Scrittori a VeneziaWriters

Arianna

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
Carlo Salsa ha scritto con Chiara Barzini e il regista Carlo Lavagna la sceneggiatura di Arianna. Il film viene presentato in concorso nella sezione Giornate degli autori, oggi, 4 settembre alle 17 in Sala Perla.

Carlo, innanzitutto ti chiedo una presentazione del film, ce ne racconti la storia?

Il film parla di una ragazza di 19 anni che sente che delle cose nella sua vita non funzionano. E sono delle cose legate alla sua sessualità. Innanzitutto non ha ancora avuto il ciclo e le è sempre stato raccontato dai suoi genitori che ha una disfunzione ormonale per cui lei continua a prendere ormoni; questa è la motivazione che le hanno dato di questa sua amenorrea. Non ha quindi uno sviluppo normale ed è un po’ ossessionata dalla sua immagine femminile, vorrebbe un seno più grande, mentre questi seni acerbi che le nascono sono il risultato degli ormoni che prende.

Quindi sente che ci sono delle cose che non tornano, ma soprattutto, quello che sarà poi l’elemento scatenante, non riesce a fare l’amore, le fa molto male affrontare la penetrazione. Arianna decide di passare l’estate da sola nella casa di vacanza di famiglia sul lago di Bolsena, dove è ambientata la maggior parte del film.

E questo è un caso in cui i limiti produttivi sono diventati un’opportunità per essere più a fuoco sulla narrazione. Questa casa sul lago è il luogo dove Arianna ha passato la sua infanzia fino ai 3 anni e il tornare in questa casa accresce l’urgenza delle sue domande. Come se sentisse che in questa casa lei era qualcosa di diverso rispetto a quello che è adesso.

In questa casa attraverso l’incontro con una cugina più piccola di qualche anno, che in passato ha sempre visto Arianna come un modello, la protagonista si confronta con la sua nemesi, poichè la cuginetta di 16 anni adesso,a differenza di lei, è una donna: ha un seno procace, fa sesso, è maliziosa. Quindi la convergenza di questi elementi portano Arianna ad affrontare l’avventura che non ha mai avuto il coraggio di tentare, cioè fare l’amore con un ragazzo. E quando questo accade l’esperienza è assolutamente fallimentare e questo la porta a fare una ricerca su di sé, una ricerca che è sia clinica, che intima, in cui Arianna scoprirà una verità che fino ad ora le è stata tenuta nascosta.

Te lo posso anche rivelare da adesso, tanto non si tratta di un film di suspance ed è anzi un elemento che è alla base del film e di cui si è già parlato altrove, dicendo apertamente che il film parla di intersessualità. La protagonista del film ha una sindrome che si chiama cinque alfa riduttasi, che si manifesta nei maschi e inibisce l’elaborazione del testosterone. Queste persone nascono con un apparato sessuale maschile, che però non si svilupperà mai. Quindi se per la natura dovrebbero restare in questa via di mezzo, per la società invece questa ambiguità è intollerabile e, come spesso è avvenuto nella realtà soprattutto in passato, Arianna viene operata in giovanissima età, sostanzialmente è evirata, trasformata, almeno superficialmente, in una femmina: per tutta la vita prende un trattamento di ormoni femminili ed è cresciuta a tutti gli effetti come una bambina.

Quindi noi ci siamo immaginati l’esperienza di queste persone che possono trascorrere i primi 15 anni di vita sereni, con una presunzione e un’illusione di normalità che si spezzerà traumaticamente con la fase dello sviluppo sessuale. Anche perché questo apparato sessuale chirurgico non funziona con normalità e appunto affrontare il sesso per queste persone è spesso molto doloroso proprio a livello fisico e soprattutto, poiché il pene è stato rimosso, non hanno alcuna possibilità di provare piacere sessuale, non potendo mai fare l’esperienza di un orgasmo. Nella realtà il fallimento di questo tipo di approccio clinico è dimostrato dal fatto che una buona parte delle persone con questa sindrome si suicida in età adulta. Chiaro che è una situazione in cui non esiste una scelta facile o una scelta giusta, però diciamo che nella nostra storia, come in molti casi reali, la scelta viene imposta quando la persona non è in grado nemmeno di comprendere le proprie condizioni: e questo naturalmente ha dei ricaschi.

Cosa volevi raccontare attraverso questa storia?

