Scrittori a CannesWriters

Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori italiani presenti con le loro opere al Festival di Cannes. 

Incompresa, è la terza regia di Asia Argento. Il film è presente a Cannes nella sezione “Un certain regard” ed uscirà nelle sale italiane il prossimo 5 giugno. Racconta l’avventura di una bambina di nove anni che affronta un viaggio in una grande metropoli, con la sola compagnia di una sacca e di un gatto nero, per sfuggire al dramma della violenta separazione dei suoi genitori.

Barbara Alberti firma soggetto e sceneggiatura insieme ad Asia: ci ha regalato quest’intervista e la versione originale di una scena madre del film. Trovate il link per scaricare il testo, in coda all’intervista.

 

barbara-alberti_ 

Barbara, come è nata la sua collaborazione con Asia Argento allo sviluppo e alla scrittura del film?

Asia mi chiese di collaborare ad un suo copione, bello, ma che sentivo estraneo. Però c’era un’immagine che mi colpì: una bambina che cammina sola per la città con una valigetta in una mano e la gabbia col gatto nell’altra. Un’immagine chapliniana. E le proposi di fare un film ispirato alla sua infanzia. Accettò subito, segno che l’idea era pronta dentro di lei. Per quanto mi riguarda, per buttarsi immediatamente sul lavoro fu decisivo l’entusiasmo di Luca Guadagnino, che capì al volo il film e ci firmò subito un contratto per produrlo con la First Sun. (In seguito Incompresa passò alla Wild Side, che lo ha prodotto).

Non è la prima volta che scrive al fianco del regista, che differenza c’è a lavorare a stretto contatto con chi poi dirigerà il film?

Scrivo sempre col regista. E’ lui che fa il film. All’inizio, quando cominciai a scrivere sceneggiature in coppia con Amedeo Pagani, cercavamo di forzare lo stile del regista, e vennero fuori dei disastri. Per esempio “Qui comincia l’avventura” con Monica Vitti e Claudia Cardinale, regia di Carlo di Palma, magnifico artista con una autentica vena verista (vedi il suo “Teresa la ladra”). Ma noi con la presunzione dell’inesperienza cercammo di trasformarlo in Ken Russell. Anzi, nel Ken Russell più surreale. Lui, gran generoso, confuse l’amicizia con l’arte, e si lasciò fuorviare. Venne fuori un ibrido imbarazzante. Lo sceneggiatore non deve arrendersi al regista, ma entrare nella sua visione. Non adattarsi  ma fondersi, trasfigurarsi in essa.

In che modo venivano prese le decisioni sulle scene, sui personaggi e  snodi narrativi? Lei proponeva soluzioni vagliate e scelte dalla regista o viceversa? Oppure tutte le scelte sono sempre state fatte insieme e di comune accordo?

Con molta naturalezza. Registravamo, registro quasi sempre. Dietro ogni parola, anche fuori contesto, si può nascondere una suggestione. Asia rievocava la sua infanzia, insieme la trasformavamo in storia. Trascrivevo le sedute, si andava avanti in una concordia quasi irreale. E’ stato un tempo di ispirazione ed armonia. Una volta raccolto il materiale mi sono rinchiusa a scrivere, col mio solito metodo arcaico, da orafo. Sul tavolo, a ventaglio, la sbobinatura degli incontri, TUTTO, ogni minimo appunto a margine – lo sceneggiatore diventa qui investigatore, a caccia delle intenzioni- nulla da scartare a priori- è il momento del panico – come ciò potrà comporsi? Tutto è chiaro e tutto è da farsi. E’ il momento dell’artigiano, della pazienza, del puzzle, fino ad arrivare alla forma. Dopo aver lottato con alternative, tagli, sovrabbondanze, viene il momento bello, quello della scrittura. A copione finito lo abbiamo rivisto insieme con poche modifiche, le nostre visioni coincidevano.  Nel lavoro, Asia è un soldato. Puntuale, aperta, grande senso dell’umorismo. Nessuna delle due si affezionava alla propria idea, né aveva paura di dire una sciocchezza che magari era la porta di un’idea intelligente, c’era un flusso continuo. Immergersi in un’infanzia- sentirsi un po’ anche gli Zorro dei bambini- la giocosità pensosa di intitolarlo Incompresa…Ho visto il film, è bello, un’opera di aspra poesia, la bambina te la ricorderai sempre, come ET.

