I ricordi del fiume
Fosca Gallesio ha intervistato in proposito Massimiliano.
Massimiliano, come prima cosa chiediamo sempre a tutti di fare una cosa difficilissima il pitch. Come racconteresti in tre righe i Ricordi del Fiume?
I ricordi del fiume è un’immersione nella vita di un luogo negli ultimi mesi di vita. Il nostro è stato un tentativo di fermare i volti, le storie, i ricordi di una delle più grandi baraccopoli d’Europa condannata a dissolversi.
Come mai avete scelto di raccontare il platz e cosa ha significato per voi questo posto?
Il platz sorgeva a poche centinaia di metri da casa nostra, dentro il nostro quartiere, nascosto alla vista. Dentro il platz avevamo girato, alcuni anni fa, parte del nostro film di finzione Sette opere di misericordia.
Quando abbiamo saputo di un progetto di graduale smantellamento della baraccopoli da parte della Prefettura e del Comune di Torino, abbiamo deciso di documentarne la vita, affinché restasse un ricordo di questo luogo.
Qual è il tema centrale del film?
Il film è costruito come un insieme affastellato di “ricordi”, al centro del quale c’è sicuramente il tema della casa, dell’abitare, dello sradicamento, della perenne ricerca di un posto in cui stare, esistere.
Da un punto di vista di scrittura e di narrazione come avete lavorato? Siete partiti già a girare con una struttura in mente oppure avete costruito il racconto in corso d’opera e al montaggio?
Innanzitutto abbiamo fatto un sopralluogo, siamo entrati una notte con i nostri strumenti (camera, microfono) e abbiamo incontrato alcuni abitanti della baraccopoli. Ci siamo subito immersi nel dedalo di stradine, nelle baracche di lamiera e legno. Subito ci è apparso il disegno aggrovigliato di questo luogo, e di conseguenza la struttura labirintica del film. Dopo un mese di riprese, abbiamo scritto una storia che contenesse le tante storie incontrate e filmate. L’anno e mezzo successivo di riprese ha seguito questo schema narrativo, che doveva essere per noi simile alla narrazione non lineare, frammentata e evocativa della memoria. Doveva rispecchiare l’accumularsi caleidoscopico dei ricordi. Ma con una direzione, come quella del fiume che scorreva accanto alla baraccopoli: il destino era segnato, la chiusura del film doveva essere la distruzione del platz.
Mi racconti come ha funzionato la lavorazione, nel senso di tempi e modalità delle varie fasi?
Il primo mese è stato un lungo sopralluogo che ha coinciso con l’inizio delle riprese. Abbiamo poi seguito la vita quotidiana di alcune famiglie. Mano a mano che il tempo passava e parti della baraccopoli venivano distrutte e le famiglie trasferite, rimpatriate o semplicemente lasciate senza casa, noi eravamo in più situazioni contemporaneamente: seguivamo nuove persone ancora non incontrate, o restavamo con i primi abitanti conosciuti, seguendone il destino oltre il platz. In questo modo abbiamo accumulato e seguito decine di storie di vita, che abbiamo distillato in una prima versione del film di 140′.
Come siete entrati in contatto con questa comunità? Avete fatto un lavoro sul campo preliminare, avete dovuto superare diffidenze o resistenze per girare?
Il platz era abitato da più di mille persone, e si può dire che le abbiamo conosciute quasi tutte. Alcuni non hanno mai voluto farsi riprendere. Il nostro lavoro è un lavoro innanzitutto umano: ha a che vedere con la relazione, con il rapporto con gli altri. Non può prescindere da questo. Dunque abbiamo filmato quello che era più vicino a noi. Il processo di conoscenza, di amicizia e di affezione coincide con quello del film.
Nel vostro lavoro avete fatto esperienza sia di documentario che di racconto di finzione. Che differenze ci sono per voi tra queste metodologie di racconto? Ed eventualmente ci sono degli strumenti di fiction o di drammaturgia che applicate nel documentario e viceversa ci sono degli elementi nel racconto della realtà che usate anche nei vostri lavoro di finzione?
Inevitabilmente gli approcci e le forme si confondono, tendono a mescolarsi e a perdere i propri confini, e anche l’importanza di esistere.
Per esempio, nel nuovo film a soggetto che stiamo scrivendo, l’esperienza diretta dell’osservazione, e direi anche del documentario I ricordi del fiume, non può che entrare, influenzare, addirittura sovvertire il formato o il linguaggio scelto inizialmente. Così come Sette opere di misericordia è stato fondamentale per iniziare a realizzare questo documentario.
Con i Ricordi del Fiume avete esplorato un territorio emblematico di un conflitto chiave del nostro tempo, quello con il diverso, lo straniero e il problema dell’accoglienza. Dopo questa esperienza qual è la vostra opinione su questa tematica?
Fin dai primi cortometraggi o documentari questo tema è stato al centro del nostro lavoro. L’opinione a riguardo non è cambiata, ma si è espansa, si nutre di nuovi punti di vista, di nuove storie e amicizie che in questi ultimi due anni hanno riempito la nostra vita. La nostra società è vittima dei tempi della propaganda, della demagogia, di una brutta politica. L’accoglienza si fa con il tempo, come il cinema. Si ha bisogno di tempi lunghi, e di lungimiranza. La fretta non serve a nessuno. Il platz è rimasto schiacciato dalle promesse elettorali e da poca lungimiranza. A farne le spese sono sempre gli stessi. E i problemi non si risolvono. Siamo convinti che la scuola deve tornare al centro delle politiche di accoglienza. Senza istruzione, da tutti e per tutti, non saremo mai una società accogliente. La politica deve assecondare l’accoglienza, non demoralizzarla o peggio soffocarla.
Mi racconti del Piccolo Cinema e della sua attività? Come è nata e come si è sviluppata questa realtà torinese?
Quattro anni fa, con alcuni amici abbiamo fondato questa società di mutuo soccorso cinematografico. Ovvero un luogo aperto a tutti, gratuito, dove poter mettere a disposizione le proprie competenze sul cinema, imparare delle cose nuove a riguardo, incontrare autori, realizzare film.
In poco tempo il gruppo è cresciuto e sono stati molti documentari, corti, idee, gruppi di lavoro attorno al cinema, che hanno anche girato nei festival nazionali e internazionali. Tutti con la logica del mutuo soccorso, dell’aiuto reciproco. Abbiamo ospitato decine di registi esordienti, grandi maestri del cinema, ragazzi alle prime armi. Soprattutto, abbiamo costruito una piccola comunità aperta, che si nutre della vita della comunità più grande del quartiere e della città, e che dialoga con altre realtà non solo di tipo cinematografico.
La programmazione delle proiezioni, per naturale propensione, è ormai affidata al pubblico. Da quattro anni, una volta a settimana minimo facciamo vedere film e incontriamo gli autori.
I ricordi del fiume è stato girato da una troupe quasi interamente costituita da professionisti del cinema che si sono formati nei nostri laboratori di cinema, che noi chiamiamo “Discorsi”.
Come la vedi la situazione attuale del cinema e del comparto audiovisivo in Italia? Cose belle e cose brutte…
Di cose belle ce ne sono tante: soprattutto la grande vitalità di opere prime, esordi di qualità, piccole produzioni davvero meritevoli. Di cose brutte il sistema di distribuzione e di fruizione, una rete di esercenti ancora poco creativi e coraggiosi, un sistema cinema ancora legato ai pochi gruppi di potere.
Per concludere ci racconti qualcosa dei vostri progetti futuri?
Stiamo scrivendo un film nuovo. Una specie di storia d’amore, di lotta e di vendetta.