Pecore in erba
Cara Benedetta, la comunicazione su Pecore in erba tende più a sollevare curiosità che a informare sulla storia. Ora che il film è approdato a Venezia, puoi raccontarci la vicenda con la sintesi di un pitch?
Il film è un mocumentario – finto documentario – su Leonardo, un ragazzo scomparso. Chi ha fatto parte della sua vita racconta il suo passato e l’impatto che ha avuto sulla società. È la storia paradossale della crescita di un eroe “negativo”, adorato dalle folle ma sempre un po’ frainteso, e che fin dall’infanzia è portato a non rifiutare questa sua negatività, grazie anche all’ambiente in cui cresce. E’ anche una sorta di gioco di specchi dove i media si riflettono l’uno con l’altro.
Perché questo titolo: cosa c’entrano le pecore?
La scelta del titolo “Pecore in erba” è legato a quello che in inglese verrebbe chiamato un “Easter egg”, un piccolo segreto, una citazione interna al film, un gioco di parole. Il titolo è sicuramente particolare, ne abbiamo discusso più volte, ma ci è sempre parso efficace anche per il doppio senso (voluto fin dall’inizio) che fa trapelare una delle idee alla base del film: la pericolosità dei pregiudizi della massa, di chi si muove come le pecore (“l’istinto del gregge”), che a volte può portare alle situazioni peggiori con le intenzioni migliori.
Il soggetto di Pecore in erba è di Alberto, tu sei stata coinvolta nella sceneggiatura. Come sono andate le cose, perché Alberto si è rivolto a te, il tuo apporto è servito anche a modificare un po’ il soggetto, come vi siete divisi la scrittura?
Ho conosciuto Alberto nel 2011 e da allora si è creata una sinergia e sintonia unica. Abbiamo scritto giornalmente da allora, con scambi continui, condivisione di input in un vissuto comune, sviluppando sfumature e dinamiche a quattro mani, in costante evoluzione dentro e fuori le pagine, anche su altre idee. Questo progetto, emerso più recentemente, è un’idea che Alberto covava da tempo e che ha scritto con la velocità e chiarezza di chi sa quello che vuole e che mi ha presentato cercando una cassa di risonanza, ma soprattutto un confronto. Abbiamo un background, culturale e personale, molto simile per quello che riguarda le tematiche del film ma abbiamo unito i nostri metodi di lavoro e humor diversi e complementari e ci siamo sempre confrontati anche con opinioni diverse dalle nostre. Con “Pecore in erba”, ho cercato di sviluppare l’idea originaria, dipanandola nella sua struttura, facendo cioè il lavoro di development: un misto di maieutica, scrittura e feedback autentici, empatia, guardando a turno gli aspetti macro e micro della trama e delle scene.
Come sceneggiatori siamo sempre interessati a verificare la tenuta del copione durante le riprese. Che cosa è accaduto in questo caso? Il prodotto finale è diverso dalla sceneggiatura?
No, grazie alla vera comprensione del senso del progetto dei produttori Luigi e Olivia Musini non si è distaccata di molto dalla versione originale. Dato che la mia formazione universitaria (NYU) e lavorativa è avvenuta in America devo dire che ho imparato ad apprezzare quando la scrittura si scontra con la tecnica e la produzione, sempre che non si tradisca il cuore di un’idea. Amo quando una sceneggiatura cambia forma, si trasforma nel confronto attivo con gli aspetti concreti della realizzazione. In questo caso, sono stata molto contenta che i pochi cambiamenti siano stati solo scelte che hanno arricchito il film.
Un quartiere romano, una vicenda che ruota attorno alla sparizione di un ragazzo, un intreccio che rivela le relazioni familiari e sociali. Pecore in erba è senza dubbio una commedia. Ma c’è un genere particolare in cui vorresti inserirla? Commedia all’italiana, commedia intimista, commedia sociale…
Direi una commedia satirica, che però si tiene lontana dalla satira ideologica, e rende omaggio anche al cinema italiano. Gli attori coinvolti, grandi nomi del cinema italiano, hanno aggiunto alla dimensione del mocumentario così come i personaggi della TV, dei giornali, del cinema che siamo riusciti a coinvolgere, o gli intellettuali intervistati che rappresentano ognuno il proprio ruolo e, più ancora, un genere mediatico. Speriamo che la forza del film venga dal rappresentare qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a generi più tradizionali.
Nella comunicazione sul film si è parlato del tema centrale del film, come di una denuncia dell’anti-semitismo in chiave ironica, quasi dissacratoria. Puoi parlarcene meglio? In che modo e in che misura l’esigenza morale è diventata esigenza narrativa?
