Kill me if you can
Applicare lo storytelling al documentario
Caro Vincenzo, il doc che avete presentato alla Festa del cinema di Roma, in sala dal 27 febbraio (Kill me if you can) è il terzo che hai scritto con Alex Infascelli. Dopo l’autista di Kubrick e il più famoso capitano della Roma, anche questa è una storia fuori dall’ordinario di un italiano. Cosa vi ha colpito e stavate cercando nella vicenda del marine italo-americano? Ricordiamo in due parole di che si tratta.
Kill me if you can narra la storia di Raffaele Minichiello, emigrato da un paesino dell’ Irpinia in America da ragazzino nei primi anni sessanta. A 17 anni Raffaele si arruola nei marines, a 18 lo mandano a combattere in Vietnam. A 19 torna negli Stati Uniti e subisce un trattamento che lui sente come un’ennesima ingiustizia. A quel punto decide di fare un gesto estremo: dirotta un aereo di linea da Los Angeles a Roma. Il più lungo dirottamento della storia dell’aviazione civile.
E questo è solo l’inizio della storia narrata nel film… Certamente questa vicenda straordinaria ha attratto la nostra attenzione, ma non sarebbe bastato a farci venire la voglia di farne un film se non avessimo conosciuto Raffaele Minichiello in persona nell’autunno del 2017. Allora abbiamo capito che poteva venir fuori qualcosa di dirompente.
Ci racconti un po’ come funziona il percorso creativo di un doc? Come avete scoperto la storia, come hai/avete vissuto la ricerca dei materiali, quanto tempo avete impiegato a trovare la chiave del racconto?
Come era stato per il libro sull’autista di Kubrick, Emilio D’Alessandro, e per quello su Totti, il libro di Pierluigi Vercesi su Minichiello ci è servito come blocco di partenza, ma dopo i primi venti metri ce lo siamo lasciato alle spalle e abbiamo iniziato ad accumulare informazioni, filmati, foto e testimonianze da altre fonti, grazie anche al valido team che ci ha messo a disposizione la produzione. Poi naturalmente c’era il nostro protagonista in carne ed ossa con cui progressivamente siamo entrati in confidenza. Da questo lavoro preliminare sono nati un trattamento ed un promo video che sono serviti sia per reperire finanziatori che per iniziare a capire cosa si poteva fare. Da qui poi abbiamo scritto una vera e propria sceneggiatura, sapendo benissimo che per il 70% il film sarebbe stato un’altra cosa. Ma non voglio dire che questa fase sia inutile, anzi, è assolutamente necessaria per arrivare alla scrittura definitiva che avviene nella fase di montaggio.
Il primo passo sono le interviste al protagonista e, in questo caso specifico, anche ai numerosi comprimari.
Si scrivono delle domande mirate per ciascuno e dalle risposte che si ottengono si comincia a capire in che direzione andare ma è comunque uno degli ingredienti, alle interviste si aggiungono infatti contestualmente materiali, video, audio, documenti scritti, foto, che possono arrivare anche in tempi diversi dirottando il film dal tragitto previsto verso altre mete, facendogli prendere tutta un’altra direzione rispetto a quella programmata.
A quel punto siamo al montaggio dove avviene la vera scrittura di un documentario, nel senso della strutturazione delle sequenze in una articolazione drammaturgica. È il momento, che può durare all’ incirca 9 mesi, in cui si capisce da tutte queste voci, immagini, suoni, qual è la storia che stiamo raccontando e come raccontarla. Anche mentre avviene la scrittura al montaggio si possono aggiungere altri elementi derivanti da nuove sorprendenti scoperte.
Per Kill me if you can un elemento fondamentale del film, che non posso rivelare, lo abbiamo scoperto in corso d’opera.
Come sai, in quanto WGI ci preoccupiamo di far conoscere i nomi degli sceneggiatori. È una faccenda abbastanza semplice se si tratta di un film, sia che vadano in sala sia che vengano distribuiti sulle piattaforme, già più complessa per i prodotti tv, soprattutto la lunga serialità, dove gli scrittori spesso abbondano e si sovrappongono. Per i documentari diventa quasi impossibile: i siti, le schede stampa spesso non riportano neanche la voce “sceneggiatura di”.
Quando avviene, troppo spesso, forse è colpa degli uffici stampa che non comunicano chi ha scritto il film o dei giornalisti che non lo riportano. Però direi, senza giustificarli, che è anche una questione culturale. Molti non sanno che cosa significhi sceneggiare un documentario. Può in effetti sembrare una contraddizione in termini. E questo perché “sceneggiare un documentario” è un’attività relativamente nuova.
