L’odissea dell’animo umano
Un corto, poi un film, oggi un romanzo, domani forse una serie: Stefano Soli ci racconta del suo progetto Giorno 122
Con il romanzo “Giorno 122”, il nostro socio, regista e sceneggiatore, Stefano Soli racconta un apocalittico futuro, dove l’uomo per forza di cose, ritorna ad essere la belva delle origini
Carissimo Stefano, il tuo libro è un apologo su quello che è il mondo del domani, ma ha allo stesso tempo echi incredibili con il presente attuale. Ci avevi pensato?
Una premessa è doverosa: “Giorno 122” è un progetto che nasce insieme a Fulvio Ottaviano nel lontano 2004, con la realizzazione di un cortometraggio presentato a Venezia nel 2005, seguito poi dal lungometraggio “MIA”, portato a compimento nel 2012 e mai distribuito, e solo recentemente da me sviluppato in forma di romanzo e di sito (www.giorno122.it). Per chi aveva voglia di scrutare l’orizzonte, già all’alba del nuovo millennio apparivano evidenti le avvisaglie di un disastro annunciato. Il tramonto definitivo di una falsa idea di benessere, la crisi di valori, l’imbarbarimento morale, culturale e politico, il degrado ambientale.
Data la premessa distopica e metaforica (una catastrofe planetaria azzera l’ordine sociale) le vicende dei nostri sopravvissuti sono sempre state trattate con il massimo realismo, quasi con occhio documentaristico. Il film che ne scaturì, conteneva una prospettiva da molti ritenuta al tempo troppo hobbesiana e pessimistica. Ricordo che una proiezione nella vecchia sede SACT di via Montello, organizzata insieme ad ANAC, diede vita a una discussione molto accesa sulla visione dell’essere umano espressa dal film e ritenuta da alcuni inaccettabile. E’ un fatto che purtroppo oggi il film risulta a tutti molto più comprensibile.
A livello testuale, egoismo, brutalità e interessi personali hanno portato il pianeta al collasso, e l’isolamento dei protagonisti è la causa o l’effetto di tutto questo?
E’ indubbio che dall’avvento della civiltà industriale, l’attività umana incide in modo sempre più invasivo sul pianeta. Seguendo un concetto distorto di proprietà, agiamo come se la terra e gli animali fossero un dominio di cui disporre a piacimento, ci comportiamo con miopia e presunzione, quando invece è evidente che siamo solo di passaggio, al massimo dei pessimi amministratori. In questo anche la religione che avalla il predominio ontologico dell’uomo sul resto degli esseri viventi ha la sua parte di responsabilità. I nostri protagonisti sono personaggi normali calati in una situazione straordinaria, alle prese con la fame, l’insicurezza, la paura. La loro trasformazione è parallela allo sgretolarsi delle certezze che avevano sostenuto le loro esistenze fino all’avvento della catastrofe. La soglia morale si abbassa, la loro intima natura viene messa a nudo. E l’uomo è costretto a imparare da capo a relazionarsi coi suoi simili e con ciò che lo circonda.
“Giorno 122” abbraccia l’aspetto della crossmedialità nel senso più ampio del termine. Hai deciso fin da subito di considerarlo in un’ottica più ampia, o è stato dettato da una particolare necessità?
Il corto originario nasce da un impulso di pancia, ma ragionato. Procedevamo su due binari distinti, inseguivamo serialità e film. Gli eventi ci hanno spinto verso quest’ultimo. L’idea di sviluppare la storia in forma di romanzo nasce molti anni dopo dalla frustrazione per l’insuccesso di questo esperimento. Credevamo ingenuamente che realizzare in proprio un prodotto forte e innovativo fosse sufficiente a imporlo all’attenzione, ma appena i distributori realizzavano che non avevamo un budget per il lancio, il loro interesse si squagliava come neve al sole. La verità è che produrre e vendere sono mestieri molto differenti. Questo percorso, contrario a quello usuale (la sceneggiatura come riduzione del romanzo) fa sì che il libro sia un’espansione del film. Avvalendomi della trama preesistente ho potuto ampliare l’argomento godendo della maggiore libertà creativa che la scrittura narrativa offre grazie all’uso del linguaggio, alla possibilità di frugare nelle menti dei personaggi, rivelandone i più intimi pensieri e superando le restrizioni di natura economica legate al budget produttivo, con cui ogni sceneggiatore deve costantemente fare i conti.
