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L’evoluzione del pitch

Dalla parola all’immagine

Dall’agosto 2013, da quando cioè la WGI ha iniziato a pubblicare sul sito interviste agli sceneggiatori italiani e stranieri, la prima domanda che viene rivolta agli scrittori è una piccola sfida in nome della brevità: raccontaci il tuo film, la tua serie in un pitch di quattro righe.

C’è chi non c’è riuscito ed ha dovuto dilungarsi e chi si è ribellato, sostenendo che la sintesi di un pitch è una strettoia necessaria nei processi del mercato, ma non riguarda la struttura della propria opera. La maggioranza degli sceneggiatori hanno invece risposto con competenza e precisione: se padroneggi davvero la storia, devi essere in grado di esprimerne il succo, il fascino e l’originalità in poche righe. 

Fatto sta che, come abbiamo già avuto modo di scrivere, nel lancio della Masterclass to Producers , la brevità è un’arte e, nel mercato delle idee, è diventata indubbiamente uno strumento di valutazione.

Le sessioni di pitch nel nostro paese non sono ancora diventate sistematiche come vorremmo, ma la Rai, ad esempio, per la presentazione di un progetto di Fiction, ha cominciato a chiedere come primo documento un concept di due pagine.

Non c’è dubbio che, per facilitare il mercato delle idee, per promuovere la comunicazione tra chi crea e chi realizza, tra chi vende e chi compra, bisogna imparare ad essere sintetici.

Ma da qualche tempo, ad un pitch, si sta cominciando a chiedere qualcosa di più di una comunicazione verbale efficace.

Il nostro socio Giacomo Arrigoni ci racconta la sua esperienza al recente Festival di Cannes. Alla domanda che ci sottopone “Le competenze dello sceneggiatore tradizionale non bastano più?”, rispondiamo con un’altra domanda: “Ma perché lo sceneggiatore deve caricarsi gratuitamente dei compiti di un produttore e caricarsi dei rischi d’impresa? Siamo sicuri che sia la strada giusta?”

Qualche risposta forse verrà dalla prossima Masterclass La sfida del pitch, organizzata da AGPCI in collaborazione con la WGI, per il prossimo 24 maggio.

 

Ho iniziato pensando di stilare un report dal festival di Cannes il più oggettivo possibile, poi mi sono reso conto che non sarei riuscito a separare le mie impressioni dalla mia esperienza personale. Credo quindi possa essere più utile un punto di vista soggettivo: ognuno di noi porta avanti progetti e percorsi in modo unico, ma i punti di incontro tra le varie strade possono essere tanti. Spero quindi che il mio “caso specifico” possa essere utile.

Ero al festival con due progetti di lungometraggio cinematografico, due spec scripts, quindi sceneggiature da me scritte indipendentemente dall’incarico o dall’interesse di un produttore.

Le mie impressioni sono state poi confermate da lunghe riflessioni con colleghi italiani e stranieri con cui ho avuto modo di parlare a Cannes e posso sintetizzarle fin da subito in due punti: l’attore attached e le nuove competenze richieste allo script writer.

I miei incontri sono stati prevalentemente con producers ai quali avevo già mandato sia logline/ sinossi sia il famoso teaser “rubamatic” su cui si era dibattuto brevemente all’interno del nostro gruppo Facebook. Cos’è un “rubamatic”?  E’  la presentazione di un progetto pubblicitario per mezzo di un montaggio di scene e spezzoni di sequenze preesistenti (cioè di altri) che suggeriscono per assonanza la tipologia estetica ed emotiva del prodotto che si vuole realizzare.

Mi sono accorto che ormai è diventato un fenomeno generalizzato: tutti i pitch erano corroborati da elementi visivi. Team di sceneggiatori e registi che proponevano un progetto ad alto contenuto di effetti speciali si sono presentati con bozzetti, storyboard, pre-visualizzazioni animate e rendering di mondi, personaggi, addirittura costumi.

Ma per quanto il pitch possa risultare un successo (con o senza teaser) c’è un elemento che – al di là dell’ indispensabile interesse verso la storia da parte del produttore, può veramente fare la differenza: avere un attore di nome già legato al progetto.

Siamo quindi di fronte a una situazione da “catch 22”, come direbbero gli americani, o “circolo vizioso” come diremmo noi: a meno di conoscerlo personalmente, un attore di nome raramente si scomoda a leggere uno script o a dare il consenso a usare il suo nome senza una proposta economica e una proposta economica congrua non può certo arrivare da uno sceneggiatore/regista che sta cercando il budget per realizzare il film.

Nascono così riflessioni sulle possibili strategie per superare un ostacolo che è al limite del paradosso e arrovellarsi sulla questione è una delle attività più in voga tra gli sceneggiatori che ho incontrato a Cannes dopo i meeting. Portare avanti le due strade simultaneamente – approcciare attori e producers e lavorare sulle relazioni con entrambi – sembra essere la strada più sensata.

Se si considera quindi l’impegno che uno sceneggiatore che voglia proporre progetti deve già affrontare per scrivere lo script, creare un pacchetto di presentazione solido (e corredato da teaser o elementi simili), nonché preparare e affrontare il pitch, aggiungere anche l’attività di promozione del progetto presso gli attori rende sempre più chiaro che ormai uno script writer non è solo uno scrittore per lo schermo e che i confini tra le professioni sono sfumati.

Può essere che io agisca da sceneggiatore/regista e che abbia quindi bisogno di mettere in campo più competenze simultaneamente, ma credo che il panorama internazionale confermi la mia impressione. Basti pensare alla figura ibrida dello showrunner o ai nuovi scenari che si aprono all’orizzonte…

E’ notizia di pochi giorni fa che Spotify produrrà contenuti audiovisivi focalizzati sulla musica: quanto servirà allora allo sceneggiatore portare nel suo pitch anche un “teaser musicale” o una traccia audio per stimolare interesse?

E con la crescente domanda di storie pensate per i nuovi devices con visione a 360°, come potremo presentare il nostro progetto senza una bozza di rendering dell’esperienza immersiva che vogliamo creare a partire dal nostro script? Sembra che il potere della parola non basti più a evocare la forma finale che assumerà il progetto.

L’immagine, che dovrebbe essere il termine ultimo del testo sceneggiato e la sua naturale evoluzione, sembra ora necessaria al testo stesso per ricevere validità e iniziare il percorso verso lo schermo.

Giacomo Arrigoni

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