L’avventura dei nostri inviati
La 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha inaugurato una sezione speciale, dedicata ai prodotti realizzati con le diverse tecniche della Virtual Reality: un’iniziativa che ha sorpreso favorevolmente tutti.
La sezione speciale è stata ospitata in un luogo speciale, l’isola del Lazzaretto Vecchio, raggiungibile con un breve viaggio in battello: una piccola avventura, un viaggio anche simbolico in quel presente che forse sarà davvero il futuro.
Gli inviati WGI Orazio Ciancone e Lorenzo Righi hanno vissuto per noi questa esperienza: ecco le loro impressioni con cui vogliamo salutare il 2017 e prepararci a vivere il 2018.
“Più che l’istantanea del presente, o la foto-ricordo della stagione del cinema che stiamo vivendo, i film che proponiamo sono in certo qual modo la percezione del futuro, l’indicazione di una o (meglio) più vie che si aprono sul domani, testimoniano una rincorsa in avanti, scrutano l’orizzonte per avvistare un ‘dopo’.”
Lorenzo: Queste le parole conclusive del discorso di inaugurazione di Alberto Barbera, al suo nono mandato come direttore della Mostra del Cinema di Venezia.
E non possono che far pensare all’introduzione, in questa passata 74esima edizione, della nuova sezione dedicata alla realtà virtuale: Venice VR (Virtual Reality), che ha contato ben 22 titoli in mostra nell’isolotto del Lazzaretto Vecchio, ma anche in gara in un concorso a sé stante, capitanato dal celebre John Landis, che ha visto incoronare i titoli “Arden’s Wake Expanded” (di Eugene Yk Chung), “La Camera Insabbiata” (di Laurie Anderson e Hsin-Chien Huang) e “Bloodless” (di Gina Kim). Il tutto strutturato in tre sezioni: il VR Theater, un vero e proprio “cinema” con 55 sedili girevoli attrezzati di visore, in cui lo spettatore può ruotare su se stesso mentre visiona il proprio filmato; le Stand-up, ovvero delle postazioni spesso interattive in cui lo spettatore indossa il visore in piedi e ha libertà di movimento sul posto; le Installation, che contano diversi scenari fisici, pre-costruiti, all’interno dei quali lo spettatore si muove e con cui interagisce anche grazie all’ausilio di alcuni attori, il tutto naturalmente attraverso gli “occhi” della realtà virtuale. Nella giornata dedicata alla stampa, abbiamo visionato e provato alcuni fra i 22 titoli a disposizione, dunque vi andremo a raccontare singolarmente la nostra esperienza.
Orazio: Non avevo mai provato la realtà virtuale. Non avevo neanche la piena coscienza di cosa fosse. Ma da quando mi sono seduto nel VR Theater nell’isolotto del Lazzaretto Vecchio, da quando ho acceso e indossato il visore della realtà virtuale e posizionato le cuffie sulle mie orecchie, tutto è cambiato. La realtà è cambiata. E quindi posso riportare qui tutta la mia folle e avventurosa sorpresa.
Lorenzo: Neanche io avevo mai avuto a che fare, prima, con la realtà virtuale e l’avevo sempre immaginata come un’esperienza appena più immersiva del cinema tridimensionale, con uno schermo a due centimetri dagli occhi. Mi sbagliavo.
Orazio: Sentirsi diversi. Sentire l’innovazione in atto. Ecco cosa si prova ad essere immersi in una nuova modalità di fruizione dell’audiovisivo moderno. La VR è immersività. È totale immersività. Sei lì in mezzo all’azione, hai una visione a 360° della realtà della narrazione a cui stai partecipando, sei tu il personaggio e tutto ruota intorno a te.
È proprio una nuova concezione di narrazione. Ma il bello è che la tecnologia VR è molto varia. Con la straordinaria varietà di visori in circolazione, il “commercio” della realtà virtuale è in netto aumento. HTC Vive, Oculus Rift, Playstation VR, Razer OSVR, Starr VR. Solo per citarne alcuni.