In varie fasi del lavoro abbiamo spesso usato come riferimenti Sacha Baron Cohen, i Monty Python, lo humor sovversivo dei fratelli Coen. Ovviamente questi sono esempi “alti”, ideali, che hanno tuttavia influenzato la costruzione di una realtà vagamente distopica, ma non così diversa dai suoi aspetti peggiori, per chi ha occhi per vedere. Tutti gli atteggiamenti antisemiti descritti nel film sono versioni sfumate del reale; sono fenomeni che attraversano tutto lo spettro politico o le esperienze vissute da tanti ebrei europei dei nostri giorni, o da minoranze vittime delle mille sfaccettature di un pregiudizio. Si possono scrivere articoli o fare interventi per contestualizzare ogni stereotipo, si possono mettere gruppi a confronto o volgere in racconto teorie astratte, ma la cosa che più mi ha attratto nel collaborare a questo progetto era che l’intuizione di Alberto consentiva finalmente di affrontare un tema così delicato da una prospettiva più alta, acuta e narrativa, libera da catene.
Il ragazzo che sparisce è un trentenne molto intraprendente e attivo, fumettista e comunicatore, attivista per i diritti civili… Ti facciamo una domanda provocatoria: vi siete inventato un trentenne italiano che non c’è, sperando di invitare la nostra gioventù al risveglio, o – al contrario – sono fatti così i ragazzi italiani ed è sbagliata la comunicazione che si fa su di loro, come eterni bamboccioni?
Rispondere a questa domanda è difficile perché la descrizione di Leonardo, partendo dalle sue molte professioni, piuttosto che dalla sua “natura”, non rende esattamente l’idea del film. Questa non è una semplice strategia di marketing evasiva, ma è proprio la chiave narrativa che serve a scoprire Leonardo e a godersi il film. Leonardo è un uomo che esprime in modo puro, direi quasi “scandaloso”, quello che altri mascherano con meccanismi sociali più accettabili.
Per quanto riguarda i giovani, quando mi sono trasferita negli Stati Uniti, avevo forse una visione più critica degli italiani di quanto ne abbia ora. Il risvolto ironico è però che i lati positivi di Leonardo rispecchiano in realtà uno spirito millennial iperattivo, iper-connesso, comune alle grandi città come Roma, Milano, NY, Tel Aviv, Londra… Sono giovani pieni di idee, dove le idee che si sviluppano sono spesso al centro del mondo dei media, in piccolo e in grande. Leonardo è anche un ragazzo semplice, legato alla famiglia, ha un forte impatto sul mondo esterno, ma nello stesso tempo viene travolto dagli eventi. C’è tanta auto-ironia su Roma e sull’Italia. È un cliché forse dirlo ma penso che dobbiamo essere orgogliosi che in questo film siano coinvolti molti giovani, ventenni e trentenni, bamboccioni solo nelle statistiche.
Scrivendo, pensavate a un pubblico, avete dosato il linguaggio, le situazioni, l’intreccio con un obiettivo preciso di sala?
All’inizio l’intenzione era di stare su un piano più surreale, un divertissement che esprimesse tematiche difficili da contestualizzare in modo leggero, nonostante il personaggio fosse già ben scolpito nell’arco della sua vita.
Scrivendo ci siamo però resi conto dell’importanza degli intrecci narrativi interni, dei personaggi minori, degli esperti da scegliere e dei filoni che Alberto ha individuato per enfatizzare di più quelle questioni di fondo su cui il film poggia, a prescindere dai temi.
Lo chiediamo a tutti quest’anno. Il direttore della mostra Barbera ha dichiarato che in Italia si stanno producendo troppi film a basso costo, che il low budget non produce qualità e che la strada dovrebbe essere invertita. Sei d’accordo?
Anche su questo mi è difficile esprimermi conoscendo meglio il cinema americano, dove nel mondo indipendente a volte si può arrivare all’Oscar con budget più bassi di “Pecore in erba”, ma dove allo stesso tempo ci sono ben altre possibilità di supporto finanziario da enti privati. Penso che internet abbia finalmente sbloccato la creatività di tanti giovani, come nel caso di alcune web series italiane esilaranti, che stanno dando ottimi risultati in tempi brevi, e questo ha avuto un effetto sul cinema. Non dimentichiamo che la forza di un film sta tutta nell’idea e nella storia. Certo sarebbe importante se s’investisse di più in progetti innovativi.
L’Italia – è un’altra accusa ricorrente – soffre di provincialismo. Che ne pensi? Pecore in erba può affrontare tranquillamente un mercato internazionale, lo consideri comprensibile, appetibile anche all’estero?
