Squadra Mobile
Barbara, cominciamo dall’inizio: un pitch di Squadra Mobile in poche righe. Mi interessa sapere, soprattutto, cosa lo rende diverso da altri polizieschi italiani.
Squadra Mobile racconta le vicende di una sezione della squadra mobile di Roma, a contatto tutti i giorni con i più svariati criminali, che sono ovunque, anche dentro la questura. Il protagonista, già noto al grande pubblico, è Roberto Ardenzi, quello del Decimo Tuscolano, ora trasferito alla Mobile e alle prese non più solo con i problemi di un quartiere ma di una città intera.
Ci racconti com’è nata l’idea della serie?
L’idea è di Valsecchi (il produttore della serie, ndr) che da tempo voleva rituffarsi in un poliziesco di ambientazione romana, raccontando tutto quello che accade all’interno di una questura e mostrando le difficoltà di chi ci lavora, anche attraverso vicende private. Mi ricordo che all’inizio parlammo del film Polisse che aveva colpito entrambi per il realismo e la forte carica emotiva dei protagonisti.
Infatti Pietro Valsecchi firma il soggetto di serie, da solo. Firma anche, e sempre da solo, i soggetti di puntata, mentre tu e Angelo Carbone figurate come story editor. Mi pare, insomma, che rispetto a Distretto di polizia – serie Taodue che hai scritto insieme ai soci WGI Daniele Cesarano e Leonardo Valenti – c’è stato un “avanzamento autoriale” del produttore. Da che cosa dipende? C’entra in qualche modo il nuovo assetto finanziario, il fatto che la Taodue sia stata venduta a Mediaset?
Su Distretto lavorai alla terza e quarta stagione come story editor e sceneggiatrice, esattamente come ora, e non mi pare ci sia stato un avanzamento autoriale di Valsecchi. La situazione mi pare stabile, perché parliamo di un produttore che ama immergersi nelle storie che racconta, che segue ogni fase, con particolare attenzione quella della ideazione del progetto. Io lavoro per Taodue da molti anni e lo ricordo sempre così, nel bene e nel male. Ho imparato molte cose lavorando per Pietro Valsecchi e onestamente non credo mi abbia mai scippato nulla in termini di autorialità, perché con lui i patti sono chiari fin dall’inizio.
I patti sono chiari nel senso che il produttore fa anche l’autore: bene che il credit sia reale e non nasconda uno scippo, a quanto dici, ma resta un modello di scrittura singolare, indiscutibilmente. Rimanendo in tema di scrittura, quali sono le principali differenze tra oggi (Squadra mobile) e allora (Distretto)? In termini di story-telling, soprattutto.
Le differenze sono principalmente legate a una questione di ritmo di racconto e di ibridazione dei generi. Il modello Distretto prevedeva caso A (drammatico) caso B (commedia) e linea gialla. In Squadra Mobile abbiamo cercato di attenuare questo rigido modello e ci siamo legati a un maggiore realismo nel racconto anche grazie alla stretta collaborazione che abbiamo avuto con dei consulenti della polizia. Parliamo spesso di turni, di straordinari, cerchiamo di raccontare una giornata tipo di un poliziotto a Roma.
Come avete messo insieme gli sceneggiatori di puntata di Squadra Mobile
Anche qui abbiamo un modello molto flessibile, non c’è un criterio unico. A volte Valsecchi stesso voleva provare qualcuno nella scrittura, a volte accoglieva nostri suggerimenti, a volte si sono usati sceneggiatori per la produzione più affidabili e più di esperienza.
Secondo te Squadra Mobile è un prodotto esportabile o è destinato solo al mercato italiano?
Non credo che sia nato con l’intento di essere venduto all’estero quanto piuttosto con il proposito di rinsaldare un genere che in Italia ha avuto molto successo e da qualche anno non c’era più nell’offerta televisiva di Mediaset.
Tu e Carbone siete stati coinvolti nelle scelte del set? Casting, location…
In alcune scelte siamo stati coinvolti e informati, non in tutte. Abbiamo avuto un rapporto molto stretto con la regia e spesso ci siamo trovati a dover prendere decisioni importanti tutti insieme.
