L’attesa
Ciao! Siete tre giovani autori: come siete arrivati a scrivere un film in concorso a Venezia? Raccontateci la vostra vita professionale con la sintesi di un pitch, anzi… di tre.
GIACOMO. Cinque anni fa noi tre e Piero eravamo al Festival con un accredito da studenti. Dormivamo insieme nella stessa tenda e già scrivevamo questo film. Non so dire come si arriva in concorso. So che il primo film, quello in cui s’investono tutte le proprie energie e il proprio talento, è un unicum irripetibile. Quando inizi a lavorare senza un riferimento produttivo, tutto ciò che hai è la storia che stai scrivendo. Allora te ne prendi cura come di un bene prezioso e la nascondi agli occhi altrui finché non sarà pronta, matura, compiuta. Abbiamo scritto e riscritto L’Attesa per anni, passando dal campeggio del Lido di Venezia, alla Sicilia, alla Calabria. Il finale l’abbiamo trovato imprigionandoci una settimana in clausura in montagna. È stata un’esperienza totalizzante, nella quale abbiamo riposto da subito una fiducia cieca, certamente grazie alla certezza di avere a fianco un regista dal talento lampante.
ILARIA. La nostra vita professionale è appena cominciata, andiamo in giro a curiosare un po’ dappertutto e cominciamo a capire come funziona questo mondo. Più che scrivere un film in concorso a Venezia, abbiamo scritto un film che ci piaceva e la cui storia ci ha appassionato sin da subito. Le prime chiacchiere sulla storia le abbiamo fatte al Centro Sperimentale, ci piaceva l’idea di scrivere un lungometraggio. Sembrava un’avventura, come se ci dicessimo in continuazione: ehi, facciamo una cosa più grande di noi?
ANDREA. Mi sa che hanno già detto tutto loro. Che altro? E’ un film in cui ci rispecchiamo. Anni di lavoro ci hanno avvicinati il più possibile all’idea che avevamo in mente. Adesso questo pensiero fisso è arrivato a Venezia, prestissimo giungerà al pubblico. Siamo in pace.
E adesso il pitch de L’attesa: qual è la trama del film?
GIACOMO. Il film inizia con un funerale. Anna ha perso suo figlio. Anna è una donna francese di cinquant’anni, arrivata in Sicilia da giovane e rimasta nell’isola per tutta la vita, anche quando suo figlio l’ha lasciata per andare a studiare fuori. Dopo il funerale, nell’immobilità dell’enorme villa nobiliare in cui abita, Anna riceve una telefonata: è la fidanzata di Giuseppe. La ragazza non sa niente ed ha un aereo per la Sicilia da prendere. «Venga», le dice Anna. Ha in mente di dirle di persona quel che è successo. Ma all’arrivo di Jeanne non riesce a pronunciare la verità. Inizia a rinviare il momento in cui dirle l’accaduto, e la presenza della ragazza sembra sollevarla dal dolore. Forse Giuseppe è solo andato via, come ha detto a Jeanne. Forse tornerà a breve. Forse ciò che bisogna fare è attenderlo.
Come è nata l’idea? Cosa volevate raccontare?
ANDREA. Piero ci ha raccontato lo spunto. Qualcuno gli aveva detto che era accaduto davvero. Poi abbiamo trovato Pirandello, che aveva cercato di raccontare la stessa cosa in diverse opere. Eppure il punto di partenza della storia si dimostrava come un paradosso. Abbiamo iniziato a scavare: il comportamento di Anna – la madre del ragazzo di Jeanne – poteva apparire come dettato da uno stato confusionale che molti etichettano facilmente come follia. Per noi si trattava invece di raccontare qualcosa di opposto, ma altrettanto inspiegabile. In qualche modo Anna raggiunge le vette del sentimento amoroso di una madre.
Avete scritto questo film in quattro: voi tre e il regista Piero Messina. Una piccola folla. C’è un motivo per cui siete in tanti, competenze specifiche, un esperimento…? Come avete portato avanti il processo di scrittura? Com’è stato il rapporto con Piero durante la stesura?
