I Figli della Notte
Unico film italiano in concorso al 34esimo Torino Film Festival, “I Figli della notte” è un doppio esordio dello sceneggiatore Mariano Di Nardo e del co-autore e regista Andrea De Sica. Ambientato in un esclusivo collegio maschile sulle montagne dell’Alto Adige, il film è una favola nera sulla maturazione di due giovani ragazzi.
Ciao Mariano, come prima cosa mi racconti il tuo percorso di formazione e professionale?
Mi sono interessato alla sceneggiatura grazie al premio Solinas, che faceva le finali del concorso a Bologna, dove io frequentavo l’università, e seguivo le loro masterclass sulla sceneggiatura. Quindi quello è stato il primo incontro, poi ho provato a fare domanda al Centro Sperimentale, ma con l’idea di studiarmi un po’ il concorso e in caso ritentare l’anno successivo, più preparato; invece mi hanno preso subito! Il Solinas, dopo, è stato fondamentale perché mi ha aiutato a farmi conoscere: l’ho vinto due volte e una terza nel 2015 sono stato finalista. Il primo progetto con cui vinsi nel 2006 fu opzionato, ma poi non se ne fece nulla, il secondo progetto del 2010 è stato comprato e sviluppato con Wildside per RaiCinema, ma anche in quel caso il film non si è fatto.
Quindi I figli della notte è il tuo primo film che esce in sala?
Si nonostante abbia scritto diversi copioni, questo è il primo che arriva alla fine. È un po’ strano esordire a 37 anni; la gente mi chiede: ma per tutto sto tempo che hai fatto? È un po’ strano per chi non conosce il nostro mestiere.
E per la televisione hai mai lavorato?
Recentemente ho scritto alcune puntate della serie Questo nostro amore per RaiUno, che è al momento in fase di riprese.
Bene, adesso parliamo de I figli della notte. Mi fai un pitch?
È la storia di Giulio, un ragazzo che proviene dall’altissima borghesia che viene mandato in un collegio esclusivo, per i figli dell’upper-class. in montagna, perché sua madre, che è un’imprenditrice importante, non può prendersi cura di lui. Giulio all’inizio è un ragazzo molto ingenuo, è stato cresciuto in una campana di vetro, ma dentro il collegio alla fine dell’anno da bravo ragazzo diventa una sorta di… mostro non è la parola giusta, diciamo che cresce scoprendo il suo lato oscuro. È un coming of age. Il nostro produttore ha detto: “È una storia di formazione, che diventa una storia di de-formazione.”
Come è nata l’idea del film?
Io e il regista Andrea De Sica ci conoscevamo di vista dal centro sperimentale, ma eravamo in anni diversi. Andrea, inizialmente, aveva chiesto di scrivere il soggetto a un suo compagno di classe, che però aveva un altro impegno lavorativo e quindi ha fatto il mio nome. Al che Andrea mi ha raccontato lo spunto, che era quello di un ragazzo che entra in collegio e sperimenta una sorta di abbandono da parte della sua famiglia. C’era questa suggestione che veniva dall’entourage di Andrea, da storie di persone che conosceva, non era una sua esperienza personale. Quindi siamo partiti da questi racconti e abbiamo iniziato a lavorare al soggetto: il ragazzo protagonista poi aveva fin troppe sfaccettature e quindi alla fine si è trasformato in due personaggi distinti, due amici.
E come è stato il percorso produttivo del film?
Una volta scritto il soggetto abbiamo trovato la produzione, Vivo Film, e fatto domanda al ministero per lo sviluppo e scritto la sceneggiatura. A quel punto è iniziata una lunghissima trafila per trovare i finanziamenti per girare il film, e durante questa lunga trafila ci sono state molte riscritture del copione, adattamenti e cambiamenti.
Quindi la fase di scrittura quanto tempo ha preso?