Insieme a Cesarano e Valenti tu hai scritto anche, oltre al già citato Distretto di polizia per Canale 5, Romanzo criminale per Sky e A.c.a.b. per il cinema. Ci racconti quali sono le differenze principali tra queste tre piattaforme? Sempre per quanto attiene alla scrittura, intendo.
Sono prodotti molto diversi che nascono in contesti e con esigenze diverse. La prima è una serie tv che è stata forse uno dei maggiori successi per la televisione commerciale italiana e per me è stata una vera e propria palestra di scrittura. Sono stata inserita come Junior editor della 3 stagione e ho imparato i ritmi della scrittura, i trucchi del mestiere e le differenze fra la teoria e la pratica. A Distretto sono legati tutti i miei ricordi dei primi anni di lavoro e devo dire che senza quella esperienza non sarei la scrittrice che sono oggi. Ho imparato cosa significa scrivere per la tv, cosa è la serialità… Una conoscenza che poi ho trasferito, modificandola, in Romanzo Criminale per Sky. Questa è stata un’esperienza diversa da Distretto. Si trattava di rendere serialità televisiva il materiale di un romanzo. Di trovare il giusto tono per raccontare quei personaggi così ben scritti nella carta da De Cataldo e renderli icone televisive, personaggi dai quali il pubblico non poteva staccarsi. La sfida della serialità per me è proprio questa: fare in modo che lo spettatore si prenda un appuntamento fisso con dei personaggi, delle storie, non riesca a staccarsi dal racconto e desideri vedere l’episodio successivo prima di ogni altra cosa. La tv, per me, è bella perché è pop e Romanzo Criminale è forse stata una delle più importanti serie pop italiane e sono molto fiera di aver contribuito a crearla e scriverla.
A.c.a.b. è un film e il discorso è diverso. E’ stata un’esperienza di scrittura faticosa e entusiasmante allo stesso tempo. Non era il tipo di film dove fosse facile applicare i tanti modelli teorici che avevo studiato, richiedeva un approccio quasi più da osservatore che non da narratore. La sfida era raccontare dei personaggi reali senza dare un giudizio morale o cercare una parabola. Un racconto fenomenologico, per lo più, ma fatto come piace a me, ovvero senza annoiare e cercando di intrattenere il pubblico.
Hai mai lavorato su film o serie che venivano da una tua idea?
Sì, ho lavorato su idee originali anche se devo dire che non mi è successo molto spesso. Vorrei che questo accadesse di più perché significherebbe avere un vero mercato delle idee, un confronto e uno stimolo a cercare idee nuove e avvincenti. Purtroppo il “mercato delle idee” italiano da tempo è fermo, si lavora molto su commissione e difficilmente si ha la possibilità di fare un pitch a un produttore o un network della propria idea. Negli ultimi mesi ho notato che molti produttori italiani hanno capito che non si può più rimanere troppo chiusi nei confini nazionali e che è necessario confrontarsi coi mercati esteri. Mi è capitato quindi di pensare a storie con un appeal più internazionale e devo dire che lo stimolo e l’impulso creativo è fortissimo. Non si sente l’aria chiusa dei nostri network e la mente è libera di vagare e creare storie nuove. Una bella sensazione per uno scrittore.
Ecco, a proposito di scenari internazionali e, soprattutto, futuri: cosa pensi dell’arrivo di Netflix, previsto a fine 2015? E’ una speranza solo per i soliti noti, o il mercato si aprirà veramente?
Io credo che il mercato si stia già aprendo e che Netflix, sia se produrrà contenuti specifici per l’Italia o meno, potrà essere un nuovo importante punto di riferimento per chi scrive e per chi vede la serialità. Più c’è scelta, più si forma un pubblico dinamico ed esigente. Proprio il pubblico che desidero guardi le mie cose. Non mi piace pensare che un mio prodotto serva a qualcuno per addormentarsi…
Un tema a me caro, la formazione e l’accesso alla professione. Prima la domanda personale: dove ti sei formata e come hai iniziato.