ANDREA. E’ venuto tutto con naturalezza. Ci siamo piaciuti e ci siamo messi insieme, un po’ come nelle storie d’amore. Piero è un regista con le idee chiare e allo stesso tempo insegue qualcosa di misterioso. Abbiamo lavorato cinque anni e sono state scritte migliaia di pagine per questo film. Ci fermavamo di continuo per analizzare il lavoro, raccoglievamo solo ciò che avevamo amato e di nuovo tornavamo a scrivere. A pensarci bene, è qualcosa di simile al lavoro dei vecchi cercatori d’oro che setacciano i fiumi: si può lavorare per settimane e trovare solo una pagliuzza.
ILARIA. Lavorare in gruppo è la parte più divertente di questo lavoro: fare comunità, condividere. Chiunque sentisse noi quattro parlare del film, ad esempio, non ci capirebbe niente perché nel tempo abbiamo creato un gergo che conosciamo solo noi. Non ci sentiamo una folla, non siamo gli unici né i primi ad essere così numerosi. I film si possono scrivere in tanti modi, in tutti i modi direi. Noi l’abbiamo scritto in quattro, e tra liti e giornate indimenticabili, il film è cresciuto insieme al nostro rapporto.
Quanto è cambiato il copione sul set rispetto allo script? Per quali ragioni?
GIACOMO. La sceneggiatura non ha subito stravolgimenti durante le riprese e neanche al montaggio. Avevamo ragionato molto e misurato nel dettaglio gli elementi da mettere in campo e ogni cambiamento avrebbe intaccato l’equilibrio generale del film. L’unica limatura avvenuta sul set è quella riguardo i dialoghi francesi. Non essendo la nostra lingua, l’apporto delle due attrici è stato fondamentale nel rendere viva la traduzione. E poi naturalmente c’è il lavoro di sintesi svolto da Piero con la montatrice Paola Freddi: dalla prima all’ultima stesura di montaggio hanno levigato i dialoghi, con interventi minimi ma molto incisivi, sui quali siamo sempre stati tutti d’accordo.
ILARIA. Piero ha scritto il film insieme a noi, ci fidavamo di lui, e anzi avevamo una forte voglia che lui facesse il suo lavoro, che mettesse la sua regia intorno alla nostra storia. A mio avviso, quando una sceneggiatura arriva nelle mani del regista, diventa sua. La speranza degli sceneggiatori è che poi quel regista abbia capito il film e quindi faccia un buon lavoro. Rispetto a Piero, non avevamo dubbi che fosse così.
Aiutateci a centrare il tema di questo film. Due donne che aspettano: manca l’uomo, nel senso che le donne sono cresciute e l’uomo è sparito? Due donne che si legano: l’attesa, la speranza sono un pretesto per creare i rapporti umani? Abbiamo bisogno di un’invenzione per superare la solitudine, oppure… avete in mente l’Italia come un paese sconsolato in attesa di un salvatore?
ILARIA Questa è una “semplice” storia di amore assoluto, viscerale direi. Il film parla di una forma di rinascita, che presuppone una sopravvenuta condizione di solitudine. Uno stato d’animo che può essere straziante, senza via d’uscita. Invece noi abbiamo cercato di raccontare una via d’uscita dal dolore. Ma ancora ci chiediamo se è davvero possibile uscirne.
La Sicilia. Ci sono parecchi film a Venezia a rappresentare la Sicilia. Diciamocelo chiaro e tondo: l’ Italia è la Sicilia (nel gran bene e nel grande male) e il resto dello stivale è un accessorio, oppure la Sicilia è il problema mai risolto che impedisce all’Italia di esistere, di progredire?
GIACOMO Che l’Italia stesse diventando sempre più Sicilia l’aveva già diagnosticato Sciascia diversi anni fa. E non intendeva certo in senso positivo. L’attesa però è un film molto lontano da qualsiasi discorso politico sull’isola. Ed anche dall’immagine western di una terra rovente baciata dal sole. La nostra Sicilia è scura, nebbiosa, lunare, ed è soprattutto il teatro di un’arcaica relazione tra madre e figlio.
A quale tipo di pubblico si rivolge la storia?
GIACOMO. Uno dei nostri maggiori sforzi di scrittura è stato progettare un’architettura drammaturgica che sostenesse un film costruito intorno a due personaggi in un unico ambiente. Il tema da cui partivamo, l’elaborazione del lutto di una madre, era un tema potente e universale, ma allo stesso tempo rischioso, forse respingente. Abbiamo sceneggiato lavorando su delle forti tensioni psicologiche, prendendo in prestito strumenti dal thriller, dal giallo. Ci auguriamo insomma che il film possa parlare a tutti, che sia emozionante come l’abbiamo pensato.
