La legge del numero uno
Antonella Bolelli Ferrera e Massimiliano Griner hanno scritto la sceneggiatura del cortometraggio La legge del numero uno, diretto da Alessandro D’Alatri e presentato a Venezia fuori concorso nella sezione Giornate degli Autori come terzo Corto del Premio Goliarda Sapienza.
Ciao a tutti e due, una sintesi veloce della storia del vostro corto a mo’ di pitch: cos’è questa legge del titolo?
M.G: Nel corto la “legge” prevede che quando più detenuti si mettono in fila per chiedere un permesso, solo il primo lo ottiene, perché poi la generosità del magistrato finisce. Ma forse, inconsciamente, è anche una citazione de I soliti ignoti, quel punto in cui Vittorio Gassman, dopo aver fregato Memmo Carotenuto, quasi si giustifica dicendo: “scusa sa, ma qua vige la legge del menga”.
A.B.F. E’ una leggenda carceraria che io e Max abbiamo ribattezzato con questo nome. In carcere ne girano tante di leggende e tutte hanno un fondo di verità.
Forse è nata da una statistica sull’esito degli incontri con i magistrati di sorveglianza, chissà…
Il corto è stato presentato come terza opera dei Corti del Premio Goliarda Sapienza, ideato da Antonella e sostenuto da Siae e da RAI; il premio è rivolto come concorso ad opere di detenuti. Ci sembrate entrambi a piede libero… Spiegateci il mistero di questo collegamento. C’è un racconto di un detenuto che ha partecipato al premio e a cui vi siete ispirati?
A.B.F. Quando ho scritto il soggetto mi sono liberamente (ma molto liberamente) ispirata ad un racconto finalista del Premio Goliarda Sapienza che Rai Fiction aveva scelto fra i tanti.
Veniamo alla storia: qual è l’aspetto che più vi interessava sottolineare, una testimonianza di come stanno e agiscono le persone dentro le carceri, di che effetti fa il carcere ai detenuti o, al contrario, come il carcere sia un microcosmo che rimanda al mondo esterno, che mette in evidenza aspetti che tutti noi possiamo riconoscere come nostri?
M.G. Personalmente credo che tutti, per la maggior parte del tempo, viviamo in una sorta di carcere, con sbarre più o meno solide, a seconda dei limiti che abbiamo voluto dare alla nostra esistenza, spesso senza accorgerci di averlo fatto. Perciò, almeno nelle mie intenzioni, in questo cortometraggio non c’è sociologia, non c’è nessun tentativo di illustrare le condizioni del carcere vero. Di questo, del vero carcere, possiamo e vogliamo parlare per ore, perché c’è ancora molto da fare per renderlo un posto accettabile, almeno fino a quando non avremo trovato qualcosa di meglio. Ma se vogliamo restare al cortometraggio, allora sì, l’idea è proprio far emergere qualcosa che riguarda forse più noi che non ci troviamo in galera, a cui piace pensare che siamo tanto migliori di chi è dentro. Mentre spesso siamo altrettanto egoisti.
A.B.F. E’ un piccolo spaccato di vita carceraria che mette a confronto tre figure molto diverse: il borghese disorientato da quanto gli sta accadendo, il personaggio della mala romana abituato a farsi rispettare dentro e fuori la galera, e il detenuto comune, il più furbo di tutti, che ben conosce le dinamiche fra carcerati e ha imparato a trarne beneficio, anche solo per ottenere piccole cose come un maglione o un pacchetto di sigarette. Tanto basta per fare giornata. Li abbiamo messi insieme tutti e tre in una stessa cella e il mix è risultato esplosivo. Pensandoci, non succede forse così anche fuori dal carcere?
Tre uomini in competizione. A parte Orange is the new black, il carcere è stato sempre raccontato come un universo violento e dunque maschile. La prima domanda su questo è ad Antonella: la maggioranza dei detenuti che partecipano al premio è maschile?
A.B.F. Si, la stragrande maggioranza. Credo che in parte dipenda dal fatto che le donne detenute sono numericamente molti inferiori. E anche dal fatto che, meno degli uomini, hanno voglia di raccontarsi. Dopo tanti anni e migliaia di racconti giunti al Premio Goliarda Sapienza, posso affermarlo con ragionevole certezza.
La seconda domanda è ad entrambi: perché avete privilegiato questo racconto e non uno con protagoniste femminili?
