Questi giorni
Questi giorni è il titolo del nuovo film di Giuseppe Piccioni. La pellicola (che sarà nelle sale italiane il 15 settembre) viene presentata giovedì 8 settembre nella sezione principale Venezia 73, terzo film italiano in concorso . La sceneggiatura è liberamente tratta dal romanzo inedito di Marta Bertini “Color betulla giovane” ed è firmata, oltre che dallo stesso Piccioni, da Pierpaolo Pirone e Chiara A. Ridolfi.
Caro Giuseppe, potresti dirmi in poche frasi di cosa parla il film?
E’ la storia di quattro ragazze, quattro amiche poco più che ventenni, che vivono in una città di provincia. Una di loro decide di raggiungere un’amica di Belgrado per stabilirsi in quella città approfittando di un’occasione di lavoro. Le altre la accompagnano in un breve viaggio in macchina, pochi giorni. Ognuna porta con sé una questione non risolta, un ostacolo particolare, non veramente condiviso con le amiche.
Questi giorni è il libero adattamento di un romanzo inedito di Marta Bertini. Come hai avuto l’opportunità di leggerlo, e cosa ti ha convinto a trarne un film?
Marta è una ragazza che aveva partecipato ad un corso di sceneggiatura che avevamo organizzato alla Libreria del Cinema. Al termine dell’esperienza si era resa conto di non essere interessata particolarmente a quel tipo di percorso, anzi si era proprio convinta che non le interessava fare la sceneggiatrice. Le sarebbe piaciuto scrivere romanzi ma non aveva idea di come avrebbe dovuto cominciare, con quale storia. Allora le feci leggere poche righe di una storia su quattro amiche e su un breve viaggio. Dopo alcuni mesi mi fece leggere il suo romanzo e così pensai di proporlo ai miei produttori, insieme ad altri spunti e soggetti.
Hai lavorato insieme a due sceneggiatori, Pierpaolo Pirone e Chiara A. Ridolfi. Come vi siete incontrati e qual è stato il vostro metodo di scrittura?
Con entrambi ci siamo incontrati in più occasioni alla Libreria del Cinema, soprattutto con Pierpaolo e Alice Roffinengo (che è la sua compagna e anche la montatrice del film) mentre Chiara l’ho conosciuta più tardi, attraverso amici comuni. Mi ha fatto leggere dei racconti che aveva scritto e così mi sono convinto a lavorare con entrambi. Non siamo rimasti fedeli al romanzo di Marta. Se non ricordo male abbiamo mantenuto i nomi dei personaggi principali ma abbiamo riscritto la storia completamente, scene, dialoghi e situazioni. Insomma il romanzo è stato un’ispirazione, uno spunto di partenza molto stimolante. Marta ha firmato con noi il soggetto.
Abbiamo scritto vedendoci tutti i giorni per un lungo periodo, poi ognuno cercava di dare il suo contributo personale proponendo scene e dialoghi scritti. Abbiamo sviluppato un’idea di storia in cui il soggetto non ci obbligasse a seguire un percorso fatto di chissà quali eventi, o giravolte dal punto di vista narrativo. Nessuna ossessione sceneggiatoria, nessuna formula premeditata, nessuna preoccupazione per fabbricare semplicemente un meccanismo funzionante. Favorendo digressioni, rinvii e un certo grado di libertà. Il film non è il viaggio anche se il viaggio ne è il cuore centrale. La nostra preoccupazione era di far convivere tre movimenti distinti: il primo è la descrizione della vita quotidiana delle ragazze prima del viaggio, in modo intermittente, frammentario e con un tono prevalentemente di commedia. In questa prima parte abbiamo tergiversato, rinviato, cercato di evitare di assecondare i precetti come quelli che impongono di arrivare al viaggio il prima possibile. In realtà il viaggio – che non volevamo affatto che fosse chissà cosa, niente di epico, nessuna situazione estrema o paesaggi troppo suggestivi – doveva essere un piccolo, breve viaggio, solo pochi giorni. E’ il nucleo centrale del film, un road movie minore, ma con un cambiamento di tono e di ritmo (grazie anche al lavoro fatto con Alice Roffinengo, la montatrice) ma doveva anche spostare l’asse emotivo del film, sorprenderci. Le scene sono più “lente” ma paradossalmente più coinvolgenti e ci sembra improvvisamente di entrare in un paesaggio interiore diverso, dove ognuna delle ragazze mette a fuoco il suo modo di stare nel mondo e i conflitti si manifestano insieme alle spensieratezze, dove anche l’esperienza sembra rimanere in superficie ma sorprenderci (mi riferisco a scene come quelle del campeggio e all’incontro con i tre ragazzi serbi). Il terzo movimento è una sorta di mèlo, con pochissimi dialoghi. Anche la musica, episodica nella prima parte, è più presente nel finale. Insomma il film non asseconda alcune regole del racconto ma ricorre a frequenti digressioni, dove le trame vengono interrotte. Pian piano ci accorgiamo che il paesaggio emotivo del film è cambiato, nei ritmi, nel taglio delle inquadrature, nel ritmo delle sequenze, e nasconde, quello che speriamo, un’intenzione più profonda. Anche la messa in scena cambia, con poche inquadrature, meno tagli e, una maggiore attenzione nella composizione dell’immagine e nella durata.