Chiaramente in mezzo ci sono delle pause, ma il primo incontro con Andrea è stato 5 anni fa. Il soggetto l’abbiamo scritto in poco tempo, un paio di mesi, poi la sceneggiatura con le varie stesure c’è voluto qualche anno, ma appunto con lunghe pause in mezzo. Per il ministero abbiamo riscritto, poi dopo abbiamo fatto domanda per Eurimage, che abbiamo vinto, e anche lì ci sono state delle riscritture. Poi anche in preparazione quando è stato scelto il posto dove girare, abbiamo fatto degli adattamenti alla sceneggiatura, anche perché l’edificio dove abbiamo girato non è una scuola, ma un albergo in Alto Adige a Dobbiaco.
L’ambientazione di montagna con la neve, un po’ alla Shining, è un elemento chiave del film. L’avete sempre immaginato in un posto simile?
Si abbiamo sempre voluto un’ambientazione da fiaba, il racconto per noi è una fiaba nera. Volevamo un luogo con le montagne e i boschi e la neve, di modo che fosse anche complicato allontanarsi da lì: perché nel film i ragazzi fanno delle fughe notturne, che, con la neve, diventano ancora più difficili e avventurose e anche un po’ magiche.
Io ho trovato molto originale il mondo raccontato dal film. In Italia è raro vedere film sugli adolescenti che non siano commedie. Questa è stata una decisione intenzionale? Avete proprio voluto esplorare un territorio insolito per il cinema italiano?
Si era nelle premesse. Andrea mi disse subito che voleva parlare di ragazzi di alto livello sociale in un modo in cui nessuno ne aveva parlato fino ad ora. Quindi non rappresentare i giovani ricchi semplicemente come viziati e antipatici, ma raccontare anche il lato oscuro e la sofferenza che implica la crescita in certi contesti. Il tema profondo poi è quello classico del coming of age, ovvero la scoperta del dolore e della sofferenza e come un ragazzo ne esce cambiato. È questo confrontarsi con qualcosa di sé che ancora non si conosce.
Che riferimenti avevate per questa storia, a chi vi siete ispirati?
Ci sono riferimenti sia cinematografici che letterari. Per l’ambientazione, come dicevi tu, il primo modello ovvio è stato Shining. Ma i film che abbiamo rivisto più volte sono stati If di Lindsay Anderson e L’attimo fuggente di Peter Weir, poi un film che non citiamo mai, ma è stato fondamentale, è Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman. Per quanto riguarda la letteratura c’è un romanzo di Donna Tartt che si chiama Dio di illusioni, dove lei è bravissima a raccontare i ragazzi e i rapporti fra di loro. Un altro romanzo è I privilegiati di Jonathan Dee, finalista al Pulitzer qualche anno fa, che racconta appunto le dinamiche dell’upper-class.
L’attimo fuggente è il riferimento più ovvio, ma proprio solo per l’idea del collegio. Il vostro film lo definirei un Attimo fuggente lynchano, c’è un costante senso di straniamento.
Si infatti la figura del professore, che poi nel nostro caso è più un educatore, è molto diversa dal professor Keating dell’Attimo fuggente, che è un personaggio contro il sistema e invita i ragazzi a ribellarsi. Invece il nostro docente è proprio la rappresentazione di quel sistema, è la voce del collegio. Quando i ragazzi cercano di scappare il professore li riporta sempre alla loro filosofia.
È un personaggio di mentore tenebroso molto interessante…
Si è un mentore che vuole bene ai ragazzi e proprio per quello sa che deve riportarli all’interno delle regole del collegio, dentro quel percorso che i genitori hanno scelto per loro. C’è una clip del film che mostra proprio la scena iniziale con il discorso programmatico del preside che spiega questa cosa (https://youtu.be/Oor6D6EKwag)
Oltre al collegio nel film c’è un secondo luogo importante, che è poi il luogo della perdizione per i ragazzi: questo club di spogliarelli in mezzo ai boschi che mi ha ricordato il One Eyed Jack’s, il club di Twin Peaks. È così?