Scrivere con il regista influenza anche la sua tipologia di scrittura? Lei tende ad essere maggiormente dettagliata circa le idee di inquadratura o le tecniche di ripresa vengono tenute fuori dal suo lavoro di scrittura?

No, la scrittura è sempre quella. Per i dettagli dipende dal regista. Qualcuno si indispettisce, qualcuno gradisce. Di solito metto tutto ciò che mi sembra necessario, poi la sua interpretazione filtra e tramuta. Lavorando a “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino era lui a descrivere, fra trance, precisione scientifica, senso pittorico, sterminata sapienza filmica, l’ambiente in cui immaginava la scena. Arredava ogni angolo. Vedeva i tagli di luce, i colori, sentiva la colonna sonora. Guadagnino pensa in musica.

Parlando delle sue idee originali, come nascono di solito i suoi soggetti?

A volte da un fatto accaduto, un dolore, un amore, un terrore, una gran risata, una rabbia, una lettura, un film, un ricordo, un sogno…Veramente non lo so.  L’idea mi viene davanti, e comincia un’altra vita. Ci abiti. L’idea (cinema, libro, radio) moltiplica il tempo, frega un poco la morte.

Come sviluppa i soggetti? Qual è l’iter che è abituata a seguire? Soggetto, scaletta, trattamento e sceneggiatura? O salta alcune fasi perché preferisce arrivare al copione più libera?

Soggetto, scaletta, sceneggiatura. Ma prima di tutto appunti sparsi, a mano, dove c’è tutta l’ossatura ma soprattutto il ritmo della storia, il suo segno emotivo. Quando ho collaborato a “L’arbitro” di Paolo Zucca (molto limitatamente, il film esisteva già in nuce nel corto che aveva preceduto il film, che è un assoluto “zucchiano”), il mio lavoro si basava su frasi segnate senza registrare, una costellazione di codici da decifrare, mai inutili.

Riguardo la stesura delle sceneggiature, quanto si affida a strutture e archetipi narrativi e quanto lascia libera la sua creatività di esplorare una storia senza “regole” di sorta?

Dipende. Sono molto spregiudicata. Seguo la mia emozione, il mio piacere. Ho un debole per le creature in rivolta- e per  il lieto fine- a modo mio. Anche nei libri, i miei personaggi aspirano alla più difficile delle felicità.

Dopo la prima stesura, si avvale dell’aiuto di editor o lettori di fiducia per avere un parere, suggerimenti e note per migliorare lo script nelle revisioni successive?

Corro a farla leggere ad Amedeo Pagani, che è produttore e sceneggiatore, e ha un occhio formidabile.

Ritiene che la stesura definitiva del copione debba essere per larga parte rispettata sul set o pensa che in fase di riprese modifiche ed intuizioni possano beneficiare alla riuscita del film? E crede sia utile che almeno uno degli sceneggiatori sia sempre presente sul set?

Io credo che col regista bisogna mettersi d’accordo prima. Dopo, il lavoro entra in un’altra fase, e lui (lei) è il sovrano assoluto del set. Il film è il suo occhio, e quello del direttore della fotografia. Circa la presenza dello sceneggiatore durante le riprese, a seconda delle persone e dei rapporti può essere utile, o nefanda.

Quale scena di “Incompresa” è stata la più difficile da scrivere e  perché?

In sede di sceneggiatura, nessuna. Ideazione e scrittura sono venute per grazia, come un dono. C’è però una scena che mi è molto cara perché fonda la violenza dei genitori, di questo mondo di cui la piccola protagonista è vittima ma anche vendicatrice, col suo occhio implacabile e la sua capacità di trasfigurazione. In questa scena, in cui il padre se ne va di casa con una lite bestiale, si esprime il fascino della madre, un’erinni ma anche una grande artista, doppia ed impetuosa, che passa da un discorso su Ciajkovskij e Rachmaninov ai più comici insulti da trivio.

Intervista a cura di Riccardo Degni

Scarica il testo di una scena tratta da “Incompresa”