L’amore bugiardo – Gone girl
Nel romanzo di esordio di Gillian Flynn, Sharp Objects, del 2006, un serial killer uccide brutalmente due teenager in una cittadina del Missouri, e poi strappa via i denti dalle loro bocche senza vita. Anche Flynn stessa, nonostante l’apparenza affabile e relativamente equilibrata, può rivelare un aspetto cinico; ma le capita, soltanto, quando deve adattare un suo romanzo per il grande schermo. All’età di 43 anni, sposata da molto tempo con l’avvocato Brett Nolan, madre di un bambino e di un neonato, dopo aver scritto, per un decennio, recensioni di programmi televisivi, come Living Lohan e The Biggest Loser, per Entertainment Weekly (il che, a pensarci bene, spingerebbe chiunque a commettere un omicidio), Flynn non ha mai avuto a che fare con sistemi medievali di estrazione dei denti, ma ha dimostrato un’abile e apparentemente innata disinvoltura con il bisturi e la sega elettrica per ridurre il suo blockbuster di 432 pagine, Gone Girl, in una sceneggiatura tesa, intricata, inzuppata di terrore e spesso causticamente divertente.
Il film che ne è derivato, diretto da David Fincher, con Ben Affleck e Rosamund Pike uscirà nelle sale (in USA, ndr) il 3 ottobre. Da quando il romanzo è stato pubblicato, nel 2012, Gone Girl ha venduto più di sei milioni di copie e, dato che per parecchi mesi è riuscito a mantenersi in cima alla lista dei bestseller del New York Times, l’ex datore di lavoro di Gillian si è convinto a incoronarla “Entertainer dell’Anno”. Oggi, l’agile e intelligente scrittrice, nata a Kansas City, si destreggia fra il suo ruolo di neo-mamma e la promozione di Gone Girl, la scrittura di Utopia, una serie thriller-complottista per la HBO capitanata da Fincher, la stesura della trama del suo prossimo romanzo e un adattamento di Amleto per ragazzi. Quando le viene proposto di prendersi una pausa, per festeggiare quest’annata straordinaria con un po’ di bollicine, Flynn, che da ragazza ha divorato Flowers in the Attic di VC Andrews, l’intera filmografia di Alfred Hitchcock e le opere taglienti e spesso gotiche di Joyce Carol Oates, scoppia a ridere e dice, “Sì, mi va un po’ di champagne! Anzi, accetto volentieri litri di champagne!”
Gone Girl ha conquistato numerosi titoli di giornali, prima come romanzo e ora come lungometraggio. Uno dei titoli che non abbiamo letto, però, è: “Neo-Mamma Firma il Film Più Inquietante dell’Anno!”
Non è affatto male, lo sai? Mi piace! Potete pubblicarlo, voi?
Faremo del nostro meglio. Intanto, tu hai lavorato per un settimanale di cultura popolare per 10 anni, scrivendo recensioni di centinaia di film e programmi TV, intervistando centinaia di personaggi famosi. Cosa si prova ora a stare dall’altra parte del registratore?
A volte è strano quanto mi sia familiare. Spesso ho la tentazione di prendere il controllo, di dirottare la conversazione: “Sono io che faccio le domande, qui!”
Secondo te, il giornalismo e le recensioni sono una buona palestra per i romanzieri e gli sceneggiatori?
Sì, certamente. Sono sicura che non sarei mai diventata una scrittrice o una sceneggiatrice, se non avessi avuto l’esperienza del giornale. Come scrittrice, la rivista mi ha insegnato la disciplina: sedersi alla scrivania e scrivere – anche quando uno non ne ha voglia. Esiste ancora quest’idea che possa scendere dal cielo una musa e che, se il tuo destino è scrivere un romanzo, possa appollaiarsi sulla tua spalla e indicarti la strada fino alla fine. La verità è un’altra: buona parte dello scrivere è faticoso e noioso, un gran lavoro di schiena. Tutti gli anni passati a scrivere per un settimanale, mi hanno insegnato questo: la musa non verrà, amica mia. Devi solo afferrare la Diet Coke e sederti davanti al portatile e non alzarti, finché non hai terminato quel maledetto articolo. Per un romanziere, è molto utile.
E’ anche utile per scrivere sceneggiature?