Si, sia io che Andrea, ancora di più da regista, siamo ammiratori di David Lynch. Quindi questo luogo, dove Giulio scopre il suo lato oscuro, ce lo siamo sempre immaginati così. Qui avviene anche l’incontro con la ragazza che lo farà anche crescere e maturare.
Come avete strutturato il lavoro di scrittura tu e Andrea?
È andata così: ci vedevamo e parlavamo molto e a lungo, poi generalmente scrivevo io e poi lo passavo nelle sue mani e lo rilavorava e mi proponeva delle modifiche. Quindi è stato un continuo passaggio dall’uno all’altro, anche se il grosso di scrittura, anche di idee di Andrea, l’ho fatto io. Per le ultime revisioni ci ha dato poi una mano Gloria Malatesta, che è stata insegnante di sceneggiatura di entrambi al Centro. Noi dopo tante riscritture eravamo immersi in una specie di nebbia, c’erano molte scene e molte cose, ma sentivamo di aver perso un po’ la direzione e avere un occhio esterno ci ha permesso di organizzare questa mole di materiale e dargli compattezza.
E la storia è cambiata?
In grosso la storia no, è rimasta la stessa fin dalla prima stesura più o meno. Più che altro si è semplificata, perché prima era un po’ ipertrofica. C’era tanto materiale e si andava in troppe direzioni diverse. Questo è il difetto di un eccesso di lavoro, forse essendo un primo film si lavora tanto e a lungo, ci sono molte riscritture e per strada alcune cose si perdono e non si riesce proprio più ad avere ben chiaro il quadro generale. A quel punto avere uno sguardo esterno è stato fondamentale.
A livello di narrazione c’è una cosa che mi ha colpito nella seconda parte del film, in cui molte scene fortemente drammatiche vengono tagliate prima della fine del climax. Quindi c’è una costruzione in accumulo di tensione, senza mai avere il momento di rivelazione e catarsi. Si capisce perfettamente cosa succede, ma non lo vediamo, la scena si conclude un attimo prima. Questo era già in scrittura o è stata un’idea di montaggio?
Si la crescita di tensione nel finale del film l’abbiamo voluta e sento che in tanti la notano, quindi mi fa piacere. Ma questo espediente che dici, in effetti è stato trovato in montaggio;
quindi queste immagini esistono, ma in moviola abbiamo trovato più efficace tagliarle. C’ero anche io, me le hanno fatte vedere e in effetti ero d’accordo. Ci piaceva lasciare questo alone di mistero al racconto.
Questo non mostrare crea un effetto di grande turbamento. Come è stato raccontare questo percorso di degenerazione morale? Non è facile empatizzare con dei personaggi così.
Si in effetti ci siamo fatti questa domanda. Empatizzare con i personaggi significa comprendere le ragioni della loro sofferenza. E penso che per la maggior parte del film questo ci sia, poi quando li vedi compiere certe scelte a quel punto capisci perché e comunque non ci interessava neanche più che si empatizzasse su quello. La sofferenza dei protagonisti è legata al loro senso di abbandono, che è un sentimento universale, che tutti sperimentano. Ci siamo preoccupati di far arrivare quello.
Tu da sceneggiatore sei stato coinvolto anche nella produzione a livello di scelte di cast o altro?
No, per quella fase hanno preferito lavorare senza sceneggiatore, che è stata anche un’esperienza positiva per me, perché poi ti trovi con delle sorprese positive sullo schermo.
Quindi tu non sei stato sul set. La sceneggiatura è stata seguita durante le riprese?
Si, io non ero sul set, ma ci sentivamo spesso al telefono con Andrea, e non ci sono state modifiche. I dialoghi sono quelli che erano in sceneggiatura.
Come è stato vedere in moviola il tuo primo film realizzato?
Un bello shock! Non ci ho dormito la notte… Continuavo a pensarci, poi pian piano ritrovavo tutto, anche se magari ci erano arrivati per un’altra strada. Trovo che abbiano fatto un eccezionale lavoro di montaggio: sono stati capaci di trovare le emozioni dentro le immagini senza bisogno di parole e questo giova molto al film. Ma ci ho messo un po’ a capirlo. Il montatore Alberto Masi è anche lui al suo esordio cinematografico, insieme a me e Andrea e viene anche lui dal Centro Sperimentale.
