Gli investigatori della Writers Room, ovvero una serie di decisioni tutte azzeccate.
Premessa: Unbelievable, una vicenda accaduta davvero
Un articolo del 2015 su ProPublica (USA) riporta la storia di una ragazza violentata e diventa la base per una serie dalla struttura drammaturgica originale.
La mini serie Unbelievable si basa su una storia vera e in particolare su un articolo, An unbelievable story of rape di T. Christian Miller e Ken Armstrong, pubblicato il 16 dicembre 2015 su ProPublica (uno spazio non profit di informazione e approfondimento online che indaga sugli abusi di potere) in collaborazione con il gruppo The Marshall Project e che viene premiato con il Premio Pulitzer nel 2016.
https://www.propublica.org/article/false-rape-accusations-an-unbelievable-story
L’articolo, una narrazione dalla qualità altissima, è già tutta la sceneggiatura in nuce: comincia con la data del 12 marzo 2009 a Lynwood, Washington, il giorno del processo a una ragazza diciottenne accusata di falsa testimonianza, sola nell’aula del tribunale alla cui udienza è presente solo l’avvocato difensore, e prosegue con un salto temporale il 5 gennaio 2011, a Golden, Colorado, quando la detective Stacy Galbraith va a interrogare una vittima di stupro a casa sua, appena accaduto il fatto. Ad ogni capitolo, la narrazione salta già da un tempo all’altro, da un plot a un altro.
La prima vittima, quella che non viene creduta, colei che è il vero motore della storia, è già chiamata Marie (nome di fantasia) dai due giornalisti investigativi; è passata da una famiglia all’altra, ha subito abusi fisici e psicologici, ha avuto due madri affidatarie che hanno tentato di prendersene cura (una simpatica, l’altra molto meno) e appena compiuti 18 anni è stata accolta nel programma per giovani fragili Project Ladder ed è andata a vivere da sola in un appartamento all’interno di un complesso sotto la sorveglianza di un adulto responsabile.
È proprio questo che lo stupratore sorveglia per settimane entrando addirittura due volte dalla porta finestra sul ballatoio. Il dipartimento di polizia di Lynwood che, come è stato appurato, ha tenuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti di Marie costringendola a ritirare la denuncia di stupro, pare sia stato responsabile di molti altri casi come il suo: durante lo stesso anno 2008 altre quattro denunce di stupro furono giudicate infondate dai medesimi investigatori e dal 2008 al 2012 furono da loro respinte ben 10 denunce su 47. La percentuale nazionale di denunce di violenza infondata è 1 caso ogni 50 ogni anno. Questo ultimo dato, pur inquietante, non entra nella sceneggiatura; tutto il resto, invece, è la ricostruzione fedelissima di ciò che è accaduto davvero.
Gli autori annotano alla fine del loro articolo che Marie si è sposata, è diventata mamma di due bambini e lavora come camionista. Il sito nientepopcorn.it che racconta questa storia cita un tweet dei due giornalisti che riporta di come Marie abbia dichiarato di aver visto la serie, di avere pianto e di avere trovato l’attrice Kaitlyn Dever, che la interpreta nella serie, perfetta: l’attrice ‘è riuscita a riprodurre esattamente il mio tormento’.
La detective Stacy Galbraith alta, bionda e magra è colei che nella realtà ha dato il via alle indagini. Come nella finzione, è suo marito, poliziotto in un altro dipartimento, che nota per primo il modus operandi dello stupratore del tutto simile a un caso accaduto nel suo distretto ed è lui che la manda a Westminster a cercare la collega detective Edna Hendershot, una donna bionda e morbida. Gli sceneggiatori hanno compiuto una scelta molto interessante: hanno deciso di invertire le caratteristiche fisiche dei personaggi principali scambiandone i corpi: vedremo più avanti quanto questo sia importante per alcuni aspetti della finzione.
