SLAM – Tutto per una ragazza
Presentato nella sezione Festa Mobile al 34esimo Torino Film Festival, “SLAM -Tutto per una ragazza” è una commedia tratta dall’omonimo romanzo di Nick Hornby. La storia trasportata a Roma è stata adattata da Ludovica Rampoldi, insieme a Francesco Bruni e al regista Andrea Molaioli.
La nostra prima domanda di rito è sempre un pitch del film, di cosa parla SLAM – Tutto per una ragazza?
Samuele, 16 anni, ha una mamma di 32, che a sua volta è stata concepita da una madre molto giovane, scoprirà che sulla sua famiglia grava una sorta di maledizione, di fare figli da minorenni. Nel corso del film Samuele cercherà di fare i conti con questa gravidanza e questo figlio in arrivo aiutato anche dallo skate, che è la sua grande passione. Infatti lo skateboard si porta dietro una vera e propria filosofia di vita, che è poi il tema del film. Quello dello skate era un mondo che non conoscevo, ma facendo documentazione ho
scoperto che, essendo uno sport non competitivo, lo skateboard ti porta a migliorare te stesso, imparando a rialzarti sempre dopo essere caduto a terra. Imparare attraverso i propri errori e tentativi è il percorso che fa Samuele. È questa la filosofia dello skate: fare del tuo meglio, senza preoccuparti di primeggiare o eccellere, ma semplicemente mettercela tutta e se uno cade deve sempre sapersi rialzare.
Il film è un adattamento dell’omonimo romanzo di Nick Hornby, uno scrittore di culto. Come è nato il progetto e di chi è stata l’iniziativa di prendere i diritti?
È partito dal regista, Andrea Molaioli, con il quale io ho sempre collaborato e lui mi parlò del romanzo di Hornby che gli era piaciuto molto. A quel punto l’ho letto e ho pensato che l’adattamento era allo stesso tempo facile e difficile: facile perché comunque si trattava di una storia universale, con al centro un’adolescenza normale, ma complicata; la difficoltà invece stava nel fatto che la bellezza del romanzo era proprio la voce del protagonista che si racconta in prima persona e anche gli elementi più divertenti erano proprio nel tono del racconto e questo è difficile da rendere in un adattamento cinematografico. In un primo tempo abbiamo pensato di usare proprio una voce fuori campo del protagonista, ma poi abbiamo scartato questa idea e abbiamo deciso di usare un’altra voce narrante: quella del campione di skateboard Tony Hawk. Il protagonista del film sta leggendo l’autobiografia di Tony Hawk, di cui sentiamo dei brani in inglese come una sorta di voce guida. La biografia funziona come contrappunto per le esperienze del protagonista, che la consulta come una specie di oracolo. Questo espediente ci ha aiutati a rendere quel tono allegro, malinconico e scanzonato nei dialoghi e nelle scene.
E invece come è stato adattare la Londra di Hornby alla Roma contemporanea?
Ci è venuto abbastanza naturale, la scelta di Roma è dovuta anche alla volontà del regista di raccontare un ambiente familiare, poi anche io sono nata e cresciuta a Roma e l’altro sceneggiatore Francesco Bruni non è nato qui, ma ci vive da tanti anni. Scelto un mondo che conoscevamo bene, non è stato difficile trasportare le vicende del romanzo, perché comunque si parla sempre di problemi esistenziali, che sono universali. Naturalmente in alcuni caratteri dei personaggi abbiamo marcato la romanità, come nel caso del padre di Samuele (interpretato da Luca Marinelli). Rispetto al libro abbiamo cambiato solo il finale… adesso però non ricordo com’era il finale originale, sono passati due anni da quando l’ho scritto e proprio non ricordo.
Non ti preoccupare, tanto il finale sarebbe spoiler e non ne possiamo parlare. Volevo chiederti invece del flash-forward: nella sceneggiatura avete usato questo espediente per mostrare il futuro del protagonista con il figlio piccolo, ma intervallati con il presente in cui lui sta decidendo ancora se tenerlo o no. È un’idea vostra e era già nel romanzo?
Era così anche nel romanzo, mi spiace non ci siamo inventati nulla…
Ma al cinema, soprattutto in Italia, non è molto usato il flash-forward e in questo caso l’ho trovato sfruttato in maniera interessante proprio per far venir fuori l’interiorità del protagonista senza avere la sua voce narrante.
Si in effetti non si capisce bene se queste visioni siano davvero una prefigurazione del futuro o no. Questa era una delle parti più divertenti del romanzo: c’era questo spaesamento del personaggio che si trovava a vivere la sua vita futura da estraneo che era molto buffo.
