Another End
Scritto da Piero Messina, Giacomo Bendotti, Valentina Gaddi, Sebastiano Melloni
Another End, è un film italiano prodotto da Indigo e diretto da Piero Messina che è stato presentato in concorso nella sezione principale dell’ultimo festival di Berlino, che uscirà in sala il prossimo 21 marzo. Il film nasce dalla sceneggiatura Non morire più, che ha vinto il Premio Solinas 2015 (miglior soggetto e miglior sceneggiatura) scritta dalla nostra socia Valentina Gaddi insieme a Sebastiano Melloni, poi rielaborata insieme al regista e a Giacomo Bendotti.
Carissima Valentina, qual è stata l’ispirazione dietro la storia di Another End? Come sceneggiatori, vi siete ispirati ad un particolare evento o ad un’esperienza personale che ha influenzato lo sviluppo della trama?
L’ispirazione per la storia viene dal lontano 2014, quando con Sebastiano Melloni ci siamo ritrovati a riflettere sul tema dell’elaborazione del lutto, attratti da un argomento così universale e atavico, che probabilmente in me toccava delle corde molto intime per via di un vissuto personale. Quello che ci interessava raccontare era l’impossibilità dell’essere umano di rassegnarsi alla perdita di chi si ama. Se fosse possibile riportare in vita chi ci ha lasciato, saremmo disposto a farlo a qualunque costo? L’amore, insomma, può vincerela morte? Ci siamo fatti queste domande immaginando un mondo che non si rassegna alla fine e che per esorcizzarla ha creato un sistema incoscientemente distopico, grazie a uno sviluppo tecnologico che nel corso degli anni sta diventando sempre più plausibile. L’idea di far sopravvivere la coscienza al corpo è un topos della fantascienza, ma cosa succederebbe se una coscienza abitasse per qualche tempo un corpo altrui? Saremmo in grado di riconoscere e amare chi abbiamo perso? Dove risiede davvero l’amore, quindi? La fantascienza è un espediente affascinante per esplorare l’animo umano, perché consente di mettere letteralmente in scena una metafora. Il cuore della storia insomma è l’amore, in varie forme. Ed è stato proprio questo sguardo romantico alla fantascienza a convincere il premio Solinas e poi ad attirare l’interesse di Nicola Giuliano e Piero Messina, per poi coinvolgere nel progetto Giacomo Bendotti. Le reference più immediate del resto sono film che usano un contesto o un pretesto di distopia per parlare di sentimenti, come Eternal Sunshine, Her, Never Let Me Go, Another Earth, Moon, Alps.
Il tema della perdita e del dolore è centrale nella trama. Come avete affrontato la sfida di trattare questo argomento in modo sensibile e autentico?
Un po’ come nel film di Gondry, dove l’idea (meravigliosa) è che chi soffre per un distacco trovi pace solo nel cancellare letteralmente l’altra persona dalla propria testa, abbiamo provato a percorrere una strada parossistica, dove al contrario la soluzione del nostro protagonista è una sorta di accanimento terapeutico. Il tentativo è stato quello di filtrare un sentire caldo e universale come il dolore per un lutto, attraverso le lenti fredde e distopiche della fantascienza, per trattare il tema più struggente che ci sia senza annegare nel melò.
Another End introduce una tecnologia futuristica che permette di riportare in vita la coscienza dei defunti. Qual è il tuo punto di vista sulla relazione tra tecnologia e emozioni umane, e come hai integrato questo tema nella sceneggiatura?
L’idea è sempre stata fin dall’inizio e ancor di più nel confronto con Piero, quella di rendere l’aspetto tecnologico – sebbene sia il motore d’avvio – meno ingombrante possibile nella sceneggiatura. Non per una sorta di timore nei confronti dei canoni di genere, ma perché di fatto non è mai la tecnologia a influenzare le emozioni dei personaggi, così come non influenza le emozioni umane, ma se mai le mette alla prova. Lo sviluppo tecnologico ci pone domande etiche sempre più articolate, ma le risposte (quelle di Sal, il protagonista, come le nostre) prescindono dal meccanismo. La fantascienza, da Asimov a Westworld, ci affascina proprio per questo motivo, cioè per la capacità di innalzare il livello della sfida, rispetto al presente, al reale, per poi godersi la battaglia che ne consegue all’interno dell’animo umano.
La trasposizione di una coscienza in un corpo diverso è un concetto intrigante. Qual è il messaggio principale che desideri trasmettere riguardo all’identità e all’amore attraverso questa premessa?
Penso che l’amore non abbia a che fare né con il corpo né con la coscienza, a differenza dell’identità, che risiede in entrambi e che quindi in qualche forma sopravvive anche alla morte… l’amore nasce (e sopravvive) dall’interazione profonda e umana tra due esseri che hanno la possibilità di evolvere insieme. E questa condizione rende inscindibili corpo e coscienza. L’amore quindi ha a che fare con la vita, con l’esistere nello spazio e nel tempo. Non può esprimersi veramente in mancanza di reciprocità e di autenticità, come nel caso di un vivo che ama un morto che si crede vivo.
Come avete lavorato allo sviluppo dei personaggi di Sal e Zoe, soprattutto in relazione alla complessità della loro relazione e delle emozioni che li legano? E perchè la scelta di Gael Garcia Bernal e Renate Reinsve?
Abbiamo immaginato una coppia normale, che restituisse il più possibile la verità di una relazione che in un certo senso è disfunzionale, come sono la maggior parte delle relazioni reali. Non volevamo raccontare l’idealizzazione della coppia perfetta, come se nella perdita la sofferenza fosse maggiore. Sal e Zoe hanno degli irrisolti del passato con i quali hanno la possibilità di fare i conti, durante una nuova parte di vita insieme, ma questa illusione di una risoluzione, che non potrà mai essere del tutto autentica, rende ancora più struggente la separazione a cui sono destinati. Penso che i due attori che li interpretano – anche per la loro fisicità, che ha un senso tematico importante nel film – rendano particolarmente riuscita questa armonia, imperfetta ma profondamente romantica.
Qual è il vostro approccio nel bilanciare la speculazione tecnologica con le questioni etiche sollevate dalla trama?
Una premessa distopica si porta dietro delle conseguenze sul piano etico, che è inevitabile affrontare nella costruzione della storia. Ma nel definire le regole di questo mondo, dove la tecnologia arriva a sfidare la morte, abbiamo cercato di mettere sempre al centro le scelte intime dei personaggi, che riflettono certo la società in cui vivono, una società in rimozione del lutto, ma non ne sono un manifesto. Il dilemma interiore è espressione del dilemma etico (e viceversa).
Come avete gestito il processo di costruzione del climax e della risoluzione della storia per comunicare efficacemente questo messaggio?
Impossibile rispondere senza spoilerare (giuro)!
Che feedback avete avuto nella presentazione della pellicola all’ultimo Festival di Berlino?
Il film è stato accolto molto bene, aprendo un dibattito, lanciando delle domande. Forse la Fine in fondo è un’ossessione non solo per noi, ma per tutti?