ILARIA. In fondo non ci sono film per un certo pubblico e film per altri. Ognuno di noi può guardare e amare di tutto.
Il sistema produttivo (low/high budget). Barbera, durante la conferenza stampa, ha detto che si producono troppi film a basso costo, che il low budget non produce qualità. Siete d’accordo?
ILARIA. Sono d’accordo con Barbera. Si deve partire dal presupposto che fare un film è un lavoro grande e impegnativo, anche quando il budget non è alto. È parte del gioco – e del lavoro – arrivare alla realizzazione della tua storia oppure no. Se abbassi il tiro, probabilmente non farai davvero quello che volevi. E allora qual è l’obiettivo? Fare qualcosa, almeno qualcosa piuttosto che niente? Non so, non mi convince.
Detto questo, se volete posso fare l’elenco dei piccoli capolavori a basso badget…
Il mercato. L’Italia deve continuare a fare come fa o deve sforzarsi di entrare di più nel confronto internazionale?
GIACOMO. A mio avviso l’Italia si sta già spingendo nei territori del confronto internazionale. Nell’ultimo anno molti dei più grandi registi italiani hanno girato film in lingua straniera e con un cast di fama mondiale: penso a Sorrentino, a Garrone, a Costanzo. E poi c’è il successo di serie come Gomorra, o 1992. Credo che l’asfissia del nostro mercato interno, oltre che una naturale mutazione del mercato internazionale, stia portando i nostri autori migliori a rivolgersi a un pubblico che vada oltre il confine dello Stivale.
ANDREA. La nostra cinematografia è comunque tra le più importanti al mondo e negli ultimi anni gode di una fama rinnovata. Abbiamo una quantità di autori e una varietà di voci che altri paesi ci invidiano, eppure sembra sempre che il nostro sistema cinema non stia in piedi. A dire il vero è soprattutto il cinema commerciale a pensare in piccolo, con progetti che quasi sempre non escono dai confini nazionali. Si potrebbe fare di più e con maggiore consapevolezza. Perché se vogliamo un thriller, un film d’azione o magari per bambini dobbiamo sempre guardare gli americani?
Il sistema distributivo. La sfida di Netflix per Beast of no nations: il film uscirà nelle sale e in rete contemporaneamente il 16 ottobre. E’ la soluzione? E’ una pazzia? Qual è il futuro delle sale cinematografiche?
ANDREA. Il pubblico della sala resiste finché la gente avrà voglia di uscire di casa. Il cinema è ancora un rito sociale. Internet o Netflix sono possibilità che si aggiungono e non possono cancellare questo desiderio. Da un altro punto di vista le uscite in contemporanea su più piattaforme sono modi intelligenti per aggirare la pirateria. In futuro senz’altro bisognerà dare a tutti la possibilità di vedere il film come, dove si vuole e immediatamente.
Il sistema nazionale. Legge Franceschini sul cinema: lo sapete che verrà varata entro l’anno? Che ne pensate dell’istituzione del Centro del Cinema? Il ministro ha promesso di consultare le associazioni di categoria: c’è qualcosa che vorreste dirgli attraverso la WGI?
ANDREA. Apprezzo il lavoro che sta portando avanti il ministero. Le nuove norme sul tax credit stanno incentivando molto il settore. Del Centro per il Cinema purtroppo non ho letto ancora niente sui giornali. C’è bisogno di riflettere per non farsi stritolare dal flusso e gli automatismi del mercato, è necessario compiere scelte consapevoli e nuove. Se un nuovo ente può servire a questo, ben venga.
La paternità italiana delle opere. Quali sono i criteri per cui dovrebbe essere attribuita?
ANDREA. Credo che nessuno di noi conosca i criteri in vigore. Di sicuro gli aspetti legislativi legati alle nazionalità sono destinati a cambiare nei prossimi anni. Il cinema – come tutto il resto – è sempre più globale.
Chi scrive, in teoria, è abbastanza protetto nei suoi diritti. Ma nella prassi?