Ho trovato particolare il personaggio della ragazza che rimane incinta, non è proprio la fidanzatina ideale, anzi ha un carattere abbastanza tosto, è insolito vedere un personaggio femminile così giovane e così combattivo.
Si, anche lei ha un percorso nel film: parte come una persona che non ha grandi passioni, né pensa di avere grandi talenti, la cui vita è stata preorganizzata dalla famiglia; all’inizio è una ragazzina annoiata dal futuro incerto, come ce ne sono tante, non c’è una connotazione volutamente negativa. Semplicemente, come accade spesso a 16 anni, uno non sa quello che vuole dalla vita, non sa dove vuole andare e non sa quale sarà il suo posto nel mondo e questo incidente di percorso in realtà le offre una via di fuga da un percorso preordinato dalla famiglia, a cui lei non si sente di aderire fino in fondo.
L’aspetto originale è che tra i ragazzi non c’è una vera e propria love story romantica. Come mai questa scelta?
Non è una love story da film questa, loro non si giurano amore eterno. Sono quegli amori un po’ goffi dell’adolescenza, ma dopo si trovano a gestire una cosa enorme, da cui verranno travolti. Poi c’è una circolarità nel film, quindi il finale fa capire che non è detta l’ultima parola. Come nello skateboard: si fallisce, si cade, ma ci si rialza in piedi per riprovare. Non abbiamo voluto dare una tinta forte a questa storia d’amore, perché volevamo raccontare due vite normali. Dove non ci sono grandi drammi, né un adolescenza con disagio, non c’è delinquenza, né droghe, sono problemi piccoli e quotidiani. Quindi in questa scelta di mezzi toni c’è anche una delle cose più riuscite del film. Una sfumatura garbata e gentile, un umanesimo forte che non giudica i personaggi, ma che sta al loro fianco. Alla fine c’è una rappresentazione di esistenze normali, che sono comunque complesse piene di caos e confusione, proprio questo caos è la bellezza di queste vite.
Di solito le storie che parlano di gravidanze giovanili sono viste dal punto di vista delle madri, qui l’aspetto originale è che il protagonista è il giovane padre Samule. Il senso di paternità è un tema poco esplorato, vero?
Si, infatti si dice che la madre diventa tale già dopo il concepimento e per tutta la gravidanza, mentre il padre deve toccare con mano il figlio, per rendersi conto di essere padre. Questo è quello che raccontiamo con i salti in avanti nel futuro di Samuele. Questo ci ha permesso di avere anche delle scene emozionanti, come quando lui si trova in mano questo bambino, che per lui è uno sconosciuto, ma è suo figlio e inizia a capire cosa significa essere padre e ad assumersi quelle responsabilità che invece suo padre non si è
preso. Il padre di Samuele è un adulto mai cresciuto, mentre lui è un ragazzo fin troppo adulto per la sua età. Samuele è molto responsabile anche in reazione al padre inaffidabile. A me è capitato di conoscere molte persone con genitori freakettoni e libertari, che sono diventate poi molto ligie e responsabili, in opposizione alla mancanza di regole che hanno avuto come modello, è abbastanza normale crescere in opposizione ai modelli che ti vengono posti.
Come avete lavorato in gruppo sulla scrittura a livello tecnico insieme a Molaioli e Bruni? Che tempi di scrittura avete avuto?
Nel solito modo: si parla tanto, si definisce la scaletta insieme, poi ci si dividono le scene, ognuno scrive le sue, poi ci si rivede e si rifà un editing collettivo. Io mi sono sempre trovata a lavorare in questo modo in gruppo. La scrittura ha avuto una durata normale, non ricordo esattamente quanto, ma insomma qualche mese. Poi naturalmente ci sono state alcune riscritture una volta che sono stati scelti gli attori. Abbiamo fatto delle letture con gli attori e riscritto qualche dialogo.
Il dialogo per me è un aspetto di questa sceneggiatura davvero riuscito, è molto brillante e molto vero allo stesso tempo. In particolare c’è un personaggio secondario riuscitissimo, un amico di Samuele. Da l’idea che vi siate divertiti a scrivere le battute, è così? Avete attinto molto dal romanzo per i dialoghi?
Si il personaggio dell’amico è uno dei miei preferiti, vorrei uno spin-off tutto su di lui! Il romanzo era parecchio ricco di dialoghi, quindi c’è una base che proviene da Nick Hornby, poi abbiamo scritto molto sopra, ci siamo rimpallati le scene l’un l’altro, lavorando molto le battute, ma insomma è il solito lavoro di rifinitura dei dialoghi che si fa sui personaggi.
Non avete avuto particolari problemi durante la scrittura?
