Mi chiamo Maya
Ciao Tommaso, ci puoi riassumere la storia di Mi chiamo Maya in poche frasi?
Il film racconta il viaggio di Niki, sedici anni, e della sorellina Alice di otto, in fuga da una casa famiglia a cui erano state affidate dai servizi sociali, dopo un tragico lutto familiare. In questo percorso quasi iniziatico la protagonista Niki attraversa diverse realtà proprie del macrocosmo adolescenziale.
Come ti è venuta l’idea del film? Cosa ti premeva raccontare?
Il film è il risultato di una ricerca portata avanti da me diversi anni fa con documentari e cortometraggi sul tema dell’adolescenza metropolitana. È il punto di arrivo di questa mia indagine e racchiude tante storie e persone che ho incontrato lungo questo affascinante cammino.
Più in generale, da cosa nascono le tue storie? Da una premessa narrativa
intrigante? Dal mondo del racconto? O dai personaggi?
Le mie storie nascono prima di tutto da un processo di fantasia e creativo che ovviamente prende spunto dal reale, quindi dal mondo che mi circonda e in seguito queste realtà affascinanti vengono trasformate e inserite nella struttura narrativa.
Come si è svolto il processo di sviluppo del copione?
Il film prende vita da innumerevoli spunti e appunti scritti. Io solitamente non scrivo mai il trattamento, scrivo un piccolo soggetto, una scaletta e poi direttamente la sceneggiatura.
A quali generi o modelli ti sei ispirato?
Senza dubbio ai tanti film sugli adolescenti internazionali come Paranoid Park, Ragazze Interrotte, Bling Ring e via dicendo. Ai teen movies e a tutto ciò che avesse un punto di vista adolescenziale.
A proposito degli attori, hai scelto l’intero cast del film a copione ultimato o avevi già in mente alcuni attori prima di terminare la fase di scrittura? E, in questo caso, quanto e come hai cercato di cucire addosso il personaggio all’attore nella stesura della sceneggiatura?
Più che altro ho cercato di cucire addosso agli attori i personaggi così come li avevo pensati e scritti. Mentre li scrivevo pensavo ad alcuni attori, ma mai in maniera definitiva, perché poi c’è il rischio di affezionarsi o desiderare tanto un attore e rimanere delusi da un eventuale rifiuto.
Come si è svolta la collaborazione con Massimo Bavastro? In che modo vi siete divisi il lavoro?
In questo caso, con Massimo abbiamo curato molti dettagli assieme ben prima di iniziare a scrivere. Il processo di ricerca, l’avventurosa indagine nel mondo degli adolescenti, l’abbiamo fatta insieme entrando nelle discoteche, parlando con punk, cubiste, PR, eccetera. Poi Massimo ha buttato giù un trattamento davvero interessante e lo invidio, perché scrivere un bel trattamento secondo me è più difficile di scrivere una sceneggiatura. Io poi ho preso il trattamento ho scritto una prima stesura della sceneggiatura che poi lui ha ripreso, e cosi lavorando insieme siamo arrivati alla stesura definitiva.
Come “funzioni”? Quali sono le tue abitudini quando scrivi?
Quando scrivo non devo fermarmi, metto la musica e scrivo finché posso, senza pensare agli errori grammaticali o di sintassi, ma solo all’obiettivo da raggiungere: arrivare al punto successivo della scaletta e prima possibile alla fine della sceneggiatura, per poi leggerla con calma, correggerla e sistemarla nella sua struttura.
A proposito di revisioni, di solito quante ne fai? La sceneggiatura che è arrivata sul set quanto è cambiata rispetto alla prima stesura?
La sceneggiatura che arriva sul set cambia tantissimo rispetto alla prima versione, noi abbiamo realizzato tantissime versioni prima di arrivare a quella che ci ha convinto di più.
Quanto è cambiato il copione sul set, rispetto allo script? Per quali ragioni?
Sul set è cambiato poco, solo per venire incontro alle esigenze degli attori, che a volte hanno delle intuizioni interessanti. Io comunque tendo a girare esattamente ciò che c’è scritto sulla sceneggiatura.
Qual è stata la storia produttiva del film? Quanto hai “faticato” per trovare produzione e distribuzione?
Ho e abbiamo faticato tanto, io e chi ha creduto nel film. Tutto nasce quattro anni fa, il progetto è passato per diverse produzioni prima di trovare quella che ci credesse veramente. Abbiamo ottenuto il contributo ministeriale e il finanziamento di Rai Cinema, ma è stato difficile convincere tutti. È stato così anche per la distribuzione, che si è sudata ogni sala una per una, con un lotta davvero faticosa contro un sistema che di sicuro non premia gli esordienti.
La WGI intervista gli sceneggiatori per coprire un vuoto d’informazione. Di solito ai festival si parla solo di registi e attori. Anche se la questione non ti riguarda direttamente perché sei anche regista del film, che ne pensi di questa abitudine? Ritieni che in Italia la categoria degli sceneggiatori sia sufficientemente tutelata e riconosciuta?
Ritengo che sia una questione davvero importante e che gli sceneggiatori non siano tutelati veramente, che non esista una vera e propria categoria cosi come delle vere e proprie scuole che garantiscano affidabilità e un futuro lavorativo. Bisogna costruire e fortificare la categoria, soprattutto partendo dai giovani selezionando e premiando i più bravi, ma soprattutto dandogli la possibilità di dimostrarlo concretamente.
E ti senti tutelato anche dalle leggi sul diritto d’autore? O cambieresti qualcosa?
Mi piacerebbe che ci fosse una tutela reale, un monitoraggio delle opere che permetta a un autore di essere sicuro dei propri diritti, soprattutto dei progetti scritti, di quelli che non hanno ancora preso una forma produttiva, per questi progetti esistono solo i depositi e non vere garanzie di protezione.
Cosa pensi della situazione del nostro cinema in questi anni?
Che sarebbe ora di renderlo un’industria, proprio adesso che il cinema italiano annovera autori come Garrone e Sorrentino, può fare il grande passo e costituire un movimento dove ci si aiuti reciprocamente a mettere le basi per un’industria che possa reggersi da sola e che dia la possibilità alle nuove generazioni di potersi esprimere.
Secondo te quanto della situazione attuale dipende dalla sottovalutazione del gusto del pubblico e della sua capacità di distinguere e apprezzare opere originali e ben fatte?
Il pubblico è sempre fondamentale, non credo venga sottovalutato, ma prima di arrivare al pubblico purtroppo bisogna passare per tante persone di settore, élite di burocrati, di critici, di selezionatori che sono molto distanti dal gusto del vero pubblico, e dai target di gradimento di un prodotto. Purtroppo questo è il problema del nostro paese, si prova gusto a distruggere più che a costruire ancora prima che un film arrivi al pubblico.
Ci regali la tua scena preferita del copione? Perché l’hai scelta?
La mia scena preferita è quando Elisabetta, un’amica della protagonista Niki, la porta di notte a vedere la città dall’alto di un posto magico, una grande struttura fatta di bamboo, in quel momento e solo in quello è il regista che parla attraverso le sue parole con un grido d’aiuto verso la società che non ascolta, perché ormai non c’è più nulla da fare.
Grazie!