Au plus près du soleil
Il regista Yves Angelo ha scritto con François Dupeyron e Gilles Legrand la sceneggiatura di Au plus près di soleil, Il film è stato presentato nella Selezione Ufficiale alla Festa del Cinema di Roma lo scorso 18 ottobre.
Yves Angelo ha una carriera trentennale nel cinema oltre che come regista e sceneggiatore, anche come direttore della fotografia.
Yves ci può raccontare in breve il soggetto del film?
La storia del film è l’incontro di una madre adottiva con la madre naturale del figlio. Ma la madre adottiva non rivela alla madre biologica che ha il suo bambino. Questo è il punto di partenza del film e partendo da questo c’è poi un intreccio di menzogne e non detto che arriva alla fine a delle situazioni estreme. Questo è quello che posso raccontare, senza svelare troppo.
È interessante che il film sia ambientato nel milieu giudiziario, la madre adottiva è un giudice e l’altra donna è uno dei suoi casi.
Questa scelta viene da due elementi. Da un lato volevo dei personaggi che fossero alle prese quotidianamente con il concetto della verità, della ricerca della verità, dell’onestà della verità. L’altra ragione è che qualche hanno fa ho girato un documentario sul rapporto tra un avvocato e il suo cliente, un dottore processato per l’omicidio dei suoi genitori; è una storia che ho ripreso anche nel film. Con il documentario sono entrato per due mesi nella filiera giudiziaria e mi ha molto interessato. Per questo nel film i protagonisti, la coppia di marito e moglie sono magistrati, lavorano entrambi nella giustizia.
Da dove nasce l’idea originale del film?
Inizialmente mi avevano proposto un romanzo da adattare, che però ho rifiutato. Era un libro americano dove il padre adottivo di un bambino ritrova la madre naturale, ma era una storia che non mi interessava. Allora il produttore che mi aveva chiamato mi ha proposto di partire solo dallo spunto dell’incontro improvviso tra i genitori adottivi e la madre biologica e sono partito da lì.
Come avete lavorato durante la scrittura del film? La sceneggiatura è firmata anche da Francois Dupeyron e Gilles Legrand.
In effetti non abbiamo proprio scritto in tre. Io ho iniziato a scrivere un soggetto di una decina di pagine, con la storia del film e poi abbiamo lavorato insieme a Francois Dupeyron per la sceneggiatura, l’abbiamo fatta in due. E Gilles Legrand che è anche il produttore, ha voluto solo modificare alcune cose, alla fine. È stata una scrittura a due. Ci vedevamo tutti i giorni e discutevamo le scene sulla base del soggetto che era già abbastanza definito. Una particolarità è stata che non abbiamo iniziato a scrivere finché non abbiamo avuto le scene della giudice, le scene di interrogatorio professionale tra le due donne. E siccome non ci sentivamo in grado di inventare il linguaggio appropriato dei magistrati abbiamo chiesto a due avvocati di fare un’improvvisazione, a partire dal nostro spunto. Ovvero una donna accusata di circonvenzione di incapace, in seguito al suicidio del suo amante, che le dava dei soldi. Abbiamo fatto l’improvvisazione due volte con due avvocati diversi e a partire da questo abbiamo scritto le due scene di interrogatorio. Una volta fatte quelle abbiamo iniziato a scrivere il resto della sceneggiatura. Di solito parlavamo di una scena, poi lui scriveva e poi io riscrivevo, in parte o anche per niente e poi procedevamo insieme.
Questo tema del rapporto tra verità e menzogna come l’avete lavorato durante la scrittura e che rapporto c’è rispetto alla messa in scena?
Con Francois Dupeyron avevo già lavorato come direttore della fotografia sui suoi film da regista. E in questi casi facevo anche l’operatore di macchina e lui mi lasciava filmare improvvisando, nel senso che non mi dice cosa fare, ma io giro in base alla mia percezione, senza fare prove, con la camera a mano, in funzione soprattutto di quello che sento, più che di quello che penso. Dunque mentre scrivevamo sapevo che poi avrei lavorato più o meno in questo modo, per evitare una manipolazione eccessiva della messa in scena, volevo una macchina da presa che non cercasse un effetto forzato sulla scena, ma che appunto fosse una ripresa in continuità della scena, nelle scene non ci sono tagli, è tutto di filato. Cercavo di avere questo effetto di fluidità, di lasciare gli attori liberi di muoversi all’interno della scena, senza fare tagli, lasciandoli recitare in continuità. E soprattutto filmare restando in questa sensazione presente della scena, molto più che pensare alla manipolazione dell’immagine e del pensiero. Però durante la scrittura non abbiamo mai parlato della messa in scena.
