Short skin
Biennale college. Due parole sul meccanismo. Il bando viene lanciato tra maggio e giugno di ogni anno. Come si può verificare sull’ultimo bando 2014/15 vengono invitate a partecipare solo le coppie, regista e produttore, con un progetto di film a basso costo. Le coppie dei 12 progetti vincenti seguono un workshop di 10 giorni con diverse figure professionali: questo il team. Poi, si scrive la sceneggiatura e c’è una seconda selezione da cui escono 3 soli progetti. Altra settimana di workshop a dicembre, tutta sulla sceneggiatura e, finalmente vengono assegnati i soldi: 150mila euro a progetto.
1. Ottavia e Marco,voi che non siete Duccio, né il produttore, ma firmate la sceneggiatura di Short Skin in che fase siete entrati nel progetto?
OM: Io sono entrata da subito. Conoscevo Duccio da un po’ di anni, avevamo scritto un documentario Hit the Road, Nonna e avevamo ancora voglia di lavorare insieme. Un giorno Duccio mi parla di questa storia, molto autobiografica, e mi dice se mi va di lavorarci e io gli dico subito di sì. Erano quasi tre anni fa. Da allora abbiamo sviluppato il soggetto, la sceneggiatura e abbiamo condiviso la gioia di vedere il film realizzarsi.
MP: Io sono entrato piuttosto avanti, quando il film era stato già selezionato per essere prodotto. C’era già una prima stesura e ho aiutato Duccio a rivederla, riscrivendo delle scene, cambiando alcuni elementi della struttura e poi adeguando il copione alle esigenze pratiche sempre più imminenti.
2. A tutti: avete avuto un compenso, è obbligatorio ritagliarlo dal budget o si va a prestazione gratuita?
DC: Io non ho ricevuto niente, né da produttore, né da regista, né da sceneggiatore. Ma va bene così.
MP: Ognuno ha contrattato per conto proprio, nell’ambito di compensi bassi e/o partecipazioni agli utili a venire.
3. Il tempo. Tre, quattro mesi al massimo per passare dal soggetto alla sceneggiatura definitiva. 7 mesi per la preparazione, le riprese, il montaggio e la post-produzione. Fa bene alla scrittura, al film, tenere i tempi, correre? Avete rimpianti dovuti alla fretta?
DC: Qui si aprirebbero riflessioni molto lunghe. Sicuramente scrivere in fretta ha degli svantaggi, ma allo stesso tempo questa idea di passare da un’idea ad un film finito, in programmazione in un grande festival, in meno di 11 mesi aiuta a mantenere la freschezza dello spirito narrativo, l’interesse in un progetto, la voglia di raccontare, spesso messa a dura prova dagli infiniti tempi della ricerca di finanziamenti.
OM: Certo i tempi sono stati strettissimi ma non parlerei di rimpianti. La storia era già molto maturata dentro di noi e sono certa che se anche ci fosse stato molto più tempo il film non sarebbe uscito molto diverso da quello che è.
MP: Non direi di avere rimpianti. Io ho lavorato in tempi rapidi ma non impossibili,perché abbiamo continuato a scrivere anche durante la preparazione.
4. Workshop. Professionisti italiani che incontrano professionisti di tutto il mondo. Come stiamo messi? Arriviamo impreparati? Reggiamo il confronto?
DC: Forse fino a qualche anno fa partivamo un po’ svantaggiati, anche per la tormentata relazione che abbiamo con le culture straniere. Adesso mi sembra che questo svantaggio si stia colmando.
OM: Purtroppo Biennale College non prevede la presenza ai workshop degli sceneggiatori ma dei soli registi e produttori, perpetuando in questo modo la consolidata abitudine a considerare il lavoro di scrittura un lavoro secondario alla realizzazione di un film. Fortunatamente, nel nostro caso, Duccio ci ha aggiornati passo passo e siamo comunque riusciti a trovare una formula di condivisione fra il nostro lavoro a casa e i feedback che riceveva la sceneggiatura negli incontri, dove non mi pare che gli italiani fossero meno impreparati.
MP: Come dicevo sopra, io non c’ero. Ma se posso generalizzare, in base all’esperienza in altri workshop internazionali, credo che gli italiani della mia generazione siano mediamente abbastanza bravi, preparati e appassionati. Come sceneggiatori, forse, alcuni di noi hanno qualche resistenza ad assorbire il metodo intellettuale anglo-sassone, decisamente egemone in questi contesti, che mette molta enfasi sulla struttura e sul piacere di rispettarne le regole. Questa difficoltà col metodo può essere vista come un limite, ma in fondo è anche un segno di personalità.
5. Biennale College è rivolto ai giovani, ma nel regolamento non ci sono limiti d’età. Che età hanno davvero i giovani del college? Che forbice d’età avete voi?
DC: Le persone che erano al college erano tutte mediamente sulla trentina. Anche noi siamo tutti nei trenta.
6. Soldi. Tutto il progetto è molto controllato, sia dal punto di vista artistico che da quello della spesa. E’ stato un rapporto che vi ha fatto crescere, o si è limitato ad essere una formalità burocratica?