M.G.. Se non fosse per scaramanzia, vorrei dirti che stiamo pensando a qualcosa che non riguarda il carcere, ma che è proprio al femminile.
A.B.F. Il racconto originale scelto da Rai Fiction era scritto da un uomo e pur costituendo soltanto uno spunto per scrivere la sceneggiatura, ci pareva troppo snaturalo al punto di scriverlo addirittura al femminile.
Raccontateci come avete iniziato la vostra collaborazione.
M.G.. Questo te lo posso dire io. La nostra collaborazione è cominciata a Radio 3, diversi anni fa, quando Antonella mi ha chiamato a collaborare al settimanale da lei ideato, Cuore di tenebra. Era una specie di spazio magico, di teatro radiofonico, dove potevamo esplorare personaggi e situazioni al limite, contando sulle voci più belle della prosa, sulla potenza della parola, dei testi. Per me che venivo dalla fiction più commerciale è stata un’esperienza esaltante. Grazie a questa intesa, scrivere insieme la sceneggiatura de La legge del numero uno per me è stata la cosa più naturale del mondo.
A.B.F. Come abbiamo iniziato te lo ha già raccontato Max. Posso aggiungere che mi sono divertita moltissimo a lavorare con lui. E’ ironico e versatile. Rispetta il punto di vista degli altri. Quando, dopo la radio, mi si è presentata una nuova occasione, non ho esitato: “La legge del numero uno” l’avremmo scritta insieme.
D’Alatri non firma la sceneggiatura: come è stato il rapporto con lui, avete progredito in modo autonomo, vi ha chiesto delle modifiche…
M.G. Abbiamo progredito autonomamente, e nello stesso tempo ci siamo confrontati con lui, ascoltando le sue esigenze. Mi ha colpito la sua attenzione al dettaglio, la richiesta che scavassimo di più nei personaggi, tirando fuori delle idee che lo aiutassero a metterli in scena in modo credibile.
A.B.F. Conosco Alessandro da un po’ di anni e sapevo del suo gusto per il particolare. Noi abbiamo risposto alle sue esigenze e lui ha rispettato il nostro lavoro. C’è sempre da imparare quando si lavora con grandi professionisti.
Avete lavorato a questa sceneggiatura con spirito da volontari, gratuitamente, o è stato un lavoro vero?
M.G. E’ stato un lavoro con un compenso, e io credo che sia assolutamente giusto, anche quando l’obiettivo è, come si dice, sociale.
A.B.F. Si tratta di un progetto sociale, i compensi equivalgono a dei rimborsi spese. Io organizzo da molti anni il Premio Goliarda Sapienza e lo faccio gratuitamente, perché non credo che il volontariato sia un mestiere ma una piccola missione nella vita.
Il vostro corto è passato su RAI 3 domenica 10 settembre, l’avranno visto dunque anche le detenute e i detenuti, i concorrenti del Premio Goliarda… Cosa accade quando vedono qualcosa che nasce in questo modo e più da vicino li riguarda?
A.B.F. Ho saputo dal direttore di Rebibbia Reclusione, dove abbiamo girato, che l’hanno visto… Aspetto di incontrarli per sapere dai detenuti che cosa ne pensano e e le emozioni che hanno provato.
Avete già fatto delle proiezioni, avuto dei riscontri?
M.G. Sì, e ho capito che avevamo lavorato bene quando un amico mi ha fatto osservare una cosa a cui non avevo pensato. I tre personaggi agiscono nel corso del racconto, che si svolge in carcere, nello stesso identico modo, distorto, che li ha portati in carcere. Prigionieri più delle loro reazioni meccaniche, che del carcere. E in fondo anche questa era una cosa che io volevo che emergesse.
A.B.F. Ho avuto riscontri dopo che è passato su Rai3. Il commento ricorrente che più è rimasto impresso “Peccato che sia così corto… perché non fate un film?”.
Quale effetto vorreste invece produrre sul pubblico a casa?
M.G. Io vorrei che uno che lo vede e che magari ha litigato con la sorella, o un amico, sollevi il telefono e li chiami per fare pace. Ma forse non arriveremo a tanto!
A.B.F. Vorrei che qualcuno dicesse che in pochi minuti abbiamo saputo raccontare il carcere – un piccolo spaccato del carcere – in modo diverso.
Grazie e buon lavoro.
Questa intervista WGI è stata pubblicata anche su Anonima Cinefili