Uno dei temi centrali del tuo cinema è certamente il rapporto tra uomo e donna, basti pensare a Luce dei miei occhi (2001) o a La vita che vorrei (2004). Ma, considerando il tuo film precedente Il rosso e il blu (2012) e ancor più questo ultimo, sembra che ora ti interessino di più l’adolescenza e la prima giovinezza. E’ così?
Forse sì, ma non so dirti in che direzione mi piacerebbe procedere d’ora in poi. So che con questo film volevo rimettermi in contatto con quella specie di energia fatta di aspettative verso il futuro, ma anche di incompletezza. L’ho detto in un’altra intervista citando la poesia di Ada Negri Mia giovinezza. L’inizio: “Non ti ho perduta. Sei rimasta in fondo all’essere…”. La scena dei lumini nel finale lascia pensare a una dimensione temporale dove passato e presente sono vicinissimi e le esperienze si consumano in un battito di ciglia, in una sorta di dormiveglia, o forse in una successione di “risvegli”. Abbiamo cercato di fuggire l’attualità e i richiami generazionali, ancora di più di aggirare il rischio di tematizzare in maniera invadente la storia. Ci siamo impegnati a fare in modo che il film corresse in parte questo rischio, nella prima parte. Ma seminando qua e là qualche dubbio (nei ritratti del gruppo di ragazze). Più il film va avanti e maggiormente si modifica anche la messa in scena.
Quattro ragazze e un breve viaggio che probabilmente cambierà il corso delle loro vite. Sono femminili la speranza e la certezza di trovare qualcosa, qualcuno con cui vivere ed essere felici altrove?
Francamente non lo so, non ho la risposta. Non so nemmeno se è il viaggio che cambia il corso delle loro vite. Mi sembra una formula giornalistica, un po’ convenzionale. Forse è semplicemente la vita stessa a cambiare con o senza viaggio. Però nel viaggio i personaggi mettono maggiormente a fuoco le problematiche che li riguardano, sono più consapevoli, più liberi, non sono assediati dalla quotidianità. Prendono decisioni su quello che hanno lasciato alle spalle, hanno più coraggio, più forza.
Il film è ambientato in parte in provincia. La provincia è un avamposto poetico, il luogo in cui è possibile sognare e immaginare assai di più che in una grande città, dove la vita è tutta ora e adesso? Cosa c’entra la provincia con la poesia e la fantasia?
Ho vissuto in una città di provinca (Ascoli Piceno) fino a vent’anni. In quel periodo, nonostante non ci fosse internet e il contatto continuo con i fatti del mondo, mi sembra di poter dire che il richiamo verso un altrove fosse più forte, favorito forse proprio da quella specie di nulla che ci circondava. Il nulla era proprio fonte di insoddisfazione, di desiderio, era quello il motore che ci spingeva a migliorare, a desiderare una vita diversa. Non c’erano iniziative culturali, alternative di qualche tipo, corsi di sceneggiatura o di ceramica. C’erano la scuola, la chiesa, la strada, i film e qualche libro.
Il tuo è un cinema di immagini ma anche di poesia, a tratti lieve, stordita e struggente, e i tuoi personaggi sono molto costruiti attraverso le parole che usano.
Cosa c’entra la parola con il tuo film? Quanto conta per te la lingua che usi per scrivere la sceneggiatura?
Sì, è vero. Mi piacciono i dialoghi e un tipo di scrittura dove la parola, in alcune occasioni, è parola scritta, non derivata dal linguaggio del quotidiano. Mi piace proporre, nei dialoghi, non sempre, un piccolo scarto dalla realtà. Per fare un esempio: “…non mi batte il cuore quando ti vedo, non mi sento perduta quando te ne vai…” (Luce dei miei occhi)”, oppure, come in questo film (Questi giorni): “ la bellezza dei tuoi ragionamenti, le spine che hai nel cuore, il tuo desiderio di non scegliere mai la strada più facile…” etc… Cerco di fare in modo che la scrittura si avverta ma spetta all’attore renderla dicibile, contenerla.
Sembra che il film sia pervaso da un malinconico e dolce sentimento di nostalgia per ciò che non si è vissuto e forse mai si vivrà, è così? Ti senti più ottimista o deluso nel tuo momento artistico e umano?
