Scrittori a VeneziaWriters

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La Writers Guild Italia è nata con il preciso intento di valorizzare e di far rispettare, sotto ogni aspetto, il lavoro professionale degli sceneggiatori e quindi anche la loro immagine pubblica. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, raccoglie e diffonde la voce degli sceneggiatori italiani, per tentare di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori e le sceneggiature vengono penalizzati dalle comunicazioni dei festival e degli organi di informazione.

 
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     SCRITTORI A VENEZIA

     Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori italiani presenti con le loro opere alla
     71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (27 agosto-6 settembre)

 

Maurizio Braucci ha scritto PASOLINI, diretto da Abel Ferrara. Il film, è in concorso nella sezione Venezia 71 e verrà proiettato oggi, 4 settembre 2014, alle 19.30 nella Sala Grande e poi alle 22 al PalaBiennale.

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Pasolini

scritto da… MAURIZIO BRAUCCI

1.Pasolini: un nome impegnativo che dovrebbe già dire tutto. O forse no. Ci fai un pitch della storia in poche righe, Maurizio?

Le ultime 24 ore di vita del grande poeta e regista omosessuale Pier Paolo Pasolini nella Roma del 1975, una metropoli violenta e in profonda mutazione. Di ritorno da un viaggio a Stoccolma e Parigi, dove stava ultimando il doppiaggio in francese di Salò, Pasolini passa la giornata in compagnia dell’amata madre e poi del caro amico Ninetto Davoli. La notte, come fa da sempre, gira in auto in cerca di avventure sessuali. Nella zona della stazione incrocia un ragazzino di borgata. Pasolini stavolta non s’avvede che al suo seguito c’è un gruppetto di amici disperati e violenti…

2.Il film è stato fortemente voluto dal regista Abel Ferrara. Tu sei l’unico sceneggiatore (a parte lui, che firma anche la sceneggiatura). Ci racconti cosa vi premeva raccontare?

In generale, la poetica dei film di Abel è sempre stata fatta di chiaroscuri, di una disperata creatività. Pasolini è stato un autore molto trasgressivo, un provocatore e nemico del moralismo, un artista d’avanguardia e al contempo un nemico del Potere, nonché un omosessuale in anni in cui ciò risultava illegale o anche criminale (nessuno si è ancora scusato per questo con i gay). Ci sono tutte le premesse per un film di Ferrara. Io ho lavorato con lui per fare emergere tutto questo sia dai fatti reali di quel giorno, che anche dalla messa in scena di parti dei progetti artistici di Pasolini rimasti incompiuti a causa della morte. Personalmente ho cercato di evitare quell’icona cristologica che alcuni conferiscono a Pasolini, concentrandomi sul suo essere d’avanguardia e al contempo amante del mondo degli umili.

3. Con Ferrara, avete lavorato insieme sin dalla prima idea o vi siete incontrati successivamente? Com’è nata e come ha funzionato, la collaborazione?

L’idea di base dell’ultimo giorno di Pasolini era stata elaborata da Ferrara con un suo collaboratore, Nicola Tranquillino ma poi si era arenata per differenza di vedute. Due anni dopo, Ferrara aveva bisogno di qualcuno che oltre a scrivere un film, conoscesse il mondo pasoliniano e io, anni fa, ne avevo fatto uno studio approfondito per una pièce teatrale. I tempi erano molto serrati, il budget ristretto e le scadenze di produzione incombenti. Gli ho proposto di ricostruire i fatti di quel 1 e 2 novembre accuratamente, intervistando i parenti e gli amici di Pasolini e investigando anche la vicenda dell’omicidio ma senza pregiudizi, sentendo le persone informate sui fatti. Da ciò ne è venuta una diversa immagine di Pasolini, una conoscenza dettagliata delle sue mosse in quei giorni e la consapevolezza che intorno al suo assassinio si sono dette tante cose basate più sul “wishful thinking” che sui fatti reali. Avevamo da una parte un plot quasi obbligatorio, che erano i fatti di quel 1 novembre (Pasolini è morto verso le 00.25 del 2 novembre) e dall’altra, le opere a cui stava lavorando allora, estraendone alcune parti che potessero servire a far emergere l’idea della poetica pasoliniana che più ci interessava. Alla fine, il film lo abbiamo racchiuso in poche parole “entrare nella mente di Pasolini durante quelle sue ultime ore di vita”.

4. Un lavoro impegnativo, di studio e ricerca ma anche invenzione. Quali pensi che siano, i punti di forza della sceneggiatura? Ti sei ispirato a dei modelli?