ANDREA. In giro si trovano situazioni di ogni genere, che spaziano dal contratto perfetto fino alle cifre da miseria date in nero e senza firmare niente. Chi scrive ha il dovere di tutelarsi. Il desiderio di riuscire non può essere una giustificazione per accettare qualsiasi proposta. Bisognerebbe essere capaci di distinguere le false occasioni. Molto spesso dietro un trattamento professionale non dignitoso, c’è un progetto produttivo inconsistente.
È utile cercare di ottenere visibilità per gli sceneggiatori o va bene invece che restino dietro le quinte come accade?
ANDREA Molti non amano essere sovraesposti. Se uno sceneggiatore dovesse essere intervistato e fotografato quanto un regista durante la promozione di un film, forse avrebbe una crisi nervosa al giorno! Non credo ci sia un anonimato dello sceneggiatore imposto dai media o dalle produzioni. C’è una prassi che si concentra sul regista, ma questo non è un fatto immutabile. Se lo si vuole, si può cercare di essere più visibili. Credo dipenda molto da noi.
GIACOMO Non sono sicuro, Andrea. Basta specchiarsi nello sguardo smarrito delle persone comuni quando ci chiedono: «che lavoro fai?» Credo che il pubblico, quello largo, non abbia una percezione precisa delle molte professionalità che ci sono dietro un film. Riconoscono gli attori, ovvero il volto dell’opera, e riconoscono il regista, che è una figura facilmente assimilabile a quella dell’artista. Io sono convinto che, nonostante vada riconosciuta la paternità piena e la responsabilità artistica del film al regista, gioverebbe molto al nostro cinema un maggiore riconoscimento delle altre figure creative.
Quali sono i problemi principali degli sceneggiatori che non si stanno affrontando?
ANDREA. Non si parla mai abbastanza dello sviluppo, della quantità di lavoro, ricerca e fatica sia necessario per scrivere. A volte ci si ferma ad una cosa che funzioni, ma il dovere sarebbe quello di mirare alla bellezza. Poi magari si sbaglia comunque, ma quello sforzo mi sembra sia importantissimo. Dalla prima stesura di una sceneggiatura all’ultima c’è la possibilità di compiere un viaggio di cui a volte non s’intravede la meta, pieno di scoperte del tutto inaspettate. Credo che questo percorso andrebbe previsto, incentivato e… anche ben finanziato!
La WGI fa queste interviste per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Voi siete anche sceneggiatori. Che ne pensa la vostra “terza” professione delle altre due? Facciamo bene a darle spazio?
ILARIA Sono una sceneggiatrice, e di solito mi piace leggere le interviste a chi ha scritto il film. Certo, sono di parte, ma so che gli sceneggiatori hanno delle cose da dire sulla storia che non sono le stesse del regista o degli attori. E’ semplice: ruoli diversi, apporti diversi. Sarebbe bello quindi che chi è interessato al film parlasse anche con noi, per capire quello che abbiamo fatto e come. Di solito poi, quelli che sanno raccontare meglio gli aneddoti siamo noi. E che cosa c’è di meglio degli aneddoti sugli attori e sui registi?
I vostri prossimi progetti in cantiere? Lavorerete ancora insieme?
ANDREA. Ilaria ed io stiamo lavorando a una commedia. Ci sono anche progetti di cui parliamo a tre e che col tempo potrebbero prendere forma: il desiderio di tornare a scrivere insieme è tanto. Poi ognuno di noi ha anche un suo mondo personale. Io ad esempio ho iniziato a scrivere per il teatro.
GIACOMO. Io, quando riesco, scrivo e disegno fumetti. Ne ho realizzati due per le edizioni BeccoGiallo e ne ho scritto uno ancora senza editore che scalpito per realizzare, ma che per ora è solo tra i progetti in cantiere. È in buona compagnia, insieme alle molte idee di cui io Ilaria e Andrea parliamo ciclicamente. Mi auguro col tempo di concretizzarle tutte.
ILARIA. Andrea, Giacomo e io ci consideriamo un gruppo di lavoro, anche se nella sostanza abbiamo realizzato insieme solo questo film. Però abbiamo scritto altri soggetti, e pensato ad altri progetti. In pratica, da quando ci siamo incontrati non è mai successo che uno di noi scrivesse qualcosa e che gli altri non lo leggessero. Ci conosciamo in modo molto profondo, ci piace il modo in cui lavoriamo insieme e condividiamo tutto questo con Piero.
Grazie mille per la vostra disponibilità e in bocca al lupo!