A fronte di molte corrispondenze tra la serie e la realtà, è una finzione che ci sia lotta tra le due (lotta che è parte fondamentale della sceneggiatura): nella realtà una settimana dopo il loro primo incontro, le due stanno già lavorando insieme (“Più cervelli funzionano meglio di uno” pare abbia detto Edna Hendershot). A questo proposito i due giornalisti autori dell’articolo che ha ispirato la serie fanno notare che la percentuale di presenza femminile all’interno delle forze di polizia è ancora ridotta e che le due fanno subito squadra anche “in nome di una sorellanza all’interno del corpo di polizia”.
Le due detectives capiscono ben presto di avere a che fare con uno stupratore seriale e gli sceneggiatori mantengono fedelmente il percorso dell’indagine utilizzando esattamente gli stessi elementi della realtà: un pick up Mazda bianco identico a quello reale, la macchina fotografica rosa, le mutandine delle vittime nascoste in un amplificatore, i guanti neri, le scarpe da ginnastica dello stesso modello, lo zaino molle arrivando ad ambientare la conclusione dell’indagine in una tipica casetta americana ricostruita con estrema precisione.
Un dettaglio: l’autore delle fotografie che accompagnano l’articolo si chiama Benjamin Rasmussen. Il nome della poliziotta Grace Rasmussen avrà o meno a che fare con lui?
Una serie di decisioni tutte azzeccate
Come far sì che una vicenda scritta già in origine in modo eccellente diventi una serie altrettanto efficace?
Immaginando di essere nella writers room insieme agli sceneggiatori (una bella squadra: Michael Chabon, Aylet Waldman, Michael Dinner, Jennifer Schuur, Becky Mode capitanati dalla regista Susannah Grant che scrive quattro puntate su otto), ci si accorge subito che hanno preso fin dal primo giorno decisioni fondanti che si sono rivelate vincenti.
Due donne detectives: un padre e una madre
L’intuizione forte è aver mantenuto la coppia di donne detectives come conduttrici dell’azione e delle indagini. Il fatto che sia contrapposta a una coppia di poliziotti cattivi ne rafforza il significato. La dolce poliziotta Stacy, alta e magra, diventa nella finzione la morbida Karen Duvall (l’attrice Merritt Wever, appunto) e, viceversa, la morbida Edna diventa la tostissima Grace Rasmussen (ossia Toni Collette).
Questa scelta intelligente rende subito chiaro l’intento di dare un carattere più marcato alla coppia: la donna dura, alta e forte compie le azioni del padre, la donna femminile, morbida, dolce e accogliente ha un corpo che risponde all’immaginario della madre.
Puntata dopo puntata, la relazione tra le due donne assume una dinamica di coppia genitoriale con i suoi conflitti e riconciliazioni senza farci mancare lo smascheramento finale, come tanto spesso accade nelle coppie: la dolce e materna Karen in realtà è una ossessiva maniaca del controllo, la dura e brusca Grace è idealista, sensibile, generosa. La coppia di protagoniste diventa, così, potente, interessante, dinamica: non solo devono risolvere un’indagine ma devono farlo insieme.
Due indagini in due luoghi differenti e in due tempi lontani
Un’altra intuizione di notevole originalità, quella che condiziona l’intera serie dalle fondamenta e che scardina gli schemi usuali di questo genere, è l’aver duplicato le linee dell’indagine.
Le due detectives devono trovare un criminale e salvare Marie che però è su un’altra linea di racconto: in altre parole indagano senza averne coscienza su un delitto e su una vittima di cui non conoscono l’esistenza.
Noi spettatori, al contrario, questa vittima la conosciamo benissimo perché a lei è dedicata l’intera prima puntata: l’eroina della prima linea d’indagine, la giovanissima Marie, è seguita addirittura in un altrove anche temporale da due poliziotti maschi che le vanno contro, che non le credono e la costringono a ritrattare lo stupro subito.
