The Crown
La favola che muore
La prima scena di The Crown è un cinquantenne in divisa, che non sappiamo ancora essere un Re, che vomita sangue in un water. Peter Morgan inizia la favola di una principessa, boicottandola. Non credeteci, avverte, finirà male, finirà qui in un qualsiasi bagno a sputare sangue perché non esistono re e regine, esistono solo uomini e donne che muoiono.
Uomini senza fede, come Filippo, che imboccano la scappatoia riservata fino a poco tempo prima alle donne, per sfuggire al proprio destino: un matrimonio d’interesse che da una parte salva e dall’altra umilia, perché costringe in eterno a rinunciare a se stessi.
In mezzo, come un grazioso criceto che manda avanti la sua ruota, passando e ripassando davanti a una porta chiusa che la esclude, una donna. Una giovane donna, con un abito accollato e color spento da monachella che non pensa a sua volta di meritare il più bello della classe, il fusto che piace a tutti perché appunto pensa solo a sé, o meglio alla sfiga di aver sbagliato quel tiro che tutti i procuratori di atleti aspettavano per portarlo in serie A. È rimasto nella B, la monarchia di cui era erede è stata abbattuta e allora non vale più la pena di combattere: si esce. Il Re morente gli ha stretto la mano, lo ha portato dalla sua parte, nel marcio, nella malattia, sulla strada che cammina verso la fine. Un po’ di tempo risparmiato prima di morire. Non è più divertente neanche la prospettiva di una notte di bagordi per l’addio al celibato: qualsiasi atto è intriso di disperazione. Perché dunque dovremmo vedere questa serie? Perché su questo buio, su questo materiale umano così scarso e deludente, da resa finale, arriva la luce della sigla, l’oro splendente, la Corona del titolo. Arriva come la luce soffocata di una grotta di Natale che prende a brillare fino a diventare una stella cometa, l’ala di un angelo che si distende nel volo e poi metallo compatto, inscalfibile, duro, lavorato, perforato, bellissimo, potente, una croce, una grata da clausura, un’astronave… La favola, ecco. La favola, sì, ma subito dissolta, la luce è solo un’ombra su un muro. Badate, non è vera neanche quella.
Chiusa così, in pochi minuti, la porta alla speranza, all’inganno, all’infantilismo, che pure aveva acceso per trascinarci dentro al tunnel, Peter Morgan apre la sua porta: la storia che vuole raccontare lui, che si percorre con i piedi per terra e gli occhi aperti dei bambini per i quali hanno sostanza solo le cose che si afferrano, si manipolano, si toccano. Al resto, non ci crede nessuno. Il resto è la Corona che non è vera. Non a caso, alla chiusura della prima puntata, appariranno dei bambini a posare una corona finta di cartone, di panno, sulla testa del Re: una corona ridicola, che spinge le lacrime, che spinge alle lacrime. La morte è una buffona.
È difficile essere così bravi. È difficile e raro.
Della questione del potere, Peter Morgan si è occupato per molti anni. Prima di approdare alla serie Netflix, ha messo in scena più di una volta Elisabetta II sia con il film The Queen, che con la serie delle udienze col Primo Ministro nel dramma The Audience. Si è occupato più volte di Tony Blair, di monarchi assassini, di scontro di poteri, di visioni del potere diverse nello stesso mondo anglosassone. Diciamo che si è allenato parecchio. Eppure… The Crown, anche per chi conosce la sua opera, resta una straordinaria sorpresa. Gli ingredienti sono noti, ma si viaggia continuamente nell’inaspettato. Come fa? Proviamo a compiere il gesto terribile di fracassare il giocattolo, di scomporlo: paradossalmente non troviamo niente di nuovo.
C’è prima di tutto proprio la favola a cui non dovremmo credere, continuamente esibita come la sfarfallante elemosina dell’irraggiungibile. La bellezza esagerata. Castelli, abiti, spazi, vasellame, cibo, colori, fiori, gioielli, letti enormi e finestre, tante finestre. Tutto magnifico. Navi, cavalli, automobili, carrozze, spade, fucili, cani, cervi. Spettacoli, regate, corse, concerti, danze. Foreste, torrenti, brughiere, e molto, molto mare. Tutto da sogno.
Strettamente collegata alla favola non ci stupisce trovare la paccottiglia dei sentimenti da fotoromanzo: sorrisi, baci, fughe, abbracci, lacrime.
