L’intervista risale a mercoledì 14 maggio 2014, ore 18.30, albergo Del Quirinale, Via Nazionale 24, alla vigilia della partenza per Cannes. Dieci giorni prima di conquistare il Grand Prix du Jury.
Che rapporto hai con la scrittura Alice? Puoi parlarcene in generale per capire il tuo processo creativo?
Tutto comincia con il mio produttore, Carlo Cresto-Dina. L’idea di lavorare insieme, più di quattro anni fa ormai, parte da una reciproca stima innanzitutto come persone. È successo con me ma anche con Leonardo di Costanzo, a cui Carlo ha prodotto l’esordio fiction L’intervallo. Con Carlo non si comincia con il classico “Questa è la mia sceneggiatura”, ma da una serie di incontri in cui parliamo di tutto molto liberamente ma in cui soprattutto ci facciamo una serie di domande. È un rapporto molto confidenziale. E in maniera tecnica, una sorta di brainstorming.
Le domande vertono su degli spunti o su una storia già vagamente ipotizzata?
La storia arriva per ultima. Per prima cosa arrivano i posti. E in particolare la ricerca sui posti. È successo così nel mio primo film, è successo così anche in questo secondo. Prima la Calabria. Ora il Viterbese e la Bassa Toscana.
E in cosa consiste la fase di ricerca?
Tutto e niente. Da quello che vedo con gli occhi ai libri che leggo soggiornando lì per dei periodi di tempo. Però lasciami usare una metafora. È come quando si prepara la tavola. Sulla tavola devi mettere una serie di alimenti che poi verranno trasformati e alla fine mangiati ma senza quegli ingredienti iniziali, non puoi permetterti di invitare nessuno a quella tavola. Quindi questa la fase di ricerca è la fase di ricerca della materia prima. Dai posti ai temi, fino alle sensazioni.
E come vengono tenuti insiemi tutti questi ingredienti preliminari?
C’è un presupposto che condividiamo sempre sia io che Carlo. Noi non ci domandiamo mai: Qual è il film che vorresti fare? Noi partiamo da un’altra domanda: qual è il film che vorresti vedere?
E come ci si arriva al film che vorreste vedere?
Ecco, dopo le suggestioni arrivano i temi in ballo. Anche se ci tengo a dire che i miei non sono mai film a tema.I temi che prendiamo in considerazione sono come se disegnassi le righe di un campo di calcio, metto una serie di limiti e poi lì dentro ci vado a giocare. Per esempio, il tema in ballo nel mio primo film – Corpo Celeste – era la parrocchia. L’agricoltura in questo secondo.
E cosa succede quando scendi sul campo di calcio?
Arriva la storia. Ci tengo a precisare che nessuno mi ha mai chiesto di scrivere una storia che funzioni immediatamente dal punto di vista del mercato. È la più grande gioia che ho. La libertà che mi concedono.
Ma ti chiederanno sicuramente un film che funzioni dal punto di vista della storia, vero?
Certo. Ed io in maniera molto sincera lo dico subito. Non sono una grande esperta di struttura. Vado molto ad intuito. In maniera molto empirica sento che ad un certo punto qualcosa deve succedere e qualcos’altro, in un altro momento, magari deve cambiare. E io a queste semplici sensazioni obbedisco. Puro intuito.
La parte iniziale di questo intuito come funziona?
Comincio da lunghi appunti, quaderni interi e diari. Accumulo tutto. Poi nasce un soggetto.
Che è una sintesi o un approfondimento?
Una sintesi. Calcola che il soggetto può anche essere di mezza pagina.
Che fai leggere a chi? Nel senso, hai degli editor professionisti come interlocutori?
Il soggetto lo legge Carlo, mia sorella e in questo caso la babysitter che ha vissuto con me per i due anni di preparazione del film, che si chiama Gelsomina proprio come la protagonista de Le meraviglie. Quindi sono loro tre – un produttore, un’attrice e una baby-sitter – che mi hanno seguito sempre in tutte le varie stesure.
Dopo il soggetto?
C’è il trattamento, di circa 10 pagine. Dopo il trattamento comincio una grande ricerca di immagini, che sono quadri, foto, disegni, tutto quello che può servirmi a formarmi un immaginario visivo. E lo faccio per ogni personaggio.
Come lavori sulla caratterizzazione dei tuoi personaggi?
Ognuno di loro nasce da una serie di riferimenti iconografici. Faccio delle cartelle ed ecco i personaggi. Scrivo materiali come se fossi loro. Per esempio, in quest’ultimo film ho scritto il diario di Gelsomina, la protagonista. Ma alla fine, non per forza finisce nel film. Nel primo film avevo scritto interi monologhi dei personaggi, che poi, anche questi nel film non sono finiti. Diciamo che più che l’analisi mi affascina la sintesi. Scrivo poi delle vere e proprie mappe emotive dei personaggi. Le scrivo su una carta trasparente, e poi le sovrappongo l’una con l’altra e lì ho la temperatura esatta del film. Che è una forma. E da qui mi accorgo dell’andamento generale del film. Poi stampo tutto e comincio a tappezzarci le pareti della mia stanza. Quando la stanza è piena, allora comincio a scrivere la sceneggiatura.
