Underground Fragrance
Ciao Isabelle, siamo in attesa di Pengfei e prima di parlare del film vorrei approfittarne per chiederti quale è stato il tuo percorso di formazione professionale.
IM: Ho fatto come prima cosa un liceo di arti visive e poi non volevo inziare a lavorare nel cinema da subito, perché sentivo di dover maturare un po’ di conoscenza del mondo, per poter avere davvero uno sguardo e un punto di vista da offrire agli altri, senza che fosse solo qualcosa di intuitivo e autoriferito. Quindi ho studiato sociologia insieme a giornalismo e poi sono diventata montatrice, poi regista e poi sceneggiatrice.
Una volta una montatrice mi ha detto che la scrittura del film si fa davvero al montaggio, tu cosa ne pensi?
IM: Si, dipende molto dal film, ma è certo che il montaggio è una forma di scrittura, è la terza scrittura del film: prima c’è la sceneggiatura, poi le riprese e poi il montaggio. E’ vero che al montaggio si riscrive davvero il film. In Underground Fragrance ci sono tre linee narrative, quindi il montaggio è stato davvero fondamentale come scrittura. L’organicità del film, come tessitura di ritmo e sensazioni in rapporto alle tre storie si è raggiunta al montaggio, l’ordine delle sequenze non è quello che avevamo previsto in scrittura, perchè ci siamo resi conto che era meglio cambiarlo. In sceneggiatura c’era un ordine molto logico, mentre al montaggio abbiamo visto che certe cose funzionavano meglio in un altro modo.
La sceneggiatura è cambiata molto rispetto alla stesura di pre-produzione?
IM: Alla fine la storia è la stessa, è cambiato il modo di raccontarla.
Tu sei stata anche presente sul set?
IM: Si, in alcuni momenti. Il film è girato in Cina e in questo momento c’è un’esplosione del cinema in Cina e si girano sempre più film e non è facile trovare il personale tecnico formato come in Francia. Pengfei ha studiatio in Francia e lì succede spesso che i montatori lavorino anche come segretari di edizione, io non l’avevo mai fatto, ma è stato il produttore a incoraggiarmi, siccome conoscevo bene il progetto; sarebbe stata un’occasione per fare una nuova esperienza professionale. In realtà la mia collaborazione inizialmente doveva essere solo come montatrice, poi leggendo mi sono interessata alla sceneggiatura che abbiamo riscritto insieme.
Quando tu sei arrivata sul progetto c’era già una sceneggiatura?
IM: Si il soggetto è di Pengfei, anche perchè è una storia molto personale che riguarda anche dei suoi amici e la sua famiglia. Io ho collaborato per aiutarlo il più possibile a fare il suo film.
Il film ha un linguaggio molto visivo, quasi un po’ minimalista, nell’esprimere la Cina contemporanea, come siete arrivati a questa scelta?
IM: Trovo che Pengfei abbia molto talento nelle situazioni ironiche e anche nei dialoghi, riesce a essere molto divertente e lui stesso fa un po’ di teatro mettendo in evidenza i piccoli dettagli dei personaggi che li rendono unici. E’ un grande osservatore della realtà e delle piccole cose. Mentre io ho un po’ più il senso della storia in generale e della struttura, quindi nella scrittura siamo stati molto complementari. Io l’ho spinto a raccontare queste piccole cose. Lui è stato assistente di Tsai Ming Liang, che è uno dei miei registi preferiti, e ci siamo trovati d’accordo sulla stessa idea di cinema, una cinema fatto di immagini e sensazioni. Ci siamo capiti molto bene lavorando insieme, eravamo d’accordo su tutto.
Tornando al lavoro di scrittura ci puoi raccontare un po’ come è andata?