E sul set, rispetto ai dialoghi c’è stata improvvisazione o era tutto già scritto?
No era tutto scritto. Le uniche improvvisazioni sono state quelle che abbiamo fatto prima con gli avvocati per i dialoghi giudiziari. Ma gli attori non hanno improvvisato.
Il film mostra questi due personaggi femminili in contrasto e il personaggio del giudice esercita una specie di abuso di potere sull’imputata. C’è anche una riflessione etica, soprattutto sul tema dell’essere donna e madre.
Il personaggio di Sylvie Testud giudica l’altra donna proprio su questo, non su quello che riguarda l’ambito del suo giudizio professionale, alla fine la giudica per il suo modo di essere donna. Lei cosa ne pensa?
Si certo il giudizio va oltre il caso, sicuramente c’è un abuso di potere. È un potere professionale, ma anche di classe. Anche quando il marito, l’avvocato, che cerca sempre di stare nella verità, di dire le cose, quando è messo alle strette dalla sua menzogna lui si difende parlando al rapporto di classe, alla ragazza dice proprio “Tu non puoi fare nulla contro di noi, siamo magistrati e tu non sei nulla”. Per quel che riguarda il personaggio di Sylvie Testud direi che da subito lei ha una visione negativa di questa altra donna, che è peggiorata dalla delusione di scoprire che suo figlio viene dal quel ventre là. È questa l’idea che rifiuta. C’è anche una forma di gelosia inconscia del fatto di non aver tenuto in grembo il bambino, cosa che invece ha avuto l’altra, lei si vendica anche su questa donna per il fatto di non aver avuto mai figli. Poi c’è questa delusione, è una cosa stupida naturalmente, ma in un’altra situazione in cui lei fosse stata sedotta e avesse trovato ammirabile questa donna, che scopre essere la madre biologica del figlio, non si sarebbe comportata alla stessa maniera. C’è questa forte delusione che le impedisce di accettare che il figlio, che è un ragazzo splendido, va benissimo a scuola e lei lo adora, sia venuto da quella donna lì. Certo c’è una riflessione morale, legata all’abuso di potere. Ma l’abuso di potere nell’ambiente giudiziario esiste, sia in modo consapevole che non. Fa parte del lato umano della professione, si può essere più indulgenti verso qualcuno che ci affascina e più severi verso un altro che non ci piace. Ma sui due personaggi femminili trovo che una cosa importante viene fuori nel dialogo con l’avvocato al bar, in cui lui chiede quale sia il ruolo della donna e lei risponde che il ruolo della donna è di restituire il potere all’uomo, è questo il suo vero potere di ridare questo potere all’uomo. E lui dice: no il vero potere della donna è ridare la vita. Trovo che questa idea del ridare potere all’uomo sia importante nella relazione fra le due donne, perché al contrario Sylvie Testud non restituisce affatto questo potere al suo uomo. E in più per l’avvocato il potere della donna è dare la vita e sua moglie non ha fatto nemmeno quello, non ha partorito il figlio.
Il personaggio della madre biologica Juliette è una mangiatrice di uomini e invece l’avvocato resiste a lungo ai suoi tentativi di seduzione.
Ma lui non è assolutamente attratto sessualmente da lei, è deluso, come sua moglie. Non c’è seduzione, a un certo punto l’avvocato è costretto a mentire a questa donna per avere un contatto con lei, poi lui le da dei soldi, una specie di risarcimento per quello che fa sua moglie, su cui non è d’accordo. Ma non c’è mai desiderio amoroso e quando finisce a letto con lei lo fa perché è lei che si aspetta quello, perché non può dirle la verità e spiegare il vero motivo del suo interesse. Non può certo dirle che è il marito della giudice. Lui si concede perché è un modo di evitare di dare una risposta, ma non c’è desiderio in lui, è un modo di sfuggire alla verità.
Lei ha lavorato come direttore della fotografia e regista, oltre che sceneggiatore. Che cosa le ha portato questa esperienza nei diversi mestieri del cinema? Ci sono delle similitudini similitudini nel processo creativo?