L’aspettativa di tutta la serie è che le due detectives (che operano nel 2011) entrino in contatto con questo altrove (la linea di Marie, che è accaduta nel 2008) e, mentre aspettiamo, vediamo svilupparsi, come se accadesse oggi, la progressiva caduta di Marie che si alimenta con la sua straordinaria negatività, caratteristica fatale che ne fa un personaggio perduto, una ragazza che non ce la fa a vivere.
Marie è l’antagonista, è la peggior avversaria di se stessa, è autolesionista, è fragile, non può farcela da sola. Le vengono proposte continue vie d’uscita, se solo le riuscisse a vedere.
Abbiamo tutto il tempo per affezionarci a lei, vittima non solo dello stupratore ma della polizia che la tortura psicologicamente con sadismo (e noi soffriamo con lei). Noi proviamo empatia e Il suo viaggio diventa il nostro viaggio: accusata ingiustamente e doppiamente vittima, fa di tutto per complicarsi la vita, prende tutte le vie sbagliate affondando sempre di più nella disperazione.
L’aiuto che sta per arrivare a Marie parte da lontano ma le due investigatrici hanno talmente lavoro da fare, altre vittime da considerare, che quando capitano sul nome di Marie viene loro detto che no, lei non è una vittima, lei si è inventata tutto. Marie può restare dimenticata. L’obiettivo è di nuovo mancato.
Questo è un racconto di salvataggio ma lo spettatore deve attendere con il fiato sospeso fino alla fine, tra la settima e l’ottava puntata.
Duplice plot, doppio Tema
Come le due linee narrative si muovono in modo autonomo, allo stesso modo ci sono due Temi compresenti che diventano chiari uno alla volta. Se andare fino in fondo (la perseveranza nel far bene il proprio mestiere) pare essere il tema conduttore della storia (un true crime descritto fedelmente), quando la serie è finita ci si accorge che per tutto il tempo si è anche detto che alla fine la Giustizia vince: esiste una cattiva giustizia come esiste il Male, ma esiste La Giustizia perché “al mondo esistono anche le persone buone”, conclude Marie alla fine della serie.
Le eroine salvatrici sono le portatrici del doppio Tema, due facce della stessa medaglia: la Giustizia vince (Grace) solo se si va fino in fondo, se si persevera, se si lotta (Karen).
Marie non va fino in fondo perché non ce la fa: va contro il tema. I due poliziotti maschi si fermano alle apparenze e non vanno fino in fondo. Le madri affidatarie non vanno fino in fondo per paura del giudizio degli altri. Tutto nella vicenda di Marie si ferma. Le due detectives, invece, nonostante tutto, vanno fino in fondo: la loro è la risposta vera al tema.
Ed è Karen, la perseveranza, che, ancora in Centrale a notte tardi, tormentata da continui vicoli ciechi, vince a carte contro Grace che la esorta ad andare a casa. Il tema di andare fino in fondo diventa ancora più evidente.
Ma questa è anche una storia di donne contro uomini: uomini che stuprano e uomini che non capiscono, donne che vengono stuprate e donne che ricostruiscono.
Entrambe le poliziotte, però, hanno un uomo: un rapporto sano con l’altro sesso è possibile. Il marito di Karen, poliziotto, appoggia la moglie incondizionatamente poiché quello è anche il suo lavoro e sa come ci si sente. Il marito di Grace, poliziotto anch’egli (personaggio con più spazio, rappresentante di una polizia etica e non corrotta), in realtà fa il contrario di quello che fanno i colleghi che non infrangono la legge ma sono pedissequi (e distruggono la vita di Marie e di altre donne): egli interpreta la realtà con un’etica di sostanza e non di forma, fa parte, come dice lui stesso, di una “zona grigia della legge”. Tra Grace e il marito Steve c’è una profonda complicità nonostante i conflitti coniugali.