Oh, vuoi che sia sincero, che mi apra? Però non mi sembra che ci sia della nostalgia nel film, non lo so. I registi, almeno alcuni tra quelli che conosco, non sono mai soddisfatti. Si sentono incompresi, non completamente capiti, sempre lì a misurare qual è il loro vero valore, continuamente esposti al giudizio, alla chiacchiera, al gossip, qualche volta alla semplice cattiveria…
Mi sembra di aver fatto poco. E di non avere tutto il tempo che vorrei davanti a me. Come tutti, anche in questo lavoro, hai bisogno di stimarti, di pensare che possa esserci qualcuno che segue il tuo lavoro, che ti rispetta. Pensi che hai lasciato qualcosa, di aver lasciato un piccolo segno, che c’è qualcuno, che attraverso il tuo lavoro, è entrato in una specie di intimità col tuo mondo. E poi adesso mi piacerebbe riuscire a trovare il modo e la libertà di fare qualcosa di completamente diverso da quello che ho fatto finora. Ma non mi piace la solitudine appartata, la coerenza esasperata, vorrei riuscire sempre a fare un film come si scrive una canzone, personale, ma che entrasse a far parte della vita di altre persone, illudendomi un po’ di essere degno della loro attenzione.
Due parole sul personaggio “adulto” della madre di una delle ragazze, interpretato da Margherita Buy.
Ci siamo divertiti, lei era in uno stato di grazia, ha affrontato questo ruolo con leggerezza, una serenità che mi ha sorpreso. Il personaggio è uscito fuori con una certa facilità, senza cavalcare uno stereotipo. E’ una madre che vuole sentirsi giovane, una donna matura che vuole ancora piacere, in difficoltà se si tratta di gestire il rapporto con la figlia, incapace di sostenere con lei il ruolo di madre anche per quello che riguarda l’amministrazione della casa.
Ma anche qui senza insistenze, senza calcare troppo la mano. Una madre che a un certo punto del racconto decide di recuperare l’autorità del ruolo, di cambiare. Ma dovevamo dire tutto questo in poche scene e Margherita ha questo dono di rendere tutto semplice. Non dà mai l’impressione di voler strafare, non si mette lì con l’aria della grande attrice ossessionata dalla performance. Credo che la sua partecipazione al film sia un bel regalo per me.
Parlami delle ragazze. Come le hai scelte?
Le ragazze sono il film con il loro impegno, l’entusiasmo, la dedizione che hanno messo. Con Massimo Appolloni, il mio casting director, abbiamo lavorato moltissimo per trovarle e sceglierle. Sono molto soddisfatto della scelta. Sul set sapevo che ogni giornata sarebbe stata rallegrata dalla loro presenza e la fatica alleviata. Sono state bravissime e, per certi versi, immaginavo che forse un po’ si trovavano nel tipo di lavoro che avrebbero voluto fare. Insomma qualcosa che avesse un senso, una fatica dura ma proficua, preziosa. Soprattutto per loro che sono agli inizi.
Il tuo cinema ti somiglia. Quanta empatia hai con i tuoi personaggi? In che cosa ti senti come loro e in cosa, al contrario, sei profondamente diverso?
Mi piace che ci sia un qualche punto di contatto tra l’attore e il personaggio in modo che anche il suo lavoro sia riconoscibile. Mi piace riconoscermi nei personaggi ma anche per aspetti che non immaginavo di poter trovare. Quando lavoro sul set con un attore cerco di trovare una verità che non è quella che immediatamente corrisponde all’idea che mi ero fatto. Che ne so? nel modo di dire una battuta, nel sentirmi anch’io spettatore ed essere sorpreso. Ecco, è quello che cerco, penso sempre che ci può essere un modo diverso. Anche nella scrittura, abbiamo cercato di fare un film non del tutto prevedibile, irregolare anche. C’era in noi un desiderio di non mettere tutte le caselle al loro posto. Io sono un po’ nascosto in certe parole che vengono dette, in alcune situazioni e scene. E’ il film che spero mi somigli. Che ci sia un qualche legame di continuità e qualche elemento di riconoscibilità rispetto alle cose che ho fatto precedentemente. Quella forse può essere la mia maggiore soddisfazione: cambiare e conservare il mio tratto. Cerco di evitare che il film sia sovraffollato di dettagli, informazioni, impalcature estetiche. Mi interessano i movimenti emotivi, interiori dei personaggi. La trama è una stampella necessaria ma mai troppo invasiva. Almeno fin’ora…
Ho letto che Questi giorni è una commedia e che è anche drammatico. Secondo te appartiene a un genere specifico? O i generi sono categorie asfittiche e superate mentre i film si dividono soltanto in buoni film e cattivi film?
Beh ci sono film che si rifanno in maniera più “ortodossa” ai generi. Ma credo anche che sia una definizione non una strada obbligata.
Tra pochi mesi dovrebbe essere votata in Parlamento la nuova legge cinema, secondo la quale la parte più rilevante dei finanziamenti di sostegno alla produzione – circa l’80% – va ridistribuita tra coloro che hanno incassato di più nel corso dell’anno precedente. Cosa ne pensi?
Penso che bisognerebbe correggerla, incoraggiare le produzioni indipendenti, i progetti migliori e non solo quelli che in qualche modo hanno già una posizione di preminenza sul mercato.
Mi sembra semplice come una banalità.
Grazie di cuore Giuseppe e in bocca al lupo a te e a Questi giorni.