La sceneggiatura da una parte racconta dei fatti reali, dall’altra entra nella mente di uno scrittore e mostra cosa in quegli ultimi giorni la agitava creativamente. Si tratta da una parte di una ricostruzione, con momenti di psicologia profonda per poter restituire in breve le relazioni tra i personaggi, dall’altra di un adattamento di brani di opere di Pasolini – da Petrolio, il romanzo, e da Porno-Teo-Kolossal, sceneggiatura del film che avrebbe girato dopo Salò. È stato un lavoro filologico, dall’opera e dalla vita di un grande del ‘900, ma anche storico per la ricostruzione dell’Italia degli anni ’70, e infine molto visionario per il suo procedere entro le idee e i pensieri del protagonista. E’ una sceneggiatura dai tratti tradizionali ma anche sperimentali, assolutamente non didascalica e che cerca di riassumere, nel tempo di una giornata, una vita.

Come modelli, a parte lo stesso Ferrara, io ho sempre parlato ad Abel de “La Società dello Spettacolo” la versione cinematografica del libro di Guy Debord, non per altro motivo che per essere per antonomasia il film che “filma il pensiero”.

5. Ma in un progetto “iper-intellettuale” come questo, c’è spazio per il pubblico? Ossia, hai pensato mentre scrivevi a un target cui rivolgerti?

L’idea di base è sempre stata di rivolgere il film, principalmente, al pubblico giovanile più avveduto e curioso, non solo ai letterati o ai membri dei vari club Pasolini sparsi per l’italia. Dal punto di vista dello spettatore –l’ultracitato spettatore di quando si scrive un film e ci si chiede cosa mai ne penserà lui – mai come questa volta lo abbiamo ignorato. Che libertà! Ferrara è un regista libero da certi luoghi comuni, che pure hanno un senso ma che spesso diventano ideologia.

6. Questa collaborazione con Ferrara, è proseguita anche dopo la scrittura, nella fase della messa in scena? Raccontaci com’è andata, se hai partecipato in qualche modo alle decisioni, se il tuo copione ha subito cambiamenti, per quali motivi, e se erano concordati anche con te.

Dopo la scrittura, ho sempre seguito le riprese e, così, gli aggiustamenti, le riflessioni e le nuove scoperte erano continui. Anche gli attori contribuivano a dettagliare meglio certe situazioni: con Defoe, storico collaboratore di Abel, c’è stato un confronto serrato per quanto riguarda i dialoghi, dovendo egli spesso recitare in italiano. E’ stato un film molto complesso da realizzare, una sfida enorme, almeno per me, senza respiro. Si lavorava in inglese e in italiano, per un film che è in inglese e con parti in italiano, basando tutto su fatti e personaggi italiani; ho dovuto fare sempre molta attenzione, declinare ogni cosa in ambo le lingue e poi nella loro intersezione. Alla fine ci siamo riusciti ed è stato uno di quei lavori in cui le fasi di scrittura e di riprese si compenetrano, un lavoro di squadra assoluto in cui sarebbe anche difficile definire esattamente i ruoli, perché ad esempio anche il montaggio di Fabio Nunziata ha assunto un ruolo narrativo. Per me è stata un’esperienza che mette in discussione sia i meccanismi tradizionali attraverso cui si definiscono i processi creativi, sia le barriere e le delimitazioni linguistiche di un prodotto cinematografico.

7. Alla Mostra di Venezia di quest’anno partecipi anche con un altro film, Anime nere. Una produzione totalmente italiana, mentre Pasolini è una produzione internazionale. È diverso il modo in cui italiani e stranieri trattano gli sceneggiatori?

Credo di sì, anche se la mia esperienza è piccola e poi bisogna sommare a questa l’idea con cui si viene percepiti e quindi trattati dai committenti. Io mi ritengo più uno scrittore cinematografico che uno sceneggiatore, non voglio sembrare pignolo, ma quest’ultima definizione prende a volte un’accezione troppo tecnica e io lavoro in modo più artigianale che industriale. Nei limiti del possibile, ritengo che l’amicizia con il regista e con gli altri scrittori sia fondamentale in un film: scriverlo è come fare un viaggio insieme e poi il processo creativo è un’esperienza complessa che non si può ridurre solo a quanto hai scritto materialmente, ma anche a quanto hai contribuito a “non scrivere” politicamente e umanamente inteso. Io ammiro i registi e i produttori che sanno rischiare, so bene che il cinema è un’arte di gruppo, a cui un autore dà il suo contributo, ma so anche che, se non ci sono alla base belle storie ben sviluppate, anche l’industria può fermarsi..