Lorenzo: Premesso che non sono un grande fan del 3D, ho apprezzato la realtà virtuale in ogni suo singolo aspetto e, se devo trovarle dei difetti, citerei il fatto che l’ho trovata stancante per gli occhi dopo un uso estremamente prolungato e la tecnologia naturalmente ancora acerba che ci permette di fruirne. Spenderei due parole soprattutto su quest’ultimo punto: per quanto la tecnologia VR abbia fatto enormi passi avanti negli ultimi anni (basti pensare al fatto che adesso è facilmente acquistabile da chiunque, anche a poco prezzo), i suoi limiti sono evidenti fin dai primi momenti di utilizzo. L’immagine è sfocata, frastagliata, spesso piena di glitch dovuti alla complessa tecnica di registrazione e ricostruzione di ambienti a 360°, si vedono chiaramente i pixel dello schermo a spezzettare la visione, e si ha la sensazione di essere in un videogioco, piuttosto che nel mondo reale: quello che abbiamo davanti (o meglio, intorno) ha un aspetto evidentemente posticcio. Ma non per questo finto. Sì, perché quello che ci troviamo davanti, dietro, di fianco, che sia un oggetto da videogame, che sia un glitch o una figura animata, comunque ci appare reale. E non agli occhi, bensì al nostro stesso istinto.
Orazio: La concezione di narrazione cambia in base a ciò che si vuole raccontare. Ci sono molti tipi di VR. Le virtual reality ancora molto connesse con l’aspetto video-ludico che puntano ad aumentare il senso di immersione nel gioco portando il giocatore in ambientazioni mai pensate prima. Ci sono le VR in cui il confine con l’arte e le installazioni artistiche è molto labile, in cui il visore permette al pubblico di essere tutt’uno con l’opera d’arte. Poi ci sono le VR più strettamente cinematografiche e seriali che puntano a raccontare una storia con dei personaggi ma con l’uso della narrazione che sfrutta a pieno la tecnologia immersiva della virtual reality. Il personaggio vede tutto ed è onnisciente.
Lorenzo: Ed è questa la novità più importante e sorprendente di questa tecnologia. Non più semplice visione, ma esperienza del tutto immersiva, reale. Se nel futuro, come ci immaginiamo, lo sviluppo tecnologico farà fronte alle carenze tecniche della realtà virtuale, si apriranno possibilità vastissime per questo tipo di attività. Si pensi alla semplice fruizione di un prodotto cinematografico o televisivo. Ne abbiamo avuto un assaggio con il VR Theater, in cui altro non sei che un semplice spettatore passivo di un prodotto che, però, ti circonda. Senti l’azione che si svolge dietro e davanti a te, magari contemporaneamente, e ti costringi a voltarti e guardare quello che vuoi, o a crearti la tua personalissima inquadratura, perché la vera macchina da presa sono i tuoi stessi occhi. (vedi sotto l’esperienza di Bloodless). Infine la sezione delle Installation, che invece ci immaginiamo più difficilmente applicabile a una distribuzione e a una fruizione di massa: sì perché, come preannunciato, si parla di luoghi fisici, a volte pure molto grandi, adibiti all’esperienza virtuale di modo da renderla tangibile fino in fondo, perfino con l’ausilio di attori che danno corpo e voce ai personaggi che vedi soltanto attraverso un visore. (vedi sotto l’esperienza di Draw me close).
Orazio: Il pregio della VR quindi è la sua straordinaria varietà. Può essere applicata a tutte le forme dell’audiovisivo moderno. È un punto di vista completamente nuovo sul mondo e sul fare narrazione, che ci auguriamo possa essere ancora sviluppato appieno. Questa nuova tecnologia ci porta a porci delle domande sicuramente. Ma anche delle risposte. Sicuramente per un approccio giusto alla VR bisogna pensare prima a cosa sarebbe bello veder raccontato. A cosa vorrei assistere ad oggi? Ad oggi che siamo (molto probabilmente come mai nella storia dell’uomo) bombardati dall’audiovisivo. E in seguito porci delle domande su come la tecnologia della virtual reality possa dare dei contributi essenziali nel realizzare quelle idee che ci stanno a cui. In base a questo discorso ora vi spiego, o cercherò di farlo (sicuramente in breve) “come si raccontano le storie quelle belle e vere” che ci piacciono tanto. Questa nuova esperienza della virtual reality a Venezia ’74 mi ha veramente sorpreso, rallegrato ed entusiasmato. Mi auguro in futuro di poter assistere ad ulteriori competizioni in materia VR assieme alle sezioni usuali delle manifestazioni cinematografiche italiane e sono orgoglioso che la Mostra del Cinema di Venezia sia stata all’avanguardia per questo aspetto. Quindi mai come oggi si può usare l’espressione “occhio al futuro”, magari entrambi. Serviranno di sicuro due bulbi oculari per le realtà virtuali in arrivo!
Lorenzo: Grazie a Venezia 2017 per aver lanciato uno sguardo verso il futuro, senza rimanere ancorata al passato. Personalmente sono curioso di vedere quello che verrà.