Due coppie ordinarie di persone che fanno meglio che possono il proprio lavoro e proprio per questo ci appaiono come fuori dall’ordinario: Grace (Toni Collette) per risolvere il caso è pronta a tutto, persino prendersi gli sputi in faccia. La falsa pista, James Massey (un personaggio nuovo, introdotto nella finzione dagli sceneggiatori, il personaggio che rispecchia la parte cattiva e corrotta della polizia), reagisce alle accuse sputandole in faccia e minacciandola. Lei ha il coraggio di essere umiliata ma regge e va avanti.
Un’altra scelta interessante è che ai personaggi secondari è stata dedicata una grandissima attenzione sia in sede di sceneggiatura sia nella scelta degli attori rispettando la multiculturalità di una società ideale.
Questa multiculturalità è ben visibile in primo luogo fra il personale della polizia (sono messi molto ben in evidenza e ripetuti i cognomi degli agenti e dei detectives che, come le figure fisiche ne testimoniano differenti provenienze: lavorano insieme personaggi asiatici, africani, indiani, messicani, irlandesi, tedeschi, spagnoli). L’istruttore di guida gentile è asiatico, il severo capo del personale di Marie è donna ed è nera, il collega molestatore è giovane e bianco, il commesso del supermercato è indiano, la brava psicoterapista è bianca e bionda, così come bianco e americano è il legale difensore, ma il Procuratore ha un cognome latino.
Ogni personaggio, anche il più breve, diventa simbolo di un discorso più ampio: come vogliamo che sia composta la società?
Una notazione sulla durata delle scene: il montaggio è prevalentemente veloce e incalzante ma alla relazione tra le due investigatrici protagoniste è dedicato un ritmo più riflessivo: la lentezza si addice solo a Grace e Karen.
L’ultimo episodio prende, infine, più respiro, l’incontro fra i due plot dà la conclusione alla vicenda e abbiamo bisogno di tempo per capire le allusioni a un tema più ampio: Karen enuncia la volontà di guardare anche alle altre vittime, quelle non ancora salvate. Il tema riguarda tutte le donne violate.
C’è attenzione anche sui luoghi del racconto, che sono portatori di significato.
Se gli interni sono in maggioranza quelli della Centrale di polizia dove lavorano le due protagoniste, una parte delle scene è ambientata negli appartamenti delle vittime, sulla scena delle aggressioni oppure nell’ambiente familiare delle due protagoniste: sono tutte persone come noi, ordinarie, normali, che vivono in appartamenti normali.
Se gli esterni sono sempre luoghi di passaggio e comunicazione, le cui scene velocissime sono montate con precisione matematica (e anche l’interno delle auto degli investigatori protagonisti è il movimento-ponte che ci porta alla risoluzione di un problema), l’azione cruciale accade sempre all’interno, in uno spazio chiuso che a volte diventa prigione mentale grazie alla luce o alla sua mancanza.L’articolo giornalistico che è l’origine di questa serie è stato seguito accuratamente: c’è un lieto fine, il caso è risolto, il pericoloso colpevole è chiuso dove non può fare altro male. Tuttavia questa sceneggiatura così ben scritta racconta anche un’ulteriore storia parallela e pone delle domande racchiuse nell’ultimo confronto fra Grace e Karen: il male non si può controllare. Un aguzzino viene scoperto e preso ma chissà quanti sono ancora indisturbati in libertà. Eppure, c’è speranza.
“Intanto questo è andato”, dice Grace.
Partendo dal mondo reale, i cui protagonisti reali sono stati interpellati prima della fase di scrittura, le otto puntate da quasi un’ora ciascuna sembrano essere state girate e montate come un lungo film unico.
Unbelievable non è solo una storia scritta in modo eccellente, una sceneggiatura impeccabile e una altrettanto impeccabile regia, ma è un lungo film true crime il cui messaggio oltrepassa i limiti della finzione.