Dove cadono le ombre
Francesca Manieri ha co-sceneggiato con la regista Valentina Pedicini il lungometraggio Dove cadono le ombre presentato in concorso alle Giornate degli Autori nell’ambito della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Francesca, iniziamo con un breve pitch del film.
Questa è la storia di una giovane infermiera che è rimasta intrappolata in un luogo, che nel tempo ha cambiato destinazione, da clinica di riabilitazione svizzera per bambini Jenish (popolazione nomade europea ndr) in un periodo precedente, a clinica per gli anziani nel momento in cui parte la storia. In questo luogo torna come ospite proprio l’aguzzina che una volta dirigeva l’orfanotrofio con funzioni di eugenetica, dove l’infermiera era stata segregata da bambina. L’ex direttrice rimane comunque per la giovane come un surrogato di madre, ma il nuovo incontro, dopo tanti anni, porterà la ragazza alla rielaborazione di quel trauma e quindi, finalmente, all’occasione di liberarsi del passato.
È una storia complessa, come vi siete approcciati al materiale d’archivio e ai romanzi di Mariella Mehr?
È stato un lavoro molto lungo, soprattutto per Valentina Pedicini che parte come documentarista anche se come tale può essere considerata in un certo senso anomala e che veniva da una lunga relazione di studio con Mariella Mehr, poetessa sopravvissuta al progetto di eugenetica sui bimbi Jenish: cinque anni di materiale filmato e di interviste.
Un giorno Valentina venne da me e leggemmo i romanzi di Mariella soprattutto Il Marchio e io le dissi che non sapevo come trattare quel materiale narrativo: era troppo violento, troppo incandescente, bisognava trovare una chiave giusta.
A quel punto siamo andate in cerca dei materiali d’archivio, con non poche difficoltà, dato che la Svizzera ha desecretato le cartelle cliniche di quell’orfanotrofio, ma ne ha permesso la consultazione soltanto alle persone di origine Jenish, delle quali nessuna, oltre a tutto, si era presentata fino ad allora per farne richiesta. Fare un lavoro su questo materiale è stato molto difficile: abbiamo letto le opere di Alfred Siegfried che è stato l’ispiratore di questa opera di eugenetica con il libro Kinder der Landstrasse che ha dato il nome all’operazione reale e siamo partite da lì. Ma non potevamo rimanere intrappolate nella storia vera, Abbiamo cercato, quindi, un archetipo narrativo che potesse trasformare il materiale reale in un materiale di finzione e quindi ho proposto due modelli drammaturgici adoperati in due film precedenti e cioè Il portiere di notte e La morte e la fanciulla. Due modi di trasfigurare l’evento della persecuzione in un paradigma quasi teatrale, in cui fossero molto forti le radici di quella tragedia.
Dopo un anno torni di nuovo a Venezia: dopo l’esperienza del corto “Era ieri”, come è stato il passaggio al lungometraggio e come è il rapporto con Valentina Pedicini?
Il passaggio dal corto al lungometraggio è un’esperienza che ho già vissuto con un’altra regista a cui sono molto affezionata che è Laura Bispuri. Con lei abbiamo cominciato con la sceneggiatura di un lungo che però non siamo riuscite a concludere. Così abbiamo deciso di fare un corto ed è venuto fuori Passing Time. Da lì abbiamo scritto Vergine giurata.
Più o meno, con Valentina c’è stato lo stesso percorso: lei è un’artista documentaria ma che tende ad un impianto molto trasfigurativo nelle sue storie, quindi abbiamo fatto un passaggio intermedio con un cortometraggio e poi siamo tornate a lavorare sul materiale cosi difficile di questo film, il confronto principale è stato l’ideazione del progetto. Valentina per me è la regista ideale con cui scrivere, lascia molto spazio. Abbiamo fatto un duro lavoro iniziale anche se continuava a mancare qualcosa, finché abbiamo trovato la chiave nell’incontro tra un personaggio anziano e uno giovane: abbiamo visto che tutti i significati acquistavano una forma narrativa, in una storia più semplice ed efficace, in una drammaturgia che a me sembra perfetta per raccontare queste storie, quei film che restano impressi in qualche modo, perché raccontano le strutture profonde delle relazioni interpersonali. Io credo che i film debbano raccontare le informazioni, con tutto il lavoro documentario, ma – cosa più importante – devono descrivere i significati più profondi che riguardano queste stesse vicende trattate.
Un tema molto importante è quello dell’infanzia, una corda che lanciate tra Era ieri e Dove cadono le ombre. Un’infanzia che è a metà tra silenzio e ribellione, c’è qualcosa che ti spinge a scrivere dell’infanzia?
Io credo, e lo ritrovo scritto pure in quello che scrivo, che siamo sempre i bambini che siamo stati. Per me in scrittura questa fase è fondamentale: io torno sempre all’infanzia nei miei personaggi, sono convinta che il fatal flaw o i problemi dei miei personaggi vadano ricercati nell’infanzia. Crescendo il bambino subisce delle fratture, secondo me sono la sorgente essenziale di quel personaggio.
Una scena che ti è piaciuta particolarmente scrivere di questo film?
Ce ne sono tante, soprattutto quelle tra l’infermiera e Gertrud, l’ex aguzzina. Sicuramente mi è piaciuto molto la scena delle vasche che è molto visuale, che poi il lavoro più importante per me è quello di essere non solo visuale ma di riuscirea visualizzare allo stesso modo del regista.
Secondo me uno sceneggiatore deve scrivere per come vedono gli altri, soprattutto per una regista come Valentina che ha un forte impatto visivo.
Barbera nel discorso inaugurale della Mostra di Venezia ha parlato del futuro del cinema: cosa ne pensi della VR, che sicuramente è una delle strade più innovative?
Purtroppo è un argomento su cui non ho un’idea chiara, preferirei non rispondere.
Questa intervista WGI è stata pubblicata anche su Anonima Cinefili