Nel tuo sito personale le varie clip multimediali del progetto, rimandano ad un potenziale serbatoio narrativo adatto alla serialità televisiva, soprattutto quella distopica. Ci vedi un adattamento anche in questo senso?
Come ho già detto, da subito io e Fulvio abbiamo perseguito due obiettivi paralleli. A seconda dei produttori che incontravamo, portavamo soggetti differenti, orientati al cinema o alla serialità. Il corto aveva la funzione di mostrare su schermo le atmosfere e le dinamiche relazionali fra i nostri sopravvissuti. Il romanzo e il sito a esso collegato hanno il merito di aver riacceso l’attenzione, il film rimasto sepolto per quasi un decennio, uscirà presto online e non nascondo che il prossimo obiettivo, oggi che la serialità televisiva è molto più sviluppata di quella dei primi anni 2000, è chiudere il cerchio con la produzione di una serie.
Nella tua carriera ti sei occupato anche del documentario. E’ cosi diverso scrivere una sceneggiatura per un testo di fiction? O nel reale ci sono dei punti in comune?
Il documentario è una forma espressiva peculiare, particolarissima. In essa la struttura deve essere elastica, propedeutica a cogliere l’essenza di ciò che si desidera rappresentare. E’ necessario essere curiosi, aperti, pronti a farsi sorprendere dall’argomento trattato. E’ l’approccio con il tema a fare la differenza, la disponibilità a mettere in discussione le proprie convinzioni originarie. Nella sceneggiatura invece nulla deve essere lasciato al caso, il compito dello sceneggiatore è creare una struttura ferrea, una griglia che possa essere stravolta il meno possibile in fase di riprese.
Perché hai preferito la strada dell’autopubblicazione rispetto alla via dell’editoria tradizionale?
La scelta di pubblicarmi da solo è stata dettata dal desiderio di essere subito sul mercato, non avevo voglia di aspettare i tempi di lettura degli editor. C’è stato bisogno di molto lavoro, sostituendomi in tutto e per tutto alla casa editrice, ho dovuto sviluppare nuove competenze. Ma questa è una possibilità che il romanzo offre in quanto prodotto definito, a differenza della sceneggiatura, stadio intermedio di un prodotto. Io ho scelto di sfruttarla.
Writers Guild Italia si è occupata da diverso tempo di alcune campagne come “No Script, No Film”, “No Script, No Series” e via dicendo, proprio per rendere centrale la figura dello sceneggiatore, che spesso e volentieri viene relegata ad un angolo, per non dire ignorata completamente durante la presentazione delle pellicole, o proprio nei grandi eventi tematici. Condividi questa battaglia?
Chi già mi conosce, sa che ho cominciato la mia esperienza professionale come agente cinematografico. Un ruolo che mi ha permesso di leggere una quantità enorme di sceneggiature, la gran parte delle quali non sono state realizzate. Qualcuna è approdata al grande schermo con alterni risultati e ribadisco un’ovvietà. Da una brutta sceneggiatura viene senz’altro fuori un brutto film, da una bella sceneggiatura può darsi che se ne produca uno riuscito. Il ruolo dello scrittore è il fulcro del processo creativo. A rischio di essere impopolare, voglio dire che per quanto riguarda la situazione attuale, io credo che invece di prendercela con la realtà che ci circonda, dovremmo guardare dentro noi stessi. Siamo noi sceneggiatori in primis, come singoli e come categoria a non valutare adeguatamente la nostra funzione, a sminuire, accettando ogni sorta di compromesso, la centralità del nostro ruolo.