Stanza 52
Maurizio, come da un paio di anni in occasione di un festival o di un premio (qui l’intervista del 2014 per Pasolini, qui quella del 2015 per Bella e Perduta), noi torniamo a intervistarti. Questa volta è un po’, anzi parecchio, diversa dalle altre: non solo parliamo di un cortometraggio, ma tu sei anche regista, oltre che sceneggiatore. Cominciamo, però, dal solito inizio: raccontaci la storia di Stanza 52 in poche righe.
Un solo personaggio, interpretato da Vincenza Modica, una cameriera di un albergo di lusso napoletano, che pulisce una stanza abitata da presenze ultraterrene che lei interroga sui peccati di chi la circonda e che alla fine mette in crisi con le sue semplici ma argute riflessioni.
Una storia surreale, intima, poetica, apparentemente molto distante da quelle che hai scritto in passato. Mi racconti da dove nasce?
Nasce come testo teatrale all’interno di uno spettacolo scritto 4 anni fa. Ne ho fatto un corto perché col cinema posso raggiungere un pubblico più vasto visto che avevo il bisogno di dire la mia sulla ormai prevalente raffigurazione a tinte fosche di Napoli come luogo di colpe e di pene. Do la mia versione con una breve storia fantastica di ispirazione eduardiana.
“La compassione è la base della moralità, ma spesso non riusciamo a perdonare a noi stessi né agli altri perché lo dimentichiamo”: ho letto on line (qui) questa tua bella riflessione sul TEMA del corto. Me la spieghi bene? Cosa ti premeva raccontare, e perché?
Tutta la morale nasce da una visione della vita nel suo rapporto con la morte e la sofferenza, da qui regole, giudizi, pene. Eppure si dimentica che molti, non tutti, di quelli che sbagliano vivono situazioni di ingiustizia e di risentimento sociale. Ecco la compassione dovrebbe servire a ricordarcelo quando giudichiamo, a “comprendere” (che è poi è la vera accezione di compassione) le condizioni che generano certi comportamenti negativi, ma se non lo facciamo a partire da noi non potremo farlo per gli altri. Comprenderci, conoscerci per comprendere e conoscere gli altri.
Veniamo al FORMATO del cortometraggio: come mai lo hai scelto? È una motivazione “esterna”, legata al tuo esordio alla regia, o questa storia aveva bisogno proprio di questo formato?
Un solo personaggio in uno spazio unico, non è per niente facile da girare, tranne che produttivamente. L’ho girata in un solo giorno, in quattro piani sequenza di cui ho montato le parti migliori. Ho girato stando molto sull’attrice, sul suo corpo, sui suoi gesti e sul duro lavoro di cameriera. Ero interessato all’umano, a una donna semplice che dialoga con l’ultraterreno e che pone questioni fondamentali sulla colpa e sui peccatori. Senza intellettualismi, visto che il cinema lo permette.
In cosa è diverso scrivere un cortometraggio rispetto a un lungometraggio? Dov’è la bellezza, e dove la fatica, le difficoltà?
Come in un racconto letterario, il corto deve essere breve e inteso, dire tutto con grande economia e arrivare al centro della questione. Il mio dura 12 minuti, ma possono essere un’eternità. Il lungometraggio è più una lenta tessitura, la differenza che c’è tra una canzone e una sinfonia.
Dalla sinossi e dagli stralci di tue interviste si evince che il corto ha un tono “leggero”: è la famosa commedia che stavi scrivendo qualche tempo fa e di cui ci accennavi (qui)? Spiegaci meglio questa leggerezza.
Sì è una commedia fantastica un po’ nera, dove si sorride e si riflette sul tema in questione. Nello spettacolo che citi ne ho scritte 7 di brevi storie, tutte ambientate in un hotel e tutte sul tema della colpa e della pena.
Ma secondo te si può parlare di generi anche per i cortometraggi? Perché a volte sembra che non sia così, che il “corto” sia considerato un genere, invece che un formato…
Il corto dovrebbe essere parte di un’opera collettiva, come avveniva più di frequente tra i grandi registi degli anni ’60. Un’opera che sia un progetto vero, non pretestuoso, che abbia dietro un’idea politica. Oggi comunque i corti hanno più spazio, i festival aprono a loro e poi c’è il web. Può essere un modo più veloce per dire delle cose importanti.