IM: Nella prima versione di sceneggiatura trovavo che ci fossero delle occasioni mancate, molte idee, ma alcune non sfruttate al meglio. Quindi ho cercato di fare un lavoro per andare più in profondità. Abbiamo lavorato per più di un anno insieme e c’è stato molto lavoro creativo, abbiamo provato delle direzioni, poi ci siamo fermati, poi ricominciato… Poi alcune cose le abbiamo dovute tagliare in fase di riprese, per varie ragioni Pengfei non ha potuto girare tutto quello che voleva. Dunque il girato non corrispondeva alla sceneggiatura e al montaggio ci siamo trovati a dover ricreare certe cose o prendere strade alternative. Nella sceneggiatura di partenza c’era più materiale, più scene e in preparazione poi abbiamo fatto dei tagli, mantenendo i nodi principali della storia, ma evitando di spiegare troppo, dunque certi passggi narrativi sono fuori campo e alla fine questo è un bene perchè il film ha una certa leggerezza, non è tutto spiegato, certo la storia si capisce, spero, ma rimane allo stesso tempo un po’ sospesa.
Cosa ti ha convinto a partecipare a questo progetto?
IM: Ho molto amato il soggetto, ci sono molti film in Cina sull’argomento del boom immobiliare, ma in effetti noi europei non ci rendiamo conto della portata del fenomeno. Il paesaggio è radicalmente mutato, i prezzi degli immobili sono cresciuti a dismisura e chi ha comprato ha guadagnato diventando ricchissimo in poco tempo o altre persone si sono ritrovate all’improvviso molto povere, le disparità sociali sono aumentate. E’ normale che sia un argomento di cui si parla molto e Pengfei aveva questa storia anche personale su un uomo che vuole vendere la sua proprietà allo stato e su questo giovane ragazzo che si ritrova ad abitare nei sotterranei di un palazzo, insieme a molta altra gente. Ci sono molti contrasti, con tutti questi immigrati che si trasferiscono in città con la speranza di guadagnare e cambiare la loro vita, c’è una grande spinta alla crescita economica e sociale, anche legata alle nuove tecnologie, gli smart phone e la comunicazione… è uno scenario molto complesso e Pengfei voleva fare un ritratto della realtà di questa città ed è un argomento che trovavo davvero molto interessante e stimolante. Per esempio il personaggio che vuole vendere la casa non si accontenta mai, vuole sempre più soldi dal governo e magari ha anche ragione, ma questa spinta a guadagnare ha qualcosa di strano, insomma non ci sono buoni e cattivi, è una realtà ambigua con molte sfumature. Poi trovavo interessante che fosse un film davvero cinese, che non ci fosse uno stile occidentale e abbiamo lavorato molto perchè non fosse una narrazione classica: per esempio la storia d’amore è molto sospesa, non c’è mai melodramma e questo corrisponde alla sensibilità cinese che è fatta di sottointesi e sfumature. Io certe volte volevo essere più passionale, più calda nel racconto, ma Pengfei ha saputo riportarmi a un rispetto dei modi di comportamento della cultura cinese e per me è anche stata un’esperienza di formazione culturale. Vedere questo altro mondo e conoscere un’altra maniera di lavorare e di vedere il cinema è stato molto stimolante, più che lavorare con un autore con la mia stessa provenienza culturale. E’ stato un confronto umano, abbiamo imparato molte cose l’uno dall’altra in termini umani. Sono contenta che il film alla fine sia molto cinese, o almeno lo spero.
Si credo che arrivi questo senso di leggerezza nel film, ho trovato molto interessante il modo delicato in cui è raccontata la storia d’amore per sottrazione, la rende più realistica.
IM: Si poi neanche a me piace quando le cose sono urlate, mi piace che i personaggi abbiano una certa purezza. Per esempio in rapporto alla protagonista femminile che come lavoro fa la pole dance in un club, abbiamo cercato di raccontarlo senza voyeurismo. Questa donna si batte per la sua vita, è un personaggio attivo, certo ha una vita dura, forse è un po’ depressa, ma lei fa il possibile per migliorare la sua situazione. Trovo che sia il personaggio che da più speranza, anche se fa una vitaccia, alla fine trovo positivo che un regista uomo voglia raccontare una donna così forte, che alla fine ha un riscatto.