Arriviamo al copione. Quanto cambia la circostanza che sarai poi tu a girarlo?
Allora. Il copione, per me, è sempre il contrario del film. I copioni che ho scritto io sono estremamente pieni di dettagli. Poi calcola che io nel primo e nel secondo, non ho mai e dico mai fatto una sola ripresa di un dettaglio. Ma non posso dire che quei dettagli del copione non siano finiti nell’atmosfera del film. Le regole della manualistica non le seguo. Da quel punto di vista è tutto sbagliato. Perché appunto, so che ci lavorerò io. Questa è la mia libertà. Quando scrivo, butto fuori ogni cosa e nel momento delle riprese scremo tutto. Ecco perché poi si arriva al film che io definisco il contrario del copione. E viceversa.
E quindi il lavoro della messa in scena sul set come funziona?
Funziona così. Il dettaglio e le sfumature ci sono, perché nel copione c’è tutto, moltissimi pensieri, tutto. Poi è l’attore che deve portare tutto in scena e farlo vivere. Ed io mi sento sempre libera di riprendere ciò che voglio. L’attrice sa esattamente tutto quello che passa per la testa del personaggio in ogni singola scena. Diciamo che sono copioni molto romanzati quindi. Ma mi dicono che le mie sceneggiature sono molto piacevoli alla lettura. L’equilibrio che alla fine ottengo è sempre lo stesso. Se il copione è strabordante, il film invece è asciutto.
E sui dialoghi invece come lavori?
Qui è un po’ diverso. Scrivo i dialoghi pensando di girarli in maniera fedele il più possibile. Li rispetto abbastanza. Possono cambiare certo, ma questo succede a tutti, penso. Alla fine devo dire che li rispetto abbastanza. Poi certo, facciamo molte prove prima del set e quindi lì vengono già messi a punto. Lavoro con una acting coach e con lei proviamo tutto. Per arrivare al risultato più naturale possibile. I miei comunque non sono mai dialoghi che portano avanti la narrazione. Quasi mai. Spesso sono più il rumore di un luogo, di una famiglia, di una situazione.
Quindi per la struttura dei tuoi copioni non ti orienti mai partendo dai modelli della drammaturgia, che siano classici o alternativi, vero?
Lavoro molto sulla linearità. La semplicità della linearità. Non uso trucchi, non mischio le carte, non confondo lo spettatore. Non perché le disdegni ma perché non le sento mie. Non so se sarà per sempre così, ma per ora lo è. Certo, poi, fuggendo i trucchi, non utilizzando le strategie per sedurre lo spettatore – e ripeto, sono tutte cose che normalmente funzionano – io sono consapevole di correre il rischio di essere ancora più fragile. In pratica diciamo che rischio di rimanere da sola, io e il mio film. Ma è un rischio che mi piace correre. A questo punto però ci tengo a dire che tutto quello che ho raccontato in questa intervista è quello che mi è capitato due volte nella vita, come due sono i miei film. È ancora poco per poterlo chiamare il mio metodo. È semplicemente quello che ho fatto fino ad oggi. E se dico oggi intendo proprio oggi. Perché il film l’ho chiuso prima di fare questa intervista, su, nella mia camera d’albergo. Perché da Cannes mi hanno mandato l’ultima revisione dei sottotitoli internazionali ed essendo la lingua parlata nel film un miscuglio di italiano e di vari dialetti, io ho personalmente seguito tutta la fase di traduzione dei sottotitoli.
Chiudiamo con due brevi domande che sono però la doppia faccia di uno stesso argomento. Non hai mai scritto soggetti per qualcun altro? Lo faresti?
Non me l’hanno mai chiesto, non è mai successo, ma non lo escludo. Ma penso che dovrei conoscere alla perfezione il modo di vedere di questa persona, per farlo. Perché i film sono troppo legati al modo di vedere le cose del regista che non so pensare ad un altro modo di lavorare.
E al contrario. Gireresti mai un copione non scritto da te?
Non ho una teoria al riguardo. Posso farti degli esempi. La musica. Non l’ho usata nei miei due film. C’è solo quella diegetica e basta. E la stessa cosa con i flashback. Non li ho mai usati fin qua, ma in entrambi i casi non posso dire non lo farò per sempre. Consiglio a tutti di andare a farsi un giro sul sito del film e lì vedrete che ci sono molti materiali extra, pensati appositamente per internet.
Intervista a cura di Ezio Abbate