La log line del film è “Sono nato due volte, anzi tre” ed è proprio questa sensazione; il film non è un film clinico, ma è un percorso di interrogazione sull’identità e su quanto spesso l’autentica identità dell’individuo non corrisponde all’identità che viene richiesta dalla società e su come questo sfalsamento, questo cortocircuito crei poi delle grosse problematiche. Quindi quando Arianna nasce la terza volta, cioè quando prende consapevolezza della sua condizione, lei si potrà finalmente avvicinare alla comprensione di se stessa e anche avvicinarsi a qualcosa che può essere definito felicità, mentre finché si vive nella menzogna questo è impossibile. Il film in fondo è un coming of age in cui penso che tutti possano riconoscersi nella presa di consapevolezza di sé. Diciamo che il percorso che facciamo tutti noi, di scoprire chi siamo veramente, qui è fisicizzato ed esasperato, ma il percorso interiore è simile a quello di qualsiasi individuo. Ma il film non è un film settario, anzi per noi l’empatia e l’immedesimazione col personaggio è fondamentale: la paura di fare l’amore penso sia una sensazione comune a tutti, in cui i ragazzi di quell’età possono ritrovarsi. Arianna ha solo un problema maggiore degli altri, ma non diverso. penso che la tematica sia abbastanza universale.

Come è nata l’idea del film? Come siete arrivati a scegliere questa storia?

L’idea viene da Carlo Lavagna, il regista, lui dice che ha fatto un sogno da bambino in cui si era sognato femmina e questo l’ha portato a interrogarsi su cosa sarebbe successo se fosse stato femmina. Poi ha iniziato a lavorare a un documentario proprio sugli intersessuali, molti anni fa, 8 anni fa ormai. E poi si è interrotto perché ha voluto farne un film. Noi ci siamo incontrati nel 2009 e abbiamo cominciato a immaginare questo film insieme e il film è stato riscritto milioni di volte, ma non sono delle stesure, ma milioni di storie diverse. In una la storia aveva un arco di vent’anni, adesso invece dura un mese, prima si svolgeva in tanti luoghi… insomma è cambiato e ogni volta era un film diverso e c’è stato un progressivo avvicinamento a quello che è il film adesso. Di fatto non ci sono 10 stesure, ma 10 prime stesure.

E quando avete saputo di aver trovato la versione giusta?

Non l’abbiamo mai saputo. Nel senso che il film ha preso il finanziamento del MIBAC con una stesura, con quei 250.000 euro pensavamo di fare un quarto del budget e invece poi è diventato la maggior parte del budget. Quindi abbiamo abbassato il budget, soprattutto per avere la libertà di fare il film che volevamo, nei modi che volevamo. Quindi ci siamo trovati alla fine a dover scrivere il film in fretta, per non perdere il finanziamento. E’ entrata anche un’altra sceneggiatrice, Chiara Barzini e con lei abbiamo scritto la versione definitiva, quasi partendo da capo. Il film quindi è stato scritto 2 mesi prima delle riprese… ma non è finita neanche lì. Perchè il processo di scrittura, soprattutto in termini di scene, è continuato durante tutta la fase di riprese. Io sono stato sul set tutto il tempo e continuavamo a riscrivere le scene un giorno per l’altro. Quindi la vera sceneggiatura definitiva dopo sei anni di lavoro, io l’ho avuta alla fine delle riprese, riattaccando tutti i pezzi. Anche il finale del film è stato immaginato sul set. Dei personaggi, come quello di Corrado Sassi che ha il ruolo di Arduino, all’inizio aveva due battute, mentre adesso è uno dei personaggi chiave del film.

Quindi avete potuto avere molta libertà anche con la produzione?

Si certo… non so se mi ricapiterà mai, spero che ricapiti: il lavoro con Tommaso Bertani e la Ring Film è stato davvero speciale. Il film è stato costruito senza avere divisioni tra regia, scrittura e produzione. Tommaso, il produttore, era accanto a me mentre riscrivevo le scene, era insieme a me e al regista quando ne discutevamo la sera e il giorno dopo era lì a lavorare sul set per il film come tutti noi.

Quanto tempo avete girato?

Abbiamo girato sei settimane, con metà di queste a sei giorni. Il vantaggio è stato quello di avere principalmente un’unica location. In questa casa dove giravamo, dormiva anche la troupe, quindi c’erano anche le condizioni per avere molta flessibilità e cambiare le cose giorno per giorno, facendo naturalmente impazzire l’aiuto regista. Il film ovviamente è stato anche girato il più possibile in sequenza e quindi anche l’attrice protagonista Ondina Quadri, non è mai uscita da quella casa per un mese ed è cresciuta con il suo personaggio Arianna.