Orazio: Come fare per raccontare cosa sia questo nuovo mondo? Io penso si possa solo descrivendo attraverso quei mondi che sono stati creati appositamente per questa tecnologia. Molte storie. Molti mondi. Un solo visore per catapultarci tutti. Ecco cosa abbiamo vissuto.
“Greenland Melting” (2017) di Nonny de la Peňa, prodotto da Frontline, Emblematic Group, NOVA
Lorenzo: Fra le postazioni Stand-up ho avuto modo di provare questo documentario (vedi intervista per approfondimento), letteralmente immersivo che ti catapulta fra i ghiacciai della Groenlandia per mostrartene il pericoloso e graduale scioglimento; un modo per sensibilizzare lo spettatore nei confronti di una problematica, facendogliela vivere con i propri occhi. E di vivere si parla davvero: ero su un aereo, mi voltavo e guardavo giù in basso, fuori dal finestrino, oppure mi giravo intorno fra i sedili e i comandi di bordo. Tutto quanto sembrava tanto reale da poterlo toccare. Vedevo il sedile, di fronte a me, e la mia reazione istintiva era quella di sedermi, dal momento in cui ero in piedi, a fronte di una giornata stancante. E non lo facevo soltanto perché alla reazione istintiva ne corrispondeva subito una contraria a dirmi: “non è reale. Non farlo”. Ma l’istinto alla base rimane, ed è frutto di quella realtà di cui stavo parlando: il mondo virtuale potrà anche avere un aspetto posticcio, ma la mente lo percepisce come vero e tangibile.
“Gomorra: We Own The Streets” (2017) di Enrico Rosati, prodotto da THINK CATTLEYA
Orazio: Una produzione Sky realizzata da Cattleya. Una mini serie originale che lega la seconda e la terza stagione di Gomorra. Stessi personaggi, stessi luoghi, stesse atmosfere. Ma un punto di vista realmente innovativo sulle vicende narrative del brand. (vedi intervista per approfondimento) Gomorra è azione. Gomorra è stare in mezzo a Scampia con i proiettili che ti sfrecciano accanto e che ti fanno fischiare le orecchie. Ecco cosa l’esperienza VR di Gomorra ha avuto il coraggio di fare. Di rendere tutte quelle atmosfere e storie della serie di successo di Sky utili, funzionali e con possibilità di essere riprodotte in un universo VR. Possiamo seguire, in piccoli episodi da 10 minuti ciascuno, le avventure dei personaggi a noi cari.
Ciro, Genny, Malamore, i ragazzi del Vicolo, sono ancora in guerra fra loro intenti ad accaparrarsi una piazza sullo spaccio sicuro dopo gli eventi della seconda stagione della serie ufficiale. Le scene d’azione sono rese al meglio, in puro stile Gomorra. La resa audio-visuale è ottima, data anche dall’uso di macchine da presa e GoPro all’avanguardia. Così Gomorra: We Own The Streets pone un passo in avanti rispetto a dove la serialità sta andando e dove può arrivare, essendo comunque questo un esperimento e punta all’innovazione.
“Bloodless” (2017) di Gina Kim, prodotto da Crayon Film
Lorenzo: Questo film di 12’ ha vinto la sezione VR del Festival come miglior storia VR. Siamo al confine fra la Corea del Nord e la Corea del Sud, in una terra di nessuno dove le basi americane la fanno da padrone anche sulla popolazione locale, ormai costretta al loro servizio soprattutto da lato femminile, in cui la prostituzione è alle stelle. Questa è soltanto la premessa del corto, spiegata in uno shot iniziale in cui non si fa che leggere il preambolo: tutto il resto è immersività. In un lento sciogliersi della narrazione, se di questo si può parlare, ci guardiamo intorno e ci spostiamo su vari punti fissi delle strade della città, a osservarne da soli la desolazione e il degrado. Finché non sentiamo sopraggiungere un chiaro rumore di tacchi sull’asfalto, e ci costringiamo a voltarci in direzione di quel rumore (perché il suono ha una direzione).