Nel film lei si interessa al ragazzo quando lui per un incidente sul lavoro è costretto ad essere bendato e vive come un cieco, quindi non può vederla. Anzi alla fine quando lui finalmente toglie la benda lei non si rivela e lui rimane solo e di lei ricorda solo profumo.
IM: Si è vero che il finale può sembrare un po’ negativo, ma c’è comunque un’apertura, si possiamo pensate che all’ottanta per cento non si reicontreranno, ma per me c’è comunque una remota possibilità, non si sa mai.
Poi in fondo lei sa chi è lui, è come se la possibilità di ritrovarsi sia lasciata in mano a lei, lui è un po’ passivo nel finale.
IM: Con il ragazzo abbiamo voluto fare un personaggio un po’ ingenuo, ci siamo domandati se tutti i personaggi dovessero esser ambiziosi, spinti da questa smania di riuscita, ma lui invece no, ha il suo lavoro, ma rimane così un po’ sospeso, penso che la sua ingenuità in qualche modo lo protegga. Lui subisce questo fatto di non poter vedere, ma accetta questa condizione, non si deprime, accetta la realtà, non c’è un aspetto di miseria, non abbiamo voluto creare troppo dramma.
Nel film c’è anche una certa ironia nel racconto.
IM: Si ci sono stati dei momenti in cui abbiamo avuto la tentazione di essere ancora più divertenti, ma abbiamo cercato un equilibrio per creare empatia coi personaggi. C’è uno sguardo contemplativo, che a volte genera un effetto ironico, ma non volevamo fare delle scenette comiche, è una questione di misura.
Mi hai detto che lavori anche come regista, ma anche come sceneggiatrice. La nostra Guild si batte per dare riconoscimento al ruolo dello sceneggiatore e al suo lavoro. Com’è la situazione in Francia?
IM: E’ terribile! E’ molto difficile e credo che sia necessario battersi sempre di più, prima di tutto perchè il lavoro degli sceneggiatori sia pagato, a volte non è nemmeno pagato o pagato molto poco. La sceneggiatura è la base di tutto, è lo strumento su cui il film viene finanziato e spesso questo lavoro è mal pagato e non è giusto. Io penso che con un produttore all’inizio non si può andare oltre un soggetto senza esser pagati, bisogna far le cose a poco a poco per non finire a perdere il proprio tempo. Di solito si firma un’opzione con il produttore e poi nell’avanzare del progetto si possono avere dei finanziamenti per la scrittura, ma spesso in questa fase di sviluppo succede che gli autori siano poco remunerati, soprattutto al cinema. Per gli sceneggiatori la situazione è molto difficile, ci sono sceneggiatori formati alla migliore scuola francese, la Femis, che hanno difficoltà a mantenersi, addirittura ci sono autori che hanno lavorato su film che poi vanno a Cannes che non riescono a pagarsi l’affitto. Adesso iniziamo ad avere gente che si batte per riconoscere i nostri diritti, ma è un po’ deprimente.
Nel frattempo ci ha raggiunto Pengfei, il regista. Mi puoi raccontare la storia del film? Anche se ne abbiamo già un po’ parlato con Isabelle.
P: Il film parla di due tipi di persone, il primo tipo sono persone di bassa estrazione sociale che cercano di avvicinarsi il più possibile al loro ideale e al loro sogno.
Poi c’è un altro tipo di personaggio che ha la possibilità di diventare ricco vendendo il terreno dove sorge la sua casa allo stato, ma è così accecato dalla smania di arricchirsi, che alla fine diventa un ostacolo per lui, perché chiede sempre più soldi. In Cina c’è una società molto mobile e il film racconta delle persone che vivono nei sotterranei di Pechino, in case molto precarie e questi altri che aspettano di guadagnare vendendo la loro casa perchè sia distrutta per costruire nuovi immobili. Quindi c’è un rapporto tra la mobilità sociale e il concetto dell’abitare e il fatto di vivere una condizione abitativa precaria.
Cosa ti ha portato a raccontare queste storie e come si è svolto il processo di scrittura del film?