La collaborazione di scrittura fra voi tre autori ha funzionato proprio come una coralità?

Sì, noi il film lo abbiamo portato avanti per molto tempo e Chiara è entrata nella fase finale, collaborando alla stesura definitiva e alla stesura di preparazione prima di girare.

Chiara, con cui già avevo lavorato, ha avuto il merito di portare uno sguardo femminile sul film. Che in una storia del genere, anzi sul “genere”, era fondamentale; poi io sono stato sul set a riscrivere.

E anche al montaggio eri presente?

No, ma Carlo è una persona che tiene molto alla condivisione, quindi il film è stato visto varie volte nelle sue diverse fasi di post-produzione. Quindi ognuno di noi ha dato il suo contributo su dove si dovesse intervenire. Mentre è stato molto lungo il lavoro di scrittura, il montaggio è stato abbastanza rapido. Evidentemente Carlo aveva le idee chiare su quello che voleva.

Quindi alla fine anche il linguaggio del film è stato influenzato da questa modalità produttiva?

Certo, molte scene sono state approcciate nello stesso modo. Per due settimane prima di girare abbiamo fatto delle prove, soprattutto per le scene tra le due cugine. Scrivevamo la scena e poi la davamo loro in lettura. Poi cominciavano a recitare, improvvisando su quel canovaccio. Tutta questa prova veniva ripresa e io poi adattavo il dialogo, perchè quelle parole scritte da me trentenne, diventassero effettivamente delle parole dette da una quindicenne e da una diciottenne. E alla fine di queste improvvisazioni riscrivevo la scena, prendendo il meglio di quello che arrivava dalle attrici. La scena finale che poi giravamo era abbastanza fedele a quella scritta, ma per fare questo si è fatto in qualche modo scrivere una parte della scena a loro. C’è quindi un processo di uscita e rientro nella pagina. Anche perchè l’intento era quello di fare un film che non parlasse direttamente del tema, ma che ci arrivasse per osmosi, che lo sfiorasse continuamente, senza fare un discorso troppo esplicito. Quindi era importante scegliere le cose giuste: se si esplicitavano troppo le cose risultava didascalico, se non si esplicitavano per niente sembrava un film criptico che non ci interessava fare. Quindi utilizzare tutti i mezzi possibili di espressione e lavorare sulla spontaneità e il realismo del dialogo è stata una strategia che ha funzionato. Anche Carlo ha sempre cercato di evitare tutto quello che risultava scritto e finto, per adagiare la narrazione sul mezzo recitativo, con un effetto di grande naturalezza.

Di solito anche quando c’è un lavoro di questo tipo è raro che lo sceneggiatore sia coinvolto e presente sul set.

Sì. io non credo che sia una regola generale, ma in questo caso per l’iter produttivo e anche creativo che ha avuto il film è stata una buona metodologia. Anche grazie alla complicità che c’è tra me, Carlo e Tommaso, che ha permesso di arrivare a questo risultato. Io temo che un’esperienza di questo tipo non mi ricapiterà, non troverò un santo come Carlo che mi sopporta sul set. L’importante alla fine è rispettare i ruoli… io ero lì per dare il mio contributo.

Avete pensato a un pubblico di riferimento o ideale per il film?

Non tanto, certo c’è un desiderio che il film possa piacere agli adolescenti. C’è anche una struttura classica, in cui dopo il primo atto in cui ci sono i genitori, Arianna rimane sola in questa casa e la casa si riempie di ragazzini. E’ la prima estate in cui si fanno le vacanze da soli e si fanno delle scoperte e su questo credo ci possa essere un’identificazione. Poi anche lo stile visivo del film ha dato una patina di favola al racconto, dove è tutto un po’ sospeso, come un piccolo sogno e anche il finale allude a un non realismo della storia. Il mio augurio è che il film possa piacere a dei ragazzi dell’età di Arianna, anche se non era quello il pensiero iniziale. Il lavoro di Carlo ha lasciato prendere piede ai ragazzi: è come se in questo processo di continua messa in discussione di quello che doveva succedere, i ragazzi alla fine hanno avuto la meglio.

Cosa ne pensi della dichiarazione di Alberto Barbera che il low budget non aiuta la creatività?