Scrivere la sceneggiatura di Gone Girl, è stato, più che altro, come un allenamento per uccidere i miei cari. Mi è toccato prendere in mano un libro di 500 pagine, sapendo che avrei dovuto eliminarne i due terzi, e che il risultato avrebbe dovuto essere ugualmente ricco e avvincente, con lo stesso meccanismo ad orologeria, le derive e i vicoli ciechi della sua vicenda sentimentale. Erano quelli gli elementi a cui i lettori si sono appassionati. La palestra della rivista mi è stata utile, perché sappiamo tutti che il tuo “pezzo pensato” di 1.000 parole può risultare didascalico. Non puoi fare troppo la preziosa. Scrivere per una rivista mi ha insegnato a guardare il mio lavoro con occhio molto severo. Se entri nell’ottica di rinunciare a gran parte del tuo libro, navighi in acque più sicure, che non, se volessi infilare tutto quanto a forza nella sceneggiatura.
Certo, se c’è una cosa che ci insegnano i tuoi romanzi è che non esistono acque sicure.
In effetti è più o meno proprio quella la morale di Gone Girl, vero? Non esistono acque sicure.
James Ellroy una volta ha detto che quando a Hollywood gli fanno la corte per l’adattamento di uno dei suoi romanzi, lui prende l’assegno, lo incassa, butta il romanzo in una macchina e poi la getta giù dalla scarpata.
E io sono saltata in macchina insieme al libro, non è così?
Hai fatto molti cambiamenti significativi, adattando il romanzo per il cinema. E’ il risultato della collaborazione con David Fincher o ti sei trovata a riprendere in mano il tuo romanzo e pensare “Wow, sarebbe venuto molto meglio se lo avessi fatto così”?
No, non ho avuto ripensamenti, non è mai stata questione di tornare sui miei passi e correggere quello che avevo scritto. E’ stata solo l’occasione per lavorare a un film, che è un mezzo espressivo che amo tantissimo. Ho fatto due cose, da ragazzina: andavo al cinema e leggevo libri, e, oggi, provo un rispetto profondo per le enormi differenze dei due linguaggi e il modo in cui ne usufruiamo. Alcuni cambiamenti erano davvero ovvi, di semplificazione. Solo quando Fincher è salito a bordo, il lavoro di sceneggiatura è diventato dar la caccia a quello che lui ed io volevamo che emergesse dal libro e dai personaggi. Ogni tanto, mi capitava di provare a suggerire un taglio e lui, subito, diceva, “No! Il centro commerciale abbandonato non lo tagliamo!” E’ stato allora che ho capito che eravamo spiriti affini.
Prima che Fincher salisse a bordo, mentre prendevi il volo da sola con la macchina da scrivere, qual è stato il tuo approccio iniziale nell’adattamento del libro?
E’ stato un processo di distillazione della trama. Devi tirar fuori, esattamente, quello che ti porta dalla A alla Z. Se non hai tutto ben chiaro in mente, specialmente con una trama intricata, ad orologeria come questa, rischi di sbagliare tutto. Devi anche ricordarti che la cosa essenziale non è salvare tutto del libro, ma solo il tono. Avevo attaccato un grosso post-it rosa fucsia sopra il computer, perché mi fissasse da lì, e ci avevo scritto, “E’ un film.” Volevo ricordarmi in ogni momento che stavo scrivendo una sceneggiatura e non un romanzo. Una sceneggiatura ha a che fare col tono, le sfumature e lo spirito dell’opera.E’ questo che stai cercando di trasferire.
Fincher è molto conosciuto, e probabilmente anche un po’ mitizzato, come un artista che a volte pretende 60 ciak dai suoi attori. Ti ha sottoposto agli stessi numeri, al tuo primo lavoro di sceneggiatura?
E’ strano; non so davvero quante stesure abbiamo fatto. Prima che accettasse di dirigere il film, ha letto la prima stesura; poi, ci siamo incontrati e, fra aprile e agosto dell’anno scorso, quando sono cominciate le prove degli attori, gli ho mandato una stesura dietro l’altra. Probabilmente avrei dovuto segnare il numero. In un certo senso vorrei averlo fatto. Ma gli mandavo continuamente pagine nuove. La cosa bella di lavorare con Fincher è che è talmente perfezionista che quando dice, “Questa è buona,” gli credi e smetti di ripensarci.
Quindi è un po’ come l’editor ideale di una rivista.