P: Io ho studiato a Parigi e quando sono tornato a Pechino ho trovato la città molto cambiata. E un mio amico viveva nei sotterranei e questa cosa mi ha molto sorpreso, non immaginavo che esistesse un mondo di gente che viveva nei sotterranei. Questo mi ha fatto venir voglia di raccontare questa realtà. Mentre sulla parte della distruzione e ricostruzione di case, non è stata la politica immobiliare in Cina a interessarmi, quanto la condizione psicologica di persone che vedevano distrutta la casa dove avevano vissuto tutta la vita e il loro desiderio di arricchirsi velocemente grazie alle indennità offerte dallo stato. Un elemento che mi interessa è come in una grande città dove le persone non si conoscono, come possono esserci storie diverse relative allo stesso argomento.
Hai pensato a un pubblico di riferimento per il film?
P: No per niente, è il mio primo film e volevo fare quello che avevo voglia, forse in un futuro al terzo o quarto film, se ci arriverò, penserò al pubblico, ma questa era l’occasione per essere libero di esprimermi.
Isabelle ci ha detto che era preoccupata che il film, soprattutto nel modo di raccontare, fosse molto cinese, dal tuo punto di vista tu hai pensato che questo film potesse essere compreso da un pubblico occidentale?
P: Non ho mai veramente pensato a fare un film cinese piuttosto che occidentale, ci sono persone di un paese che amano film di un altro paese. A me piacciono molto i film francesi e giapponesi: i francesi perchè tengo molto alla psicologia dei personaggi, anche i piccoli personaggi e i film giapponesi, soprattutto quelli di Ozu, perché sono molto interiori, non c’è molta esteriorizzazione dei sentimenti, un elemento che è sicuramente legato alla cultura giapponese. Dunque come nei film di Ozu ho cercato di fare un film semplice, dove non succede granché, ma c’è un’interiorizzazione, le cose succedono all’interno dei personaggi.
IM: Più che personaggi piccoli, direi che sono personaggi quotidiani, degli eroi del quotidiano.
Ho visto che il film è stato sviluppato con il sostegno del Torino Film Lab, puoi raccontarci come ha funzionato, a che livello di sviluppo hai portato il progetto?
P: Abbiamo discusso il progetto con i trainer, poi abbiamo fatto un pitch insieme al produttore del film davanti a un gruppo di advisor e in seguito abbiamo vinto come miglior progetto nel 2012.
Il direttore del festival Barbera ha dichiarato che ci sono troppi film low-budget e che questo porta a una cattiva qualità dei progetti, cosa ne pensi di questo?
P: Non credo che sia così, i soldi sono un mezzo, ma quello che è importante in un film sono le idee. Per esempio Fruit Chan, che è nella giuria di Orizzonti, fa dei film con sette persone che sono molto belli.
IM: Non sarebbe male avere più soldi, ma si fa quel che si può con il budget che ci danno.
P: Io ho fatto un film sulle classi sociali povere e in Cina ci sono molti film su questo argomento e spesso sono molto negativi, grigi e tristi. Mentre io parlando di questo non volevo fare un film contro la Cina, cupo, sulla condizione sociale dei cinesi, che potesse avere magari più eco come contestazione del paese. Volevo fare un film che avesse un’estetica bella, ho lavorato molto col direttore della fotografia per avere un’immagine solare, il direttore della fotografia ha avuto un premio a Taiwan, così come il responsabile del suono e il costumista, ho avuto l’opportunità di avere un’équipe tecnica di alto livello.
Anche la musica nel film è molto bella.
P: Si la musica è di un compositore francese molto bravo e poi anche il fatto di collaborare con Isabelle era un possibilità di integrare un punto di vista diverso su una storia cinese, che arricchisse il processo di scrittura. Delle volte io ho la tendenza a immergermi in un abisso e ho bisogno dell’aiuto di qualcuno per tornare alla superficie. Sono molto grato all’équipe artistica del film, formata da persone più grandi di me, da cui ho imparato molto.