Ma nel nostro caso non è tanto vero, anzi. Diciamo che tutte le cose che abbiamo detto prima se ci fossero stati più soldi non sarebbero state possibili, forse. Ma d’altra parte è pure vero che se ci fossero più soldi sarebbe possibile per tutti campare un po’ meglio e non doversi arrabattare tra mille lavoretti. In questo caso il low budget ha funzionato, anche se poi il low budget è tosto. Il problema principale è che poi questi film vengano visti e tornare a pensare che fare film sia un investimento a guadagnare e non a perdere. Io credo che sarebbe meglio se ci fossero più soldi, ma l’importante è avere una storia da raccontare, se uno ha una storia da raccontare poi riesce a farlo anche con meno soldi.

E a proposito della distribuzione e della circolazione delle opere cosa ne pensi delle nuove tecnologie e per esempio dell’avvento di Netflix che porta il cinema on-line?

Nel nostro caso la distribuzione sarà curata dall’Istituto Luce e in accordo con quello che faranno loro so che l’intento di Carlo Lavagna è di portare il film, di accompagnarlo in una sorta di tournée, potendo fare presentazioni e proiezioni incontrando il pubblico. Stiamo cercando di creare dei rapporti con la società civile, con le istituzioni e soprattutto con le scuole, perché questo tipo di film sarebbe un’occasione di confronto su temi importanti per i ragazzi. Insomma l’idea è di non fermarsi all’uscita in sala, ma di occuparsi del fatto che il film possa essere visto.

E’ interessante questa idea che ripropone per il cinema quello che è un po’ accaduto con la musica. Si temeva che il web potesse uccidere l’industria musicale invece ha rilanciato l’esperienza del concerto e della fruizione dal vivo. Col cinema è certamente diverso, ma la sala cinematografica torna a essere un luogo di confronto collettivo.

Secondo me sarebbe bello, il film è un evento collettivo, riunisce le persone in una sala. La cosa bella è vederlo insieme e confrontarsi, ancora meglio se con gli autori presenti. Riuscire a portare anche solo venti persone in una sala a vedere la stessa cosa, per me fa parte della magia del cinema, questa forma di condivisione di un’esperienza è fondamentale.

A parte l’esperienza di Arianna, che da un punto di vista di lavoro se non di guadagno è stata fortunata, come la vivi la condizione di giovane sceneggiatore?

Eh… insomma la vivo che è tosta! Perché, per esempio, c’è questo altro film che ho scritto Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, che amo molto e che ha recentemente avuto una menzione speciale al festival di Karlovi Vari. So che ora tanti altri festival prestigiosi l’hanno invitato e la cosa mi rende molto felice, ma quello che davvero aspetto con ansia, è che possa vederlo il pubblico. Perché il vero crimine è che uno fa tutto sto lavoro e il film non esce, o o esce per sparire un secondo dopo, senza che nessuno se ne sia accorto. Quello è peccato. La capacità di tolleranza economica è secondo me direttamente proporzionale alla possibilità di far vedere le cose che fai. E anche farsi dire che fa schifo, ma almeno uno l’ha visto…

Nel tuo ruolo di sceneggiatore tu ti sei sentito tutelato o hai avuto delle brutte esperienze? Lo ritieni utile battersi per restituire importanza al ruolo dello sceneggiatore?

Mi rendo conto che non c’è una tutela adeguata del nostro lavoro, ma non mi pare di aver avuto fregature e non mi sono mai impegnato in associazioni per cambiare le cose e sono molto disinformato, quindi cerco di non lamentarmi più di tanto. Per quanto riguarda l’importanza del nostro lavoro ritengo giusto che se ne parli, che si sappia che un film è una storia e quella storia è creata dallo sceneggiatore. Poi a livello generale ritengo giusto che il film sia del regista, che è la persona responsabile un po’ di tutto. Molto spesso lo sceneggiatore è visto anche solo come dialoghista, mentre appunto ci si scorda che è la storia ad essere sua. Un film può essere anche muto, ma va comunque sceneggiato.

L’intervista è a cura di Fosca Gallesio

Scrittori a Venezia – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72. Mostra internazionale d’Arte Cinematografica (2-12 settembre 2015).
Le foto dei film sono state messe cortesemente a disposizione della stampa dal sito della Mostra biennale.org e dal sito di Istituto Luce – Cinecittà filmitalia.org. a cui vanno i  nostri ringraziamenti.
Le foto degli sceneggiatori sono invece di loro proprietà: grazie anche a loro.

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