Per me è più o meno la stessa cosa, è sempre fare lo stesso mestiere, nel senso che c’è uno scopo comune. Come direttore della fotografia si lavora per un regista, si collabora a un’idea di messa in scena, che si traduce in immagine e nel lavoro della macchina da presa, ma prima di tutto c’è una riflessione sul senso di una scena, sul senso della messa in scena. È sempre una questione di senso, non si lavora l’immagine solo per la bellezza in sé, c’è sempre un rapporto stretto con la messa in scena. Quando faccio il direttore della fotografia cerco sempre di collaborare con il regista, non nel senso di aiutarlo, ma di sostenere al meglio il suo lavoro, attraverso il lavoro sull’immagine e il lavoro della macchina da presa. E come sceneggiatore lo scopo è sempre un film. È vero che una sceneggiatura è la base di partenza, ma a quel punto non si sa come sarà il film. La sceneggiatura cambia nel momento in cui va in mano agli attori, i personaggi esistono in quanto esseri fisici, corporei, la sceneggiatura non può prevedere queste cose. Poi c’è tutto quello che si nutre del lavoro del set, della regia, delle prove, degli attori. Un film è un oggetto in movimento, che cambia continuamente, non è fisso, non è come una sceneggiatura dove c’è una pagina bianca su cui si scrive e poi rimane così, il film è in costante movimento. Nella scrittura c’è anche movimento, perché scrivendo c’è evoluzione, ma una volta finito di scrivere non si muove più. Mentre nel film c’è un movimento di costante divenire, dalle scene, prima di girarle, non si può sapere cosa ne verrà fuori. E la direzione degli attori è proprio questo: a volte un personaggio si definisce nel corso del film, viene capito a fondo solo vedendolo vivere e magari nella sceneggiatura lo si era immaginato diverso, questo succede spesso.
Per quel che riguarda le somiglianze, si certo che ci sono. La prima è la passione che questi mestieri richiedono, il desiderio e la passione di fare cinema. Poi nel lavoro c’è sempre l’elaborazione di un pensiero che quando si tratta della sceneggiatura è la narrazione, lo stile e i dialoghi e quando si tratta delle riprese è caratterizzato dallo stile della messa in scena e la curiosità che si risveglia sui personaggi.
Crede che il cuore di un film siano i personaggi e le relazioni fra di loro?
Da quando lavoro nel cinema ho sempre pensato che il cuore di un film siano gli attori, dunque si i personaggi. Su un set non è la scenografia, bisogna sempre partire dai personaggi, anche nel mettere le luci penso sempre a quello. Non si illumina un ambiente, ma una relazione tra personaggi. È quello che provoca questo rapporto che mi porta a scegliere dove mettere le luci e anche come filmare la scena. Il personaggio è al centro di tutto. Dunque l’attore. Questo anche in film molto contemplativi, non esclude che ci siano immagini di paesaggi, della terra, del cielo, non c’entra niente. Quando si filma la terra, la terra diventa un personaggio. Ma la maggior parte dei film sono personaggi che agiscono.
Lei ha lavorato anche per la televisione, che differenze ci sono rispetto al cinema?
In realtà ho fatto poche cose e sempre lavori abbastanza sperimentali. Ho fatto dei documentari: uno su un pittore, uno su un caso giudiziario, come vi dicevo, poi ho girato uno spettacolo teatrale di Fabrice Luchini. Poi ho fatto un adattamento di un monologo, fatto come un falso documentario. Sono tutte cose un po’ particolari. Ma per me non ci sono differenze, quando ho una macchina da presa, che sia per la televisione o il cinema o internet, per me è lo stesso, inquadro sempre dei personaggi, è sempre lo stesso sguardo, è tutta una questione di sguardo, quello che si chiama l’audiovisivo. Non so magari tra trent’anni il cinema non esisterà più, tutti vedranno le cose sui computer e sui tablet.
Non è un feticista della sala cinematografica?
Si certo trovo che nulla sia meglio del grande schermo e della sala buia, ma allo stesso tempo non mi faccio illusioni, vedo come sta evolvendo il cinema. Adesso i film… c’è un ventaglio di scelte molto ampio e i giovani sono talmente formati ad altro, rispetto a noi. Insegno nelle scuole di cinema e lo vedo. Mi ricordo quando studiavo cinema io, si parlava di cinema italiano, di Fellini, Visconti, Pasolini, poi Ejzenstejn, Tarkovskij, Bergman erano i referenti assoluti, la base. E poi il grande pubblico andava a vedere questi film, mi ricordo a Parigi negli anni ’70 c’erano le file per vedere Fellini. Oggi non è che non interessi più, ma per i giovani non c’è più l’effetto di meraviglia. Adesso c’è più banalizzazione, adesso tutti parlano delle serie, può essere che il cinema diventerà tutto serie. Ma non sono pessimista, non voglio dire che era meglio prima. Adesso con l’evoluzione tecnologica del cinema è normale che il mestiere stia cambiando. Tra dieci anni un qualsiasi amatore potrà comprarsi una videocamera e fare un film proiettabile su uno schermo. Non apparterrà più a un élite.