DC: I limiti con cui il progetto Biennale College Cinema ti fa confrontare sono quelli del tempo e dei soldi. Io personalmente mi sono sentito più limitato dal tempo, anche perchè la storia la avevo scritta proprio per poter essere girata in microbudget e dunque non ho dovuto fare particolari sacrifici.
7. Biennale college parla inglese, ma il vostro film è girato in Italiano. Perché? E’ stata una vostra scelta?
DC: I workshops erano in inglese per ovvi motivi, ma all’interno dei 12 progetti ve ne erano di provenienti da tutto il mondo e che sarebbero stati parlati in tante lingue diverse qualora fossero arrivati alla fase finale della produzione. Per l’appunto noi siamo l’unico progetto non anglofono dei tre progetti realizzati.
OM: Il film è girato in Italia, con attori italiani e nella nostra testa è sempre stata una storia che parlava di ragazzi che conoscevamo bene, ragazzi della provincia italiana, simili in qualche modo a noi a quando eravamo adolescenti. Poi, lo sviluppare la storia con professionisti non italiani e scrivere varie stesure della sceneggiatura del film in inglese ci è servito, forse, ad allontanarci da noi, contaminarci con altre realtà, per tornare poi da dove si era partiti: un ragazzo, un’estate, la provincia italiana.
8. La vostra storia: un ragazzo che ha difficoltà a masturbarsi. Siete ricorsi alla Biennale College perché nessuno in Italia, e forse neanche In Iran, ve l’avrebbe fatto produrre? Come vi è venuto in mente? E’ una storia vera?
DC: È un racconto che attinge alle mie memorie di adolescente, di quel periodo della vita in cui già era difficile sentirsi ragazzino, figurarsi maschio. Specie, poi, se hai dei problemi con la sessualità. Si riconnette ad alcuni episodi legati alla scoperta della sessualità, vissuti assieme ai miei amici. La nostra fortuna è stata quella di non pensare nemmeno a proporlo a dei produttori: lo abbiamo scritto per produrlo da soli e dopo poco è uscito il secondo bando di Biennale College Cinema. Adesso, eccoci qui.
OM: La storia prende spunto da un’esperienza autobiografica, ma come spesso succede, quando si lavora in gruppo, si è contaminata con il vissuto degli altri ed è diventata la storia di Edoardo, un ragazzo che sta affrontando quel rocambolesco periodo fatto di alti e bassi che segna il passaggio dall’adolescenza al divenire adulti. Non so dire se in Italia il film non sarebbe stato prodotto, posso dire che Biennale College ci ha creduto e ha dato un grande sostegno al film.
9. Se la sceneggiatura conta sempre molto, nei film a basso budget conta il triplo. Quali erano i limiti che imponevano alla sceneggiatura i 150mila euro? Come avete risolto?
DC: La storia era stata scritta con la finalità di essere girata in maniera molto indipendente per cui siamo stati facilitati.
OM: Quando abbiamo iniziato a lavorare al film non c’era nessun committente e nessun produttore, eravamo liberi di scrivere quello che volevamo ma, in modo del tutto naturale, abbiamo sempre pensato che si sarebbe trattato di un “piccolo” film. Così abbiamo scritto una storia che per sua natura non prevedeva grandi sforzi economici e che ben si adattava a quello che poi, senza saperlo, sarebbe stato utile per Biennale College.
MP: Come sempre in questi casi, si è trattato di limitare il numero degli ambienti e delle situazioni e di tagliare tutto il prescindibile.
10. Il set. Tutto il team degli sceneggiatori è stato presente, avete voluto esserci, seguire o avete preferito altrimenti?
OM: Purtroppo, sono riuscita ad andare sul set un solo giorno ma è stato comunque molto interessante. Credo, infatti, che sia altamente formativo per uno sceneggiatore stare a contatto con gli attori e vedere come le cose, che sembravano funzionare su carta, prendano realmente vita durante le riprese e verificare che, delle volte, alcune scene, che ci sembravano buone, scricchiolano come delle vecchie porte, e delle scene, che pensavamo deboli, ci lasciano a bocca aperta per la loro intensità.
MP: Sentivo spesso Duccio per telefono, ma non ho mai avuto (purtroppo) il tempo di andare fisicamente sul set.
12. Marco, tu eri a Venezia l’altr’anno. Pensi che essere già stato selezionato con un film realizzato, abbia favorito il tuo ingresso nel progetto?
MP: Non lo so, è stato Duccio a chiamarmi. Forse ha pensato che un po’ di esperienza in più potesse aiutare. Questo comunque è l’ottavo film che accompagno a Venezia e, se posso aggiungere una cosa che non c’entra niente, mi dispiace che da tre anni a questa parte gli sceneggiatori non vengano più annunciati prima di una proiezione. Era una soddisfazione meritata, un bel momento per noi e credo anche per il pubblico. Spero che la direzione del festival se ne renda conto e faccia un doveroso passo indietro.