Ma non troviamo niente. Cambiamo postazione. E sentiamo il rumore ancora. Stavolta la vediamo chiaramente: una donna dagli abiti succinti cammina da sola per strada: è sola, e ne traspare tutta la miseria e la tristezza. Inquadratura dopo inquadratura seguiamo lei, che vaga per le strade notturne della città. Ma in realtà ha una destinazione ben precisa: e siamo noi.al cinema classico, con i suoi teatri e i suoi prodotti realizzati ad hoc. All’interno di un vicolo stretto e buio, sentiamo prima il rumore dei suoi tacchi, poi la vediamo emergere lentamente dall’ombra, e infine dirigersi verso di noi, sempre di più, sempre di più, mentre il nostro corpo percepisce questa presenza e reagisce istintivamente come se volesse tirarsi indietro, ma non si può, fino a che la donna non ci tocca e inizia ad ansimare. Quel contatto è reale, la presenza è viva, anche se in realtà siamo soli su una sedia con un visore calato sugli occhi. Pochi istanti dopo, il finale. Siamo soli in una stanza con un giaciglio e un semplice lenzuolo adagiati per terra, in mezzo allo sporco. Lentamente, vediamo emergere del sangue da sotto il lenzuolo, che si spande per tutto il pavimento. Infine in uno specchio, e solo se guardiamo attraverso il riflesso dello specchio, vediamo il cadavere della donna disteso sotto quello stesso lenzuolo. Quanto, questa stessa esperienza, avrebbe fatto effetto sulla mia emotività se non l’avessi vissuta dall’interno? Pochissimo. La realtà virtuale fa la differenza, e in questo senso possiamo immaginarla come una solida futura alternativa
“Miyubi” (2017) di Félix Lajeunesse e Paul Raphael, prodotto da Felix&Paul Studios
Orazio: La realtà virtuale ti proietta nel corpo e nella mente di un robot giocattolo giapponese regalato ad un ragazzino americano nel giorno del suo compleanno agli inizi del 1982. Della durata di 40 minuti è il film di realtà virtuale di genere comedy più lungo mai realizzato. Miyubi è la forma di VR più cinematografica. Miyubi è un omaggio, è citazione. È il cinema. Miyubi racconta una storia, una storia semplice. E noi siamo attraverso i visori VR al centro della narrazione. Assistiamo ad una storia che si dipana nell’arco di dieci anni. È una storia dolce e tenera di formazione. Racconta l’amicizia di un piccolo robot giapponese col suo padroncino umano e la sua famiglia dall’infanzia fino alla fine dell’adolescenza che segnerà l’atto di passaggio sia per l’uno che per l’altro.
Il film unisce la commedia con un po’ di dramma e ci spinge all’immedesimazione con i personaggi. Del curioso robot tuttofare (noi siamo i suoi occhi) e del piccolo Alex che assiste di riflesso alle sue mirabolanti avventure e marachelle.
“Draw me close” (2017) di Jordan Tannahill, prodotto da National Film Board of Canada, National Theatre’s Immersive Storytelling Studio (UK) in collaborazione con All Seeing Eye,
Lorenzo: E’ forse il progetto di realtà virtuale più valido che ho avuto modo di provare a questa Venezia 2017. Si entra uno alla volta. Un assistente ti fa indossare un visore spento, che dunque non ti permette di vedere alcunché. Per questo motivo, l’assistente è costretto a scortarti lentamente dentro il luogo di esecuzione dell’esperienza, una stanza che non vedrai mai; quantomeno attraverso i tuoi veri occhi.
Il visore si accende, e ti ritrovi all’interno di uno spazio totalmente bianco, senza limiti né dettagli. Come fosse un foglio di carta, lentamente su questo spazio bianco si disegnano delle figure estremamente stilizzate, come degli schizzi a matita.
Più precisamente un letto poco distante da te, e una donna ansimante distesa sopra. La donna ti chiama a sé, e tu senti davvero una voce.
Si tratta di un’attrice, ma in realtà non lo sai e nemmeno la vedi. Tu vedi una donna su un letto, disegnata sul nulla, e ti sembra più reale che mai.
Ti avvicini come ti chiede di fare, fino a che non ti invita a sederti sul letto. Camminando, ti sei visto avvicinare sempre di più quel letto disegnato a matita, su uno sfondo bianco indefinito. Lo hai sotto i tuoi occhi, adesso, e ti chiedono di sederti… su un disegno.
Ti siedi, e trovi davvero un letto ad accoglierti. La donna ti parla, ti prende la mano, e tu vedi la sua mano che tocca la tua, e la tocca davvero, ti dice che sta morendo, ti fa capire che sei suo figlio e in quel momento ti senti suo figlio davvero. Da lì comincia un vortice di ricordi e ti sensazioni, con la donna che rievoca la tua infanzia con lei, e il paesaggio ti si trasforma intorno, lei stessa si trasforma e diventa più giovane, ti mette in mano un pennarello e ti fa fare i disegni che facevi da piccolo, e il pennarello fa i disegni davvero. Ti abbraccia, e trovi l’abbraccio. Ritorna morente sul letto, e lei muore davvero.