L’audiovisivo diventerà una forma di scrittura.
Si esatto, come adesso tutti scrivono, poi ci sono dei romanzi che sono venduti e hanno successo e altri no e anche al cinema succederà sempre di più così.
Ci interroghiamo spesso sulla questione del budget, lei pensa che un basso budget porti a una cattiva qualità dei film o che i limiti possano essere uno stimolo alla creatività? In che situazione ha lavorato con Au plus près du soleil?
Questo è interessante, io sono una persona molto rispettosa, nel senso che davanti a un produttore non discuto, c’è un budget che lui mi dà e mi accontento. Come direttore della fotografia ho fatto dei grossi film, con molti soldi e molti mezzi e adesso questo non mi interessa più. Non ho più voglia di avere cinquanta persone sul set, di avere delle scenografie pazzesche, non mi va più questo genere di cinema, quindi mi va bene il basso budget. Se mi offrissero un film a duecentomila euro lo farei subito, può essere un limite è vero, ma allo stesso tempo c’è libertà nel basso budget, perché non si è costretti a fare molto pubblico. Il film se è visto da duemila spettatori va bene, l’importante non è quello, l’importante è di farlo, con un film a basso budget ci sono meno rischi. Quindi c’è la libertà di filmare… io per esempio essendo anche direttore della fotografia non ho bisogno di equipe tecnica, prendo la macchina da presa e posso filmare e questo rassicura molto, io posso fare un film con sette persone di troupe, in Au plus près du soleil eravamo una dozzina sul set. Dunque non credo che ci sia legame tra basso budget e bassa qualità, la qualità di un film è definita dallo sguardo e non c’entra coi soldi. Poi è vero che può esserci poco tempo per lavorare con gli attori, adesso si fanno i film in 30 giorni e quando ho iniziato io 60 giorni era il tempo di riprese di un piccolo film. Per esempio questo modo di girare con camera a mano, in continuità con gli attori, è uno dei modi migliori di lavorare quando si ha poco tempo. Au plus près du soleil l’ho girato in 29 giorni, ma soprattutto ci siamo presi il tempo di lavorare con gli attori, loro provavano le scene un paio di volte e non appena erano pronti giravamo. Dunque non c’era tutto il tempo di preparazione delle inquadrature, non avevamo da fare dieci inquadrature in una giornata. Potevo avere cinque minuti di girato in 45 minuti di riprese, ma lavorando con gli attori quattro o cinque ora prima. Il basso budget e una troupe snella permettono questo.
La WGI vuole difendere i diritti degli sceneggiatori sia per quel che riguarda i contratti, che il credito artistico che di solito è attribuito esclusivamente al regista. Lei cosa ne pensa e com’è la situazione degli sceneggiatori in Francia?
Anche in Francia, come in Italia, è sempre più difficile fare film e succede che quelli che riescono più facilmente a realizzare delle opere prime non sono i registi, ma gli sceneggiatori. Perché nel cinema tutto si muove a partire dalla sceneggiatura, adesso è la sceneggiatura che decide tutto, non il regista. I finanziatori leggono la sceneggiatura e approvano quella, se ne fregano di chi sia il regista, quello che li interessa è la storia del film e poi del modo di girare se ne fregano completamente. Anche per questo ultimamente c’è una banalizzazione dello stile della messa in scena, perché non importa, l’unica cosa che interessa è la storia che si racconta. In Francia poi ci si è accorti che mancavano dei bravi sceneggiatori e anche i giovani che scelgono questa strada sono sempre di più. E anche i produttori si rendono conto di questa importanza, prima era il regista che guidava, si mettevano i soldi sul suo nome e a volte la sceneggiatura non importava proprio. Oggi non è così. A livello di credito artistico è vero che è considerato solo dalla gente del mestiere, il pubblico non conosce bene il lavoro dello sceneggiatore. Ma anche a livello economico il trattamento è ancora impari, le sceneggiature sono pagate poco e anche se i produttori si rendono conto della loro importanza, che bisogna pagare una sceneggiatura, bisogna svilupparla, ci vuole tempo e questo comincia a cambiare. Molto è stato grazie alle serie, perché una serie impegna cinque o sei sceneggiatori e adesso tutti stanno sviluppando progetti seriali. La sceneggiatura è fondamentale, perché è la base del lavoro ed è quello su cui si costruisce l’unione di tutte le persone che lavorano a un film.