalla tv, non durerà ancora a lungo. Basta chiedere a chi si occupa di pubblicità.
Una domanda su di noi. Abbiamo fondato la WGI perché arrivava forte dalla categoria la richiesta di un passo diverso per gli sceneggiatori: più internazionali, più professionisti, più tecnici e più di fatto autori anche se meno autorialisti nelle pose. Come Presidente hai avuto modo di confrontarti con i Presidenti della WGA, della WGGB e delle Guild europee non anglosassoni. Dovunque è terribilmente dura. Incredibilmente dura a partire dalle faccende più elementari: ma come è possibile pensare che uno scrittore possa lavorare gratis o quasi gratis?
E’ inaccettabile. Punto. In Italia non meno che in Gran Bretagna o in Francia, o negli Stati Uniti.
Quando siamo partiti eravamo convinti di essere il fanalino di coda quanto a diritti minimi per la nostra categoria. Abbiamo scoperto che, al netto del vantaggio che le altre Guild hanno nei nostri confronti in termini di forza economica, contrattuale e dissuasiva, quella della difesa dei diritti degli sceneggiatori è una battaglia che non può mai considerarsi vinta. Anche dove la situazione appare ideale, il lavoro intellettuale in genere sta diventando roba di poco conto.
Da noi, in questo periodo poi, è più facile che altrove cadere nella trappola di considerare la gratuità del nostro lavoro una condizione normale. Un preliminare inevitabile. Ma è quasi sempre solo il miraggio di un lavoro, o meglio di un compenso, che non si concretizzerà mai.
Tenere la schiena dritta e rifiutare la schiavitù (perché di questo si tratta quando si lavora senza compenso) non è solo una questione morale, ma anche e soprattutto materiale.
Quindi, a partire dalle nostre storie originali che ogni giorno mettiamo in mano a produttori o sedicenti tali, ribaltiamo la vulgata: ricordiamoci che siamo noi a dar loro un’opportunità.
E nel dubbio, tra l’uovo e la gallina, non dimentichiamoci che ad esempio i colleghi di WGAwest sono stati capaci di fermarsi tutti per un anno al fine di garantirsi la negoziazione dei compensi e dei diritti delle proprio opere sul web, quando ancora internet non era quello che è oggi.
La WGI sta combattendo su due linee fondamentali. Diritti dello scrittore e visibilità degli sceneggiatori. Anche qui… sembra che uno scrittore possa rovinare un red carpet, non sappia indossare il vestito giusto o parlare educatamente alle conferenze stampa. Alla Festa del Cinema di Roma abbiamo avuto l’occasione di dimostrare che non è così. Ma com’è possibile che nel paese di Zavattini, Flaiano, Guerra, Zapponi, Scarpelli, Benvenuti e…(mi fermo perché la lista è infinita) si insiste a gettare secchiate di fango proprio su un mestiere che ha fatto grande il cinema italiano nel mondo?
“Crede sempre che tutto il mondo sia contro di lui”
Fellini lo diceva di Flaiano, che a sua volta riteneva che il regista calpestasse tutti per ottenere il risultato a cui mirava. Tanto da arrivare ad umiliarlo con un posto in economica mentre lui e Rizzoli volavano in prima classe a Los Angeles per ritirare l’oscar di 8 e 1/2. Insomma la questione della scarsa visibilità degli sceneggiatori ha radici lontane. Ed è un’abitudine consolidata in Europa, non solo nei festival. Quindi vecchia.
Lasciami essere ottimista: il vento potrebbe cambiare presto. Anche grazie al lavoro che abbiamo intrapreso. Oltre alla soddisfazione alla Festa del Cinema di Roma,
mi ha colpito in particolare, negli stessi giorni, il coro unanime delle associazioni che hanno partecipato con noi all’audizione al Senato sul ddl Cinema presentato dalla senatrice Di Giorgi, nel mettere la scrittura al primo posto nel pensare una legge di riassetto del settore dell’audiovisivo.
Molti sceneggiatori temono i sindacati come la peste. Però, quando hanno bisogno, ecco che arriva la letterina, la telefonata… Scusate, eh, ma accade che… Vogliamo spiegare come funziona la WGI, che senza il coraggio dei singoli non si va da nessuna parte, che i papà e le mamme sul lavoro non esistono?
Come sindacato forse è storicamente inevitabile che ci si rivolga a noi… alla bisogna. Il nostro compito è quello di riuscire a saper dare delle risposte concrete e dei servizi utili ai colleghi.
Ma il cambio di passo che c’è stato con WGI sta tutto nel profilo di chi vi aderisce sottoscrivendo il nostro manifesto e decidendo di condividere i propri contratti col nostro Garante: una figura di scrittore dell’audiovisivo maturo e moderno, che si auto determina.
Insomma gente convinta che le cose si possono cambiare, e cambieranno, ma decisa a farlo mettendoci la faccia. Consapevole di essere in compagnia di altri determinati a fare altrettanto. Un’occasione, soprattutto per i giovani, unica e da non perdere.
Grazie, Carlo, lunga vita a te, alla tua scrittura e agli sceneggiatori italiani!