8. Ecco, a proposito dell’importanza delle storie nell’industria dell’audiovisivo. La WGI difende proprio chi le scrive: una categoria professionale che in Italia è molto poco tutelata e riconosciuta. Cosa ne pensi?

C’è molto da fare ancora in Italia, e quindi è necessaria una riflessione continua sui diritti e sui doveri di chi offre al pubblico delle riflessioni in fondo su se stesso, cioè sul mondo e su parti di esso. In Italia, è raro che uno scrittore cinematografico possa proporre un film, c’è un forte condizionamento del mercato e dello status quo sociale: spesso, per poterlo fare, lo scrittore diventa regista se già non lo è. Inoltre, nel cinema d’autore, capita spesso che lo scrittore e il regista si possano compenetrare molto nell’ideazione e allora, se non c’è rispetto e amicizia, questo può generare competizioni deleterie. So che nel cinema americano, l’autore ha più valore, fino al punto di controllare sul set il rispetto di quanto scritto; però, credo di più in un autore che sul set continui a modificare e accrescere quanto iniziato, e che poi seguita a cambiare ancora, fin dentro agli occhi dell’ultimo che lo guarda.

9. A parte la condizione degli scrittori, della situazione generale del nostro cinema, in questi anni, cosa ne dici? È una domanda un po’ pesante, lo so, ma ti chiedo di cavartela con tre aggettivi.

Conformista, perché non dialoga facilmente con il mondo, ma ripete e imita formule autoreferenziali. Consociativo, perché alla base tutto è per far fare di più a chi già fa tanto. Anarchico, perché i migliori film nascono da questo sentimento profondo di autonomia.

10. Brevi flash sul diritto d’autore: conosci la legislazione, in materia? Ti senti tutelato? Cosa cambieresti?

Conosco poco la legislazione, ma so che questo lavoro è una lotta, un continuo braccio di ferro. A volte mi hanno truffato, altre volte mi hanno accusato d’inadempienza: mediamente tendi ad essere l’ultima ruota del carro, in termini di diritti, ma questo non traspare. Vorrei più tutela legale, ma anche più chiarezza in termini di diritti, come lavoratore, e di doveri verso il pubblico, sull’importanza basilare e sulla difficoltà di creare delle storie, ancor più se originali, sull’apporto che puoi dare con una visione d’insieme oltre che con due linee di dialogo, sul fatto che il conflitto d’autore può anche essere contro una metodologia di scrittura, che è industriale e che serve ad essere controllati dall’industria.

11. Una curiosità su di te, che all’attivo hai film importanti come Gomorra, Reality, L’intervallo, Piccola patria: scriveresti mai una commedia? Più in generale: credi che gli sceneggiatori debbano specializzarsi in un genere e in un certo tipo di storie, o si può essere bravi a scrivere cose diverse?

Mi farebbe piacere scriverla, forse ne sarei davvero capace. Sulla specializzazione non saprei, so che in Italia esiste una tradizione di commedia, che però non riesce a rinnovarsi, e un cinema d’autore, che non riesce ad uscire dai piccoli circuiti. Eppure, sono esistite tante esperienze dove le commedie, o anche l’intrattenimento, riuscivano a dire cose importanti e viceversa. Credo però che questo riguardi la formazione: oggi, si formano dei supertecnici, bravissimi a scrivere film con il cronometro e i grafici, ma lo fanno senz’anima e spesso al servizio di un padrone, l’industria, e non di un compagno tiranno, il regista.

12. Infine, per chiudere, ci regali “la tua” scena di Pasolini – quella per te più bella, o brutta, o importante o… – con un commento?

E’ la scena del pranzo di Pasolini a casa sua all’Eur insieme ai suoi, poche ore prima di morire. Per arrivare a questa breve scena, ho prima scritto una lunghissima stesura. Quando ha visto la prima stesura, Defoe si è arrabbiato, poiché era una scena che doveva fare in italiano ha detto, “Come puoi pretendere che io impari questo a meno di un mese dalle riprese?” e io stentavo a fargli capire che avevo messo giù quella lunga sequenza, per studiare la relazione tra i personaggi, che poi l’avrei riassunta entro una durata di molto inferiore, ma che intanto volevo condividerla con lui ed Abel, per mettere a fuoco quella relazione così particolare tra madre, figlio e cugini… Alla fine, sul set, tutti hanno finalmente capito che la scena di sintesi racchiudeva quel lungo percorso fatto e senza il quale non sarebbe stata così precisa.

13. Eccola QUI Scena Braucci. Grazie mille, Maurizio, e in bocca al lupo per il tuo film!

Intervista a cura di Fabrizia Midulla