Per quello che mi riguarda, non ho mai vissuto questo film come un’esperienza del tutto italiana, anche se “Pecore in erba” è italiano “doc” al 100%. Come tematiche, potrebbe addirittura sembrare più facile da comprendere in paesi come gli Stati Uniti, visto che un certo tipo di umorismo ebraico o politico è più diffuso. O, per esempio, mi ha colpito, mentre ci lavoravamo, il clima che c’era in Europa dopo eventi come Charlie Hebdo e l’attacco all’Hyper Cacher e fin da subito l’ho inserito in un contesto dal respiro internazionale. Per altri aspetti, però, sono molto contenta che Alberto gli abbia dato un imprinting romano, trasteverino e italiano, perché va a toccare un linguaggio molto più specifico, dove il “provincialismo” si trasforma in un valore aggiunto. E poi, anche se il film non ha alcuna pretesa di cambiare nulla, è sempre meglio partire dal proprio orto per provarci.
Il sistema distributivo. Netflix ha lanciato una sfida a proposito di Beast of no nations: il film uscirà nelle sale e in rete contemporaneamente il 16 ottobre. Pensi che sia una soluzione? O una pazzia? Qual è per te il futuro delle sale cinematografiche?
Sono un’avida consumatrice di Netflix, Youtube, Hulu, Amazon e sempre meno della TV tradizionale. Per i film in uscita invece ho qualche resistenza in più, anche solo per quel romanticismo classico della sala buia, lo stacco dalla realtà, ma ho anche vissuto positivamente esperimenti simili, come “The Interview” con James Franco. So che per esempio durante il Festival di Venezia il nostro film sarà visibile anche nella Sala Web online, e questo è un fattore positivo per chi non può venire. Detto questo in Italia – e in parte anche all’estero – bisogna ancora arrivare a una soluzione che protegga davvero gli autori e li ripaghi dei loro duri sforzi.
Il Ministro Franceschini ha promesso di varare entro l’anno una legge sul cinema e si è dichiarato disposto a discuterne con le categorie. Tu ne sai qualcosa? Quale raccomandazione vorresti fargli, quale priorità sottoporgli?
Purtroppo, dall’estero, non sono molto informata a riguardo, ma mi pare un passo nella direzione giusta.
Nella tua esperienza di scrittrice ha incontrato altri registi e altri linguaggi: chi scrive, secondo te, al di là dei diritti che gli riconosce la legge, viene rispettato nella prassi?
Ho sempre avuto un’esperienza positiva in USA con grandi studios, e anche in questo caso. Forse in Italia inizialmente mi ha stupito che si desse meno importanza alle mille “labels” comode che qui denotano ogni piccolo passo. E forse ogni tanto il pubblico non ha chiarissimo cosa faccia lo sceneggiatore e sembra il talento meno tecnico e più difficile da capire. Scrivere appare poco “pragmatico”, quando spesso è alla base di tante scelte, con un impegno che sfocia in tante fasi del film, ma ogni situazione è diversa.
E’ utile cercare di ottenere visibilità per gli sceneggiatori come WGI tenta di fare?
In generale penso di sì. Assolutamente. Sono interessanti quelle rare volte dove gli sceneggiatori come Suso Cecchi D’Amico, Tina Fey, Diablo Cody o Nora Ephron risaltano, dando un lustro disverso alla professione e provando il “glamour” che di solito spetta a attori e registi. Certo c’è un privilegio intellettuale nell’essere registi-autori legato alla propria identità, ma dipende anche dai progetti e dalle personalità. Allo stesso tempo ho sempre ammirato la figura degli editori, o di persone che sono anche un po’ eminenze grigie nel loro lavoro e danno il meglio dietro le quinte. Spesso non è questione di timidezza, o di rinuncia a diritti professionali sacrosanti, ma soprattutto nel mondo di oggi dove tutto è eccessivamente condiviso, si perde un po’ quello che vuol dire dare il massimo individualmente prima che una cosa avvenga. Detto questo, più si crea una consapevolezza di supporto degli e tra sceneggiatori e meglio è.
Quali sono i problemi principali degli sceneggiatori che non si stanno affrontando?
Nel 2008 in USA c’era stato il famoso sciopero degli sceneggiatori che ha bloccato e messo in ginocchio brevemente la produzione TV e Hollywoodiana e le richieste di allora mi sembrano tutte sensate e valide ancora oggi soprattutto per chi inizia. Da molte parti si richiede di essere protetti sul fronte intellettuale e definire economicamente meglio le percentuali legate al mercato della distribuzione. In questo caso i nostri produttori e tutti quelli coinvolti hanno dimostrato una grande fiducia; in fondo, pur richiedendo delle garanzie a monte, creare un film è ogni volta un composto chimico diverso, una questione di intesa su tutti i piani.