No mi rendo conto che non ho molto da dire… In realtà mi ricordo che c’è stato un momento in cui mi sono chiesta se non fosse il caso di appesantire di dramma la vicenda. Forse era anche un po’ il mio retaggio, visto che tratto spesso storie cupe. Mi veniva in mente che quando si è adolescenti si vive tutto in maniera più drammatica, e anche le storie che tendi ad amare da adolescente sono storie molto drammatiche, in cui c’è di mezzo la vita e la morte. Quindi anche con Francesco e Andrea abbiamo discusso se non fosse il caso di rendere questa storia con dei chiaroscuri più forti; poi ha prevalso la visione di Andrea e Francesco, che a posteriori ritengo assolutamente più giusta, di raccontare una normalità, quindi la palette di colori è fatta di toni più tenui rispetto a quelli a cui sono abituata. Dopo aver visto il film mi sono resa conto che avevano ragione loro, perché era più giusto e più fedele al tipo di racconto restituire quel tipo di sentimento, quell’agrodolce, malinconico, che, per esempio, c’è in Sing Street: questo happy sad che hanno loro.
Questo tono di commedia melanconica mi sembra proprio un classico di Francesco Bruni. Quando avete preso questa strada?
È stato qualcosa di definito fin da subito, è emerso proprio alle prime discussioni quando stavamo decidendo che tipo di film volevamo fare.
Con Andrea Molaioli collabori da tempo. Sei stata partecipe anche delle scelte di messa in scena o di produzione, magari in merito al cast?
Con Andrea c’è anche un rapporto di amicizia, quindi lui mi teneva informata dell’evolversi del progetto. Mi ha fatto vedere dei provini su cui ho espresso la mia opinione, poi ovvio la scelta definitiva l’ha fatta lui da regista, e io l’ho condivisa.
Al montaggio hai partecipato?
Ho visto una prima versione molto grezza, una messa in fila semplice, su cui ho espresso la mia opinione e poi ho visto una versione quasi finita, era qualche mese prima di Torino, e ho trovato che il film fosse immensamente cresciuto.
Visto che tu hai ormai una grande esperienza professionale, vorrei chiederti a che punto della lavorazione, inclusa la scrittura, ti rendi conto se le tue intenzione di autore si esprimono veramente nel film e quindi possono arrivare anche allo spettatore?
Ma direi che già in scrittura c’erano delle scene che trovavo molto riuscite. Ci sono diverse scene: dal colloquio con la psicologa, ad alcuni dialoghi tra Samuele e suo padre e alcuni momenti con il bambino. Queste scene già su carta erano alcune molto divertenti e altre emozionanti, quindi quel che è buono si vede già sulla pagina. Poi c’è sempre una variabile di messa in scena, ovvio, capita che una scena che funziona sulla carta, venga poi girata magari in condizioni sfavorevoli e sia meno efficace. Però in particolare in questo film, le scene che ho amato di più vedendolo, erano già le mie preferite in sceneggiatura. In questo caso la messa in scena e gli attori le hanno potenziate, azzeccandole in pieno. Una cosa che mi ha stupita sullo schermo è stata la chimica fra i due ragazzi, che è davvero incredibile, loro due sono bravissimi ed è un aspetto più forte rispetto alla sceneggiatura. La grande incognita quando si fa una storia d’amore è: al pubblico fregherà qualcosa di ‘sti due? E loro due stanno benissimo insieme, quindi la risposta è proprio si, ma è grazie alla chimica tra gli attori, più che alla scrittura. Perché in scrittura puoi cercare di far funzionare le cose al meglio, ma se non c’è chimica tra gli attori è tutto inutile. Quindi sia Ludovico Tersigni che Barbara Ramella sono davvero stati una sorpresa positiva per me.
Anche perché l’amore in realtà è una cosa misteriosa, scrivere perché due si innamorano è impossibile…
Si, quando si scrive ce lo si chiede: ma perché loro si innamorano? Uno da narratore cerca di costruire dei motivi plausibili, però finché non la vedi sullo schermo non sai se la storia d’amore funziona o no. Perché, come nella vita, uno non lo sa perché si innamora. Poi certo da scrittori si cerca di far arrivare il senso del sentimento, ma la scrittura da sola non basta.
Ti chiederei una battuta conclusiva sulla nuova legge cinema, che è in discussione. Qual è la tua opinione?
Mi sembra una buona legge, da quello che ho letto. È una legge che il settore stava aspettando da tempo, mi sembra un bel punto di approdo. Poi vedremo quello che succederà nell’attuazione pratica, ma mi sembra un successo per la categoria.
Grazie Ludovica! Invitiamo tutti ad andare a vedere SLAM – Tutto per una ragazza, che uscirà in sala a primavera.