E veniamo finalmente alla REGIA. Il grande salto dello sceneggiatore. Innanzitutto: perché lo hai fatto? Cosa ti ha spinto, a voler dirigere la tua opera? La scrittura a un certo punto non basta?
Dirigere un film ti aiuta a capire ancora meglio la scrittura. L’ho fatto perché voglio anche seguire una mia personale poetica e poi perché amo lavorare con gli attori, li trovo un po’ dei mostri magici con cui è bellissimo dialogare. Diciamo che come sceneggiatore mi piace lavorare con i registi che hanno un po’ di politica in testa insieme all’estetica, e come regista con attori e attrici che non pensino solo a mostrare quanto sono bravi ma abbiano un’inquietudine, un disagio verso il mondo così com’è oggi.
Con la produzione com’è andata? Si è creata una sintonia maggiore di quella che hai sperimentato come sceneggiatore in altri lavori?
La produzione è di amici che hanno voluto aiutarmi in questa piccola impresa: Pietro Marcello, Sara Fgaier, Francesco Bellusci. Ci tenevo a lavorare bene col gruppo e a non farmi nevrotizzare (altro tema politico del presente) e credo di esserci riuscito. Finora anche come sceneggiatore sono stato fortunato, quasi sempre ho lavorato con amici o con persone a cui poi sono rimasto legato.
Proprio alla mostra di Venezia, l’anno scorso, fu detto che solo il 10% dei corti vengono distribuiti e che il massimo di ritorno economico che possono ottenere è la visibilità di un ingresso nella cinquina degli Oscar e un volo a Los Angeles. Tu hai già una distribuzione? Cosa ti aspetti, da Stanza 52?
No, niente ancora, qualche invito ad altri festival invernali. Io credo che Stanza 52 dica una cosa importante sul presente e lo fa con un linguaggio classico, questo mi basta e spero che la gente lo scopra. O meglio che lo scoprano i loro inconsci, che sono i nostri spettatori veri.
In generale, da un punto di vista dell’industria audiovisiva, cosa pensi dei cortometraggi? Quale funzione assolvono? Possono rappresentare una porta d’accesso al mercato o sono un universo a sé stante, che soddisfa solo le esigenze espressive degli autori?
Dipende dall’intento politico, un corto può anche essere dirompente o addirittura un capolavoro (Pensa a quelli di Pasolini o di Polanski). Non credo che sia sempre e solo un modo per un regista per mettersi in mostra e muovere i primi passi. Meglio un bel corto che un brutto lungometraggio.
Due domande che stiamo facendo a tutti gli intervistati. La prima, sul sistema cinematografico italiano. Tra pochi mesi dovrebbe essere votata in Parlamento la nuova “legge cinema”, secondo la quale la parte più rilevante dei finanziamenti di sostegno alla produzione – circa l’80% – va ridistribuita tra coloro che hanno incassato di più nel corso dell’anno precedente. Cosa ne pensi?
Ciò che ha più successo viene sostenuto di più, ma molti grandi autori incassano poco. Credo che siamo nel darwinismo sociale, ma esistono anche forme di lotta, di resistenza.
La seconda, sulla gestione dei nostri diritti d’autore. Lo Stato italiano, pur accogliendo la normativa europea che permette agli autori di scegliere una collecting di loro gradimento, ha deciso di non modificare la condizione di monopolio della Siae. Potrebbe però esserci una riforma interna della Siae stessa. In vista di questa, tu che tipo di gestione vorresti per i tuoi diritti d’autore? In altre parole, c’è qualcosa che cambieresti della gestione attuale?
Una SIAE più moderna e veloce, meno burocratica. Forse per ottenerla bisogna aprire ad altri operatori, ma si sa che in Italia il liberalismo è sempre stata una farsa, quando se ne parla è solo perché “tutto cambi perché nulla cambi”.
Grazie mille, Maurizio, e in bocca al lupo ancora una volta!