Non passi un secondo a domandarti cosa sia reale e cosa non lo sia, durante un’esperienza come questa, perché sei tu con le tue mani, i tuoi e il tuo corpo a viverla: non sei uno spettatore passivo, ma uno spettatore attivo, quindi la vivi e basta, e ci credi fino in fondo. Quando esci ti senti sopraffatto, come se quegli scarsi cinque minuti fossero stati qualcosa di più, di inspiegabile. E se l’intrattenimento deve arrivare a proporre qualcosa di questo genere, ben venga la tecnologia e ben venga la realtà virtuale.
“Alteration” (2017) di Jerome Blanquet, prodotto da ARTE Experience
Orazio: Alexandro è appena uscito da una lunga e dolorosa storia d’amore. Sogna Nadia ogni notte e non si da pace. Un giorno decide di offrirsi come volontario in una ricerca sullo studio dei sogni. L’idilliaco pensiero del reset della memoria, e quindi dei sogni, dovrà fare i conti con la “realtà” della dematerializzazione del suo subconscio. E per Alexandro la paura di perdere i ricordi e i sogni a cui era da sempre affezionato deve lasciare spazio alla più concreta possibilità invece di perdersi nei propri incubi. La causa di tutto è Elsa una intelligenza artificiale scelta appositamente per la distruzione e rebuild del suo subconscio. Potrà fuggire da lei? Potrà nascondersi nei propri sogni quando questi vanno in pezzi?
Cinema, sogno, arte, visone. In questo corto vi è tutto ciò. Da sempre l’uomo si è posto il problema o la volontà di decifrare i sogni. Di poterli capire. E magari un giorno di poterli rivivere e cambiare. Cosa sono i sogni? E perché sono così importanti? In Alteration l’occhio del cinema e la tecnologia VR vogliono provare a rendere possibile questo interrogativo. E ci riescono perché riescono a dare forma a quel materiale onirico che da sempre pittori, scrittori, visionari cercano di riportare alla luce. Alteration è una sfida. Una delle sfide più belle della mostra VR a Venezia, la possibilità di riportare in vita i sogni. E noi con la VR indosso possiamo esserne fruitori.
“Mule” (2017) di Guy Shelmerdine, prodotto da Dark Corner
Orazio: Sepolto o cremato? Questa esperienza immersiva ti catapulterà attraverso gli ultimi momenti frenetici della vita di un uomo molto sfortunato. Ti sembrerà tutto molto bizzarro… Quindi cosa fai?? Forza, deciditi! Sepolto o cremato?
***SPOILER ALERT***
Come raccontare Mule senza anticipare qualcosa di Mule? Mule racconta di un uomo che muore. Un uomo di cui non sappiamo nulla che viene stroncato da un’overdose mentre si intratteneva con una prostituta. Assistiamo dal punto di vista dell’uomo a tutte le peripezie che il suo corpo morente deve subire.
Da un bizzarro tentativo da parte dei soccorritori di rianimarlo, senza successo, fino alla corsa in ospedale dove l’uomo perde la vita poco prima di riconciliarsi con i propri cari. Tutto già visto? Beh vi ricordo che noi siamo dentro l’uomo attraverso il visone VR e assistiamo a tutto. Ci ritroviamo in una “qualche” dimensione ultraterrena per alcuni secondi, per poi ridiscendere nel suo corpo vuote e spoglia della vita, fino ad essere partecipi del suo funerale, dell’addio dei cari e di un’eccessiva e horrorifica scena di cremazione. Sempre gustandocela in prima visione. Si certo la visione di Mule è forte e non è per i deboli di cuore, ne per quelle persone che storcono il naso. Ma se per un momento riuscite a mettere da parte queste emozioni, le numerose sfaccettature che questo prodotto è capace di rendere ci stupiranno davvero. Si perchè non c’è niente da fare Mule è pura immersività. Si è costretti a stare nel corpo e dalla parte di un uomo che muore e noi che siamo li con lui e lentamente ci decomponiamo e veniamo squartati (scena d’autopsia non potevi mancare!) partecipiamo attivamente col nostro cervello a tutto ciò che accade.
Questo corto ha il pregio di farci provare la vera paura, quella irrazionale, quella pura, quella del forte sentimento che ci rende uomini.