Cioè ci sono pochi dialoghi? Come li avevate lavorati in scrittura?
Si nel film finito non ci sono tanti dialoghi, ma in sceneggiatura ce n’erano ancora meno, infatti il film era corto. Su questo è stato fondamentale l’intervento di Gloria Malatesta che ci ha aiutati a far parlare di più i personaggi.
E trovare la voce dei personaggi è stato difficile?
No perché li conoscevamo a fondo, sapevamo benissimo chi fossero. Poi abbiamo fatto qualche colloquio con ragazzi che avevano vissuto l’esperienza del collegio, non tanti in realtà. Eravamo partiti con l’idea di scrivere una traccia con la storia e poi fare delle ricerche andando nei collegi e dopo scrivere più in dettaglio. Ma a un certo punto ci siamo accorti che se avessimo fatto questo lavoro, avremmo trovato delle cose che non ci sarebbero piaciute, perché ormai quel collegio esisteva soltanto nella nostra testa, confrontarci con la realtà non era poi così necessario, né avrebbe arricchito il copione. Quindi alla fine le ricerche non le abbiamo più fatte.
Nel film hai messo elementi presi dalla tua esperienza personale da adolescente?
Ah… domanda difficile. Sì c’è qualcosa di molto personale, ma non proprio nel racconto degli adolescenti. Io sono affascinato dall’idea che ci sia qualcosa sopra di noi che preordina la nostra vita, dei demiurghi. Quindi c’è questa idea del collegio-demiurgo, che ti guida dall’alto, come una specie di The Truman Show, che è un concetto che mi interessa molto nelle storie. È la cosa che mi ha reso subito interessante questo progetto, il fatto che si potesse esplorare questo aspetto: un’entità che agisce alle tue spalle e in qualche modo guida la tua esistenza, questo è il collegio, anche senza che tu te ne accorga o anche se te ne accorgi a un certo punto e quindi puoi rileggere tutto da un’altra ottica.
Non possiamo dire di più perché se no si spoilera il film. Questo demiurgo che guida in realtà è lo sceneggiatore, il piano preordinato è la struttura drammaturgica. È molto interessante.
Si è proprio questo: c’è qualcuno dietro che sta decidendo le cose che succedono. Questa è una chiave presente anche in altre storie che ho scritto.
E tu scrivi sempre storie così cupe? A cosa stai lavorando o hai lavorato recentemente?
Sto scrivendo l’opera prima di Francesco Costabile, che è anche quella una storia abbastanza dura. Invece l’altro progetto che sto portando avanti è una commedia sentimentale tout court e mi sto divertendo molto a scriverla, proprio perché è lontana dai lavori che faccio di solito. Il bello dello sceneggiatore è anche poter cambiare genere a seconda del regista con cui si collabora. Poi sto portando avanti anche la commedia che è stata finalista al Solinas, che si intitola Falling, scritta con Beppe Manzi, abbiamo degli interlocutori, spero che si faccia.
Come vedi la posizione degli sceneggiatori in Italia?
Ci sono stati degli anni un po’ difficili, mi è sembrato che il mercato si sia ristretto, ma adesso ho la sensazione che si stia allargando, soprattutto grazie alla televisione. Si comincia a vedere un modo diverso di pensare la fiction e le serie televisive vanno di più, il che è interessante per gli sceneggiatori.
A te da spettatore quali serie tv piacciono?
Credo che i grandi classici della serialità americana degli ultimi anni siano le cose migliori che ho visto in assoluto, anche rispetto al cinema. Penso a Mad Men, Breaking Bad, Six Feet Under. Sono grandi lezioni di scrittura, inarrivabili direi. Poi cominciamo ad avere serie molto belle anche qui: Gomorra è di alto livello, anche Non uccidere mi è piaciuta molto.