Ti chiede di motivare tutto quello che fai. Mi mandava le sue note segnate in giallo, cose di cui voleva discutere, dal tema generale del film a cose tipo “il personaggio andrebbe davvero in bicicletta?” Vuole che ogni cosa nei suoi film possa essere difendibile nel mondo reale. Voleva che facessi il road test di tutto. Mi è piaciuto un sacco! Posso riscrivere fino a notte fonda. Mi sta bene.
Avevi mai scritto una sceneggiatura prima di Gone Girl, o ti sei iscritta incoscientemente al David Fincher Master Class?
Avevo già provato a scrivere sceneggiature. Sono sempre stata un’appassionata di cinema, e probabilmente è vero che se uno è uno scrittore e ama i film, prima o poi, proverà a scriverne uno. La cosa di cui ti rendi conto subito è che scrivere una sceneggiatura non è facile. Le osservi e ti accorgi che ci sono un sacco di spazi bianchi, che non ci sono molte parole sulla pagina: quindi deve essere facile, giusto? La verità è che non ci sono così tante parole come in un romanzo, quindi ognuna di esse deve fruttare molto di più. Fincher è stato molto bravo a farmelo capire. Gli mandavo questi lunghi dialoghi e lui mi diceva, “Sì, il dialogo è bello, ma che altro fa? Manda avanti il plot? Delinea l’atmosfera? Delinea i personaggi?” Mi ha tenuto a bacchetta per quattro o cinque mesi.
Se Fincher ti ha tenuto a bacchetta, forse è il caso di ricordarlo: Ben Affleck, il tuo protagonista, è anche lui uno sceneggiatore da Oscar!
Durante le prove, seduta di fronte a Ben e Fincher, a volte stavo lì e pensavo, Smettila di improvvisare, Affleck! [ride, ndr] Credi di essere tanto intelligente?
Quando eri più giovane, tu e tuo padre – un docente universitario di cinema – andavate ogni settimana al cinema. C’è un film in particolare, di quel periodo, che ti è rimasto impresso e che pensi possa essere stato in qualche modo formativo per il tuo lavoro di scrittrice, oggi?
Un ricordo importante ce l’ho, ed è di mio padre che mi mette a sedere davanti al nostro gigantesco video registratore anni ’70 e mi dice, “Oggi guardiamo Psycho,” Gli sembrava normalissimo per una bambina di nove anni. Mi stava facendo vedere tutti i film di Alfred Hitchcock, uno dopo l’altro, ed era arrivato semplicemente il turno di Psycho. Abbiamo visto un sacco di capolavori insieme – Bonnie & Clyde, West Side Story: preferiva il grande schermo della sala. Sono cresciuta in una casa in cui, raccontare storie, non era mai considerato frivolo o illusorio. La si riteneva una cosa importante per le persone, una dinensione forse anche magica. Sono cresciuta con l’idea che raccontare storie fosse una cosa importante.
E’ stato detto: una volta critico, critico per sempre. Avremo mai una tua recensione del film Gone Girl?
L’avevo già visto quattro o cinque volte con qualcuno del cast o della troupe, ma la prima volta che mi sono seduta in mezzo al pubblico è stato a New York, l’altra sera, e speravo che sarebbe stata la mia prima esperienza come “vera spettatrice”, una del pubblico, ero convinta che mi sarei lasciata trasportare dal film come se non l’avessi mai visto, non ne sapessi nulla. Invece ho passato tutto il tempo a tenere d’occhio il pubblico. Hanno riso al momento giusto? Hanno sussultato al momento giusto? Stanno controllando il telefono, si agitano nella sedia? Così, dopo, ho detto a Fincher, “Non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui potrò sedermi e vederlo semplicemente come un film.” Lui mi ha guardato e si è messo a ridere, e mi ha detto, “Oh, non potrai mai, mai più, vedere Gone Girl come un semplice film! Rassegnati! Hai visto come si prepara la salsiccia!”
Che consiglio daresti agli aspiranti sceneggiatori?
Per me, la cosa più importante, nell’adattamento di Gone Girl, è stata tenere vivo il mio amore assoluto per il cinema, far sopravvivere quella “fan” e prestare attenzione non soltanto al mestiere, ma alla suggestione della memoria e alla convinzione che i film devono emozionarti e trasportarti e illuminarti e offrirti argomenti di cui parlare. Gran parte della sceneggiatura è stata scritta dal punto di vista di, “Be’, cos’è che vorrei vedere io sullo schermo in questo momento? Di cosa ho fame in questa scena?” E’ importante soddisfare se stessi.
L’intervista è a cura di Todd Aaron Jensen