Figli di Maam
Paolo, di che parla il tuo secondo film Figli di Maam? Puoi farci un rapido pitch?
Un personaggio che si crede un santo, ma che forse è un homeless, viene ospitato dentro le mura di Metropoliz (la fabbrica occupata, sede del Maam, ndr) e si aggira animato da un’urgenza spirituale: ritrovare una croce che Gesù bambino per gioco ha fatto cadere giù dal paradiso. Follia? Sogno? O speranza? Lascio aperta la questione, ma presto quella ricerca diventerà un messaggio divino per radunare tutti i santi in quel nuovo luogo sacro. E lui dovrà fare i conti con visioni contrastanti, diavoli ed angeli. E, naturalmente, con l’incredulità di chi gli sta intorno.
Tu sei marchigiano con origini sarde, come mai hai ambientato a Roma la tua idea?
Ero stato invitato come artista ad una collettiva curata da Giorgio Definis, l’ideatore del Maam che è un museo ubicato sulla Prenestina, nato all’interno di Metropoliz, una ex fabbrica attualmente occupata da molte famiglie di diversa etnia e anche da blocchi precari. La mia controproposta al curatore è stata quella di filmare una performance per qualche giorno e presentarmi quindi con un film, invece di un quadro.
Dunque, provocandoti, il tuo film è un quadro mancato?
Preferirei pensare Figli di Maam come una performance filmata, durante la quale il protagonista ricerca una sua realtà.
Ma come nasce l’idea di Figli di Maam?
E’ nata durante il primo sopralluogo nella struttura del Maam. Le abitazioni spontanee, arrangiate e allegramente colorate, nelle quali vivevano le tante famiglie, mi hanno davvero colpito. Chi erano quelle persone? Perché stavano lì? Che vita facevano? Ho pensato di creare un personaggio che potesse entrare nelle storie di queste persone e raccontarle dal di dentro. Era la vita di quelle famiglie che mi interessava. Da qui Figli di Maam. E’ con questi figli che il protagonista si confronta e fa amicizia, fino ad arrivare al Vernissage della mostra, durante la quale si compirà l’opera filmica.
Vieni dalla pittura, quanto credi abbia influenzato la tua scrittura?
Non è facile rispondere. Il film nasce dalla premessa che un luogo sacro possa essere contaminato dall’arte o dalla miseria. E questi sono contrasti visivi. Non dimentichiamo che siamo in uno spazio con mura dipinte ovunque. Sicuramente la pittura ha suggerito, durante la scrittura, una ricerca ossessiva di icone, simboli forti e colori che hanno finito col determinare in modo preponderante il comportamento del protagonista.
Hai usato spesso la voice over. Perché? Scelta di gusto o necessità?
Entrambe, a dire il vero. C’era un canovaccio, che potremmo definire una sceneggiatura aperta. Questo anche perché sentivo il bisogno di individuare l’autenticità dei personaggi che una scrittura apriori mi avrebbe precluso. Lo scopo era cogliere l’imprevedibile. Quell’imprevedibilità che in fase di montaggio è diventata poi un punto di forza, suggerendomi – solo dopo – un testo che riportasse quanto da me vissuto in prima persona.
Se potessi descriverci con una parola – e una soltanto- un’immagine che racconti interamente il film…quale sarebbe?
Avevo uno slogan per questo film “quando arte e religione litigano, non credeteci”. Ma non è una parola, giusto? Mi verrebbe da dire “stretta di mano”, perché sul finale c’è qualcosa legato alla solidarietà, ma sarebbero ancora tre parole! Se proprio sono costretto a cercare una parola credo che direi: “strada”. Perché è dalla strada che tutto inizia. La strada è un incontro di persone diverse, una direzione, una prova di convivenza.
Dalla scrittura alla produzione, come hai fatto a realizzare Figli di Maam?
Dopo aver visto questo spazio e non avendo nessuna conoscenza in ambito cinematografico, ho pensato di mettere in gioco i miei contatti artistici, proponendo questa mia idea filmica a Giuseppe Lepore, un mio collezionista di opere che – entusiasta dell’idea – mi ha supportato economicamente nel progetto, divenendo poi un valido produttore a tutti gli effetti, sia come finanziatore che come organizzatore. Oggi la sua casa di Produzione, la Bielle Re, sta già lavorando ad altre produzioni con altri autori.
Il basso budget ha influenzato il tuo racconto, se sì come?
In realtà no. Perché il film nasce dall’incontro scontro tra un personaggio e il suo ambiente. Io avevo entrambi a disposizione. E mi bastava. In fondo volevo un racconto realistico. E poi sono stato fortunato ad avere un grande attore come Luca Lionello, che ha saputo giocare tra realtà e visionarietà con molta naturalezza.
Cosa pensi del cinema italiano?
Trovo sia pieno di bravi registi che mi mettono un po’ di soggezione. Ma a dire il vero non seguo tantissimo il cinema attuale. Mi sento abbastanza ignorante. Forse perché sono rimasto agli autori storici. Certo, quando vedo i film fatti da altri, pensando alla mia personale esperienza di set, rifletto spesso su quanto sia difficile e costoso oggi fare un film.
C’è qualcosa che vorresti di più sul piano dei diritti, o del mercato?
A dire il vero sono piuttosto francescano sulla questione. Mi basta vivere la mia ricerca creativa e avere quanto basta per andare avanti. Certo, per Figli di Maam ho avuto la fortuna di incontrare un supporto privato e persone come Giuseppe Lepore che credevano in me. Ma so che questo non sempre può valere per tutti. E non è detto che mi ricapiti. Dunque mi auguro che gli incentivi statali possano diventare di più facile accesso, anche per gli autori che hanno idee alternative.
Qual è il senso di un festival? Credi ci sia una reale utilità, se sì quale, oppure è solo una vetrina per l’ego autoriale?
Per quanto riguarda il mio caso, credo che certe manifestazioni siano assolutamente fondamentali per chi, come me, sta iniziando una sua avventura e che, per mancanza di spazi distributivi, sarebbe altrimenti invisibile.