Il docufilm, chiamiamolo così per semplificare, è un tipo di narrativa non fiction emersa abbastanza recentemente, diciamo negli ultimi quindici anni. Consiste nell’articolare dei materiali documentari in una narrazione che tenga conto delle tecniche di storytelling usate nei film di finzione. È una cosa differente dai documentari alla Wiseman, alla fratelli Maysles, alla Cecilia Mangini, alla Herzog, tipi di documentari che usano un approccio diverso, che va dal “fly on the wall” al reportage giornalistico, fino alle pure immagini montate poeticamente senza esigenze narrative, a volte commentate dallo stesso autore.
I docufilm usciti negli ultimi 15 anni anni invece, penso all’insuperato Searching for Sugar Man ma anche al recente Leone d’oro All the beauty and the bloodshed, tendono ad applicare le tecniche narrative della fiction al materiale documentario.
Applicare i tre atti, l’ironia drammatica, i pay off, i reversal e tutti gli altri trucchi del mestiere al materiale documentario richiede dei veri e propri sceneggiatori che si esprimono non solo per iscritto nella fase prima delle riprese ma anche e soprattutto nella fase di montaggio accanto al regista.
Io vengo dalla fiction e sto in questo momento sviluppando un paio di progetti di finzione accanto ad altri progetti documentari, non ho particolare interesse a rivendicare “sindacalmente” il ruolo dello sceneggiatore di documentari, che di fatto non esiste. Esiste solo lo sceneggiatore che può accedere a questa specializzazione del racconto non fiction. È una specializzazione che è nata da quando appunto si è iniziato a narrare con le tecniche dello storytelling tipiche dei film narrativi dei materiali e delle riprese documentarie. Non so se tutti coloro che risultano accreditati come scrittori di documentari lavorano come faccio io, anche grazie ad un regista che rispetta la scrittura e “sfrutta” lo sceneggiatore fino in fondo. Quello che posso dire è che un tipo di lavoro che richiede lo stesso impegno, conoscenza, talento e “arte” che si impiegano nello scrivere opere di finzione.
È gia avvenuto (Francesco Patierno nel 2017 per il doc Napoli ‘44) e spero che avvenga di nuovo, che uno sceneggiatore di un film documentario sia candidato alla migliore sceneggiatura ai David.
Applicando le tecniche di storytelling alla realtà documentata, non c’è il rischio di manipolare o mistificare? Non c’è il rischio di forzare la storia reale in un cliché narrativo prestabilito?
Per evitare di cadere in questa tentazione oltre ad una buona dose di onestà intellettuale, che paga sempre in “arte”, bisogna restare fedeli e attaccati ai protagonisti reali. Sono loro che in fondo dettano dove va la storia. L’autenticità la si raggiunge avendo fiducia in quello che ci offre la realtà, anche se distrugge i nostri schemi narrativi, anche se ci costringe a rinunciare a quella che pensavamo fosse la vera storia del film.
Mai come in Kill me if you can questo è stato vero. Il nostro protagonista non si è lasciato ingabbiare in nessun genere prestabilito anche se la sua vita sembra di volta in volta un thriller, una commedia all’ italiana, una commedia romantica, un melodramma. Alla fine abbiamo dato fiducia alla sua inafferrabile vitalità. Solo se si ha fiducia nella realtà che si narra abbandonandosi alle scoperte che via via si fanno durante la lavorazione si può realizzare un’ opera emotivamente coinvolgente e moralmente onesta.
Quindi direi, per riassumere, che nel caso dei documentari dove la struttura narrativa è importante, la creatività nasce dal rapporto dialettico tra la realtà dei fatti e delle persone che si incontrano e le tecniche di storytelling che si applicano.
Scrivere un documentario, col tempo che occorre per fare un buon lavoro, è un gioco che economicamente, al di là della passione, vale la candela?
Direi che dedicarsi ad un documentario per il cinema all’anno non è conveniente dal punto di vista economico: o si fanno altri lavori remunerativi, di finzione o altri documentari, o, se il progetto è veramente coinvolgente e in qualche modo personale, si tira la cinghia. Io ho fatto entrambe le cose.
Minichiello lo hai sentito come un eroe mitico, così come Emilio e Totti, uomini che riescono a contare perché sanno fare bene, meglio degli altri, quello che sanno fare, che tutti potrebbero saper fare? Un eroe forte, classico è ancora l’eroe di tutti?
Minichiello da una parte è il tipico antieroe dei film americani anni 70, il primo riferimento è Taxi driver.
Dall’altra è anche un tipico personaggio della grande commedia all’ italiana, ma potrebbe essere anche Forrest Gump o, da anziano, il protagonista di un film di Clint Eastwood.
Una delle intuizioni creative più felici, dettata dal materiale che abbiamo trovato, è stata quella di fare un film che assumesse di volta in volta la forma dei generi cinematografici evocati dagli avvenimenti: l’action adventure, il thriller, la commedia all’italiana. Eppure l’energia vitale di Raffaele Minichiello elude alla fine tutti i generi, sfugge ad ogni catalogazione. Assecondando questa sua natura ambigua ed enigmatica siamo arrivati ad un finale aperto, l’unico possibile.