Più i fatti storici. La memoria, la familiarità, la riconoscibilità di quei fatti che ci sono noti anche se non sappiamo di saperli. Scandali, movimenti di piazza, guerre, riunioni di Governo: è come sfogliare un album di famiglia, si entra nelle fibre del racconto passeggiando sotto casa. The Crown non si presenta difficile: anche chi non si diverte con i maneggi politici, si ritrova ad attraversarli con leggerezza come il gossip dei social.
Poi arrivano i punti di vista dei personaggi e qui si fa il salto, comincia l’arte, quello che sanno fare solo i grandi: comporre. Comporre vuol dire non solo che i pezzi del puzzle sono tanti e si trovano tutti al posto giusto, non solo che non ci sono pezzi inutili che non servono, che non si incastrano, ma che i pezzi in campo hanno un sosia dentro il cervello o il cuore o l’anima (come volete chiamarlo?) dello spettatore e il loro movimento crea movimento interiore, pensiero, cultura (come volete chiamarlo?): vita.
Il re non è più il re e la Corona comincia a diventare quello che mi comanda, a cui obbedisco, da cui faccio dipendere la mia sopravvivenza. Quello per cui litigo e sbatto la porta, quello che non mi fa comodo avere in testa eppure ci devo fare i conti. Quell’io nello specchio, quello per cui scelgo. E tradisco. E abbandono. E sottometto. Per cui cedo, mi sacrifico, mi faccio derubare. L’arte non è divagazione, terapia (forza, ridici su, non ci pensare…), l’arte è coinvolgimento e armonia.
È difficile essere così bravi. È difficile e raro.
Guardiamo il tessuto del potere in The Crown.
Ci sono i reali. Ignoranti, fatui, senza aspirazioni. E cosa diamine potrebbero ancora fare, desiderare? Hanno già tutto, possono solo precipitare. Le vittime. Sono anche le nostre piccole fortune, no? Quello che abbiamo già avuto, che ci dà sicurezza e che possiamo perdere. La nostra fragilità.
Ci sono i segretari personali, veri e propri persecutori. Il super-io a guardia dei confini, le cassandre delle nostre paranoie. Il “non si può fare” che ci amministra e amministriamo: gli orari, le leggi, gli impegni, i limiti nelle relazioni personali.
Ci sono i parenti dei reali, pericolosi, ribelli, perennemente insoddisfatti, quelli che devi far sfogare e per cui sei costretto, con tanto coraggio e paura, ad uscire dal seminato, quelli che non vedi l’ora di riportare dentro casa, ma che finisci per ringraziare.
Ci sono i poteri veri, i politici. Quelli a cui fa comodo che tu sia quello che sei, resti quello che sei, ti accontenti di quello che sei perché ti devono manovrare, usare. Quelli che non sono affascinanti, a cui non hai bisogno di credere, perché semplicemente sono più forti di te e hanno le leve in mano. Quelli che non stanno nella favola, quelli che alzano la voce, vogliono di più, esistere, avere un ruolo, governare. I Titani arroganti che sfidano le leggi del mondo, che vogliono il ruolo degli dei. Quelli che passano, cadono, muoiono e rappresentano il pericolo reale, quelli contro i quali proprio la Corona è stata inventata. La Corona eterna e dunque incompetente che ha solo un’arma, l’arma del popolo, dei semplici, dei mortali veri: la vista corta, le scarpe adatte per la realtà, il giorno dopo giorno. Fate attenzione all’arrivista Anthony Eden e a quando il re Giorgio VI e la regina Elisabetta II lo costringono in momenti diversi a cambiare calzature: e perché, e cosa hanno da dirgli.
Non chiediamoci perché seguiamo The Crown che ci distrugge ogni speranza. La vittoria di quei reali indegni, se riescono a rimettere al suo posto Eden, è la nostra: il mondo cammina se esiste una Corona, un punto di riferimento vuoto che all’occasione può essere riempito e all’occasione dopo modificato, con l’obbligo però di essere visibile a tutti, condivisibile con tutti. Quella luce da grotta di Natale, che ci dà ali da angelo e solidità di persone e poi, mannaggia, è presto ombra, ci serve come il pane. Anche se è un limite, anche se è a tempo e spesso è ingiusta. Ma c’è un’alternativa? Qualcosa che potremmo fare? Magari aspettare un’altra stagione.
Giovanna Koch
The Crown è su Netflix.