Io sono laureata in Lettere, Storia del cinema. Una laurea completamente inutile dal punto di vista pratico, interessante dal punto di vista teorico. Ho seguito quello che all’epoca si chiamava corso Rai e anche un corso mediaset di scrittura televisiva. Poi la mia vera palestra è stata la Taodue. Lì ho praticamente imparato tutte le basi del mestiere che poi ho approfondito da sola o con altre esperienze lavorative. Sono stata fortunata e credo anche brava, si. Tuttavia non posso non sottolineare che in Italia non esiste una vera e propria scuola o università della scrittura. I corsi sono ormai pochissimi e promettono in tre mesi di insegnare tutto sulla sceneggiatura. Ecco questo è assurdo, è assurdo che non esista un corso universitario pratico di cinema e tv, che si continui nell’esercizio della critica senza dare gli strumenti per diventare uno scrittore a chi lo desidera.
Dunque secondo te la formazione e il reclutamento al nostro mestiere dovrebbero essere gestiti dall’università, ho capito bene? Questa è la domanda generale, che diventa sempre più importante visto che oggi i corsi che abbiamo frequentato e che hanno formato molti colleghi negli scorsi decenni non esistono più (corso Rai/Script, scuola Mediaset).
Sì, è così. Dovrebbe esserci una università del cinema e della tv, con corsi specifici e, ripeto, pratici in ogni settore dell’audiovisivo. Un biennio teorico dove si insegnano e si studiano i modelli narrativi e poi una specializzazione pratica. Il principio per il reclutamento dovrebbe essere uno soltanto: il talento. Dare la possibilità a chi vuole fare questo mestiere di raccontare le proprie idee ai produttori. Avere produttori che cercano idee e non solo appalti. Avere un mercato libero. Questa la mia banale ricetta…
Veniamo alla WGI. Tu sei membro del Board dalla sua fondazione. Riesci a farmi un brevissimo bilancio di questi primi due anni di sindacato? Vittorie e difficoltà principali, e obiettivi per il futuro.
Io credo molto nella Guild, nel concetto di una categoria che si unisce per tutelare i propri diritti. Quando siamo andati a Los Angeles dai nostri colleghi e amici americani, cercavamo oltre alla loro esperienza, la loro motivazione. L’abbiamo trovata e da lì siamo partiti. Da un’idea non di lobbying a uso e consumo di pochi, fatta per mettere “culi” sulle poltrone giuste ma di lobbying collettiva, i cui benefici ricadessero su un’intera categoria. Un obiettivo ambizioso e difficile, che non si costruisce in poco tempo. Abbiamo deciso di piazzare un piccolo mattoncino per iniziare e in due anni siamo riusciti a diventare una voce “fuori dal coro”, a dare una prospettiva diversa a chi crede nel proprio talento. Quello che credo offra la WGI nel panorama italiano è proprio questo ovvero dare una voce a chi sente di avere una dignità professionale e di volerla difendere. Un socio della WGI non ha bisogno di allinearsi ai soci più potenti nella speranza di avere da essi un lavoro. Un socio della WGI si sente ed è dello stesso livello di uno che magari guadagna di più. Da questo punto di vista WGI è un’organizzazione che ha gettato scompiglio nell’omologato panorama sindacale italiano. Non siamo facilmente interpretabili, non ci allettano posti di potere per i quali molti farebbero battaglie. Siamo una forza nuova e non catalogabile. Puntiamo ai diritti, solo a quelli.
Ti ricandiderai per il prossimo Board, a ottobre?
Mi piacerebbe proseguire l’esperienza nella WGI, se i soci lo vorranno e se troverò un ruolo adeguato anche alle mie esigenze lavorative e private. Spesso vorrei avere più tempo da dedicare alla causa ma bisogna fare i conti con le proprie possibilità. Spero di continuare ad essere importante per questa associazione come lei lo è per me.
Diritto d’autore. Cosa dovrebbe cambiare, in Italia?
La dico brutale e estrema come piace a me: dovremmo avere il copyright all’anglosassone e togliere definitivamente la parola “autore” dal nostro diritto e sostituirla con “opera” e difendere e far fruttare quella.
Siamo arrivate alla fine di questa lunga intervista. Grazie mille, Barbara!