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S is for Stanley

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
Vincenzo Scuccimarra, socio WGI, ha scritto con  il regista Alex Infascelli la sceneggiatura di S is for Stanley. Il documentario viene presentato nella sezione Omaggi, la sera del 17 ottobre al Maxxi e la sera del 24 al Cinema Aquila.
Protagonista del documentario è Emilio D’Alessandro che con Filippo Ulivieri ha scritto il libro Stanley Kubrick e me e co-firma la sceneggiatura del doc.

Caro Vincenzo, cominciamo dal titolo, si allude a una sigla… Da dove l’avete derivato?

Dall’iniziale con cui Stanley Kubrick siglava buona parte delle note che lasciava a Emilio D’Alessandro, con le sue istruzioni e raccomandazioni ma anche con i suoi incoraggiamenti e stati d’animo. Questo materiale prezioso lo mostriamo nel film.

Il plot: cosa accade in questo documentario, cosa dobbiamo aspettarci di vedere?

E’ la storia di una grande amicizia tra due uomini provenienti da mondi ed estrazioni diverse,accomunati dall’attenzione e la cura che applicavano al proprio lavoro. Un legame che da professionale diventa ben presto personale.

Autisti confidenti: da Sabrina a Spasso con Daisy, a House of cards abbiamo visto spesso l’auto trasformarsi in un confessionale e l’autista in terapeuta, consigliere, amante. Che rapporti c’erano tra D’Alessandro e Kubrick?

In realtà il rapporto tra i due nasce con l’ingaggio di Emilio come autista ma si evolve ben presto in un’ altra direzione. Emilio diventa un vero e proprio factotum per Kubrick, sul set come nel privato. Gli viene affidato qualsiasi incarico che richieda precisione, cura, tempismo. Per il regista diventa un punto di riferimento. Ad un certo punto si ha decisamente l’impressione che Stanley sia diventato dipendente da Emilio. Ma è vero anche il contrario, Emilio senza Stanley, che lo chiama ogni mattina per dirgli cosa fare, si sente perso.

Come è stato sviluppato il processo di scrittura? Da che idea siete partiti?

Personalmente sono partito dal lavoro di Alex, quello che aveva girato e raccolto come documenti, note, immagini.

Il libro di Emilio e Filippo Ulivieri non l’ho letto, volutamente.

Per Alex e me il lavoro è stato scoprire la storia partendo da quello che diceva Emilio nell’intervista con Alex, dai cimeli, i documenti, le note di Kubrick.

Da questi elementi però, per farne un film, bisognava estrarre “la storia”. Questo è stato il compito che ci siamo dati io e Alex, senza neanche dircelo troppo, per istinto. Con un procedimento direi quasi archeologico, partendo dai reperti, le note, gli oggetti e i ricordi di Emilio registrati da Alex, abbiamo estratto la storia.

Come avete lavorato insieme?

Il lavoro preparatorio di Alex è stato ingente. Quando sono arrivato io siamo partiti dal catalogare tematicamente ogni documento, foto e nota che gli aveva fornito Emilio; in tante cartelline raccoglievamo le fotocopie di questi reperti. Poi siamo passati a strutturare un racconto; da lì, mano a mano che vedevamo affiorare la storia, abbiamo iniziato ad articolare in maniera più approfondita la narrazione. Alex aveva un’idea stilistica molto interessante, consona al mondo e ai personaggi che stavamo affrontando. Il documentario, fatto di note, oggetti, reperti, carte, narrato da un uomo che si è sempre sporcato le mani, un lavoratore manuale, doveva avere una sua matericità, una sua concretezza “analogica” retrò. Questo era il “ limite” che ci siamo posti attraverso cui doveva passare il nostro racconto: non usare niente che non ci venisse dalle cose conservate o narrate da Emilio.

Di Kubrick sono note le fobie, le manie ossessive per la precisione dei dettagli, la difficoltà di rapportarsi con le persone… Sembra che un chiassoso italiano in casa potesse essere l’ultima cosa da fare. Che avete scoperto di nuovo?

Non definirei Emilio un chiassoso italiano, tutt’altro. E’ una persona di estrema riservatezza.Calmo, silenzioso, efficiente. Una persona pratica. Uno che più che parlare, fa. Ma la cosa più affascinante è che Emilio non vedeva Stanley come il più grande regista di cinema della sua epoca. Quando lo ha conosciuto non sapeva neanche chi fosse Stanley Kubrick. E anche dopo, quando ha capito che era un regista importante, non lo hai mai trattato come un genio ma sempre come un datore di lavoro impegnativo e una persona che stimava. Questa è una delle chiavi del fascino che Emilio esercitava su Kubrick. Kubrick si sentiva trattato come una persona comune e apprezzato per quello che era, con tutte le sue manie e idiosincrasie. Emilio ha iniziato a lavorare per Stanley nel 1971 ma fino alla fine degli anni novanta non ha mai visto un film di Kubrick! Insomma, per Emilio, Kubrick non era Kubrick, era Stanley.

Che uomo è D’Alessandro? Il documentario riesce a raccontare anche di lui, o il personaggio Kubrick lo schiaccia?

Direi che il film racconta bene entrambi focalizzandosi sul loro rapporto, un’ amicizia unica, un legame professionale ma anche affettivo molto intenso. Abbiamo capito che abbiamo toccato un tema, quello dell’amicizia maschile, vista come complicità, solidarietà, intesa affettiva, di cui si parla poco, per pudore, perché si teme sempre che parlando di questo sentimento forte che può legare due uomini, si mascheri l’omosessualità, che è tutt’altra cosa.

In questo caso si tratta dell’amicizia tra uomini che è una cosa antichissima, ancestrale. Secondo me deriva dalla lotta per la sopravvivenza e dalla guerra, quando in situazioni estreme, due combattenti si sceglievano per darsi manforte e sapevano che la propria vita dipendeva da questo affidamento reciproco. Mi permetto di parlare di questo anche perché in qualche modo è legato a Kubrick. Nel suo cinema la guerra è un tema centrale, interrogarsi sulla guerra era un pensiero ricorrente in Kubrick. La guerra intesa come l’evento che mette a nudo gli uomini, nel bene e nel male.

Il documentario sembra diventata la strada per affrontare temi intellettuali o sociali, che il cinema e la fiction respingono. Pensi che tanti registi non farebbero documentari se potessero fare film più liberamente?

Il documentario creativo è un genere che ti dà soddisfazioni che il cinema di fiction non ti può dare. E viceversa… Questo i registi più moderni e accorti lo sanno e scelgono, a seconda di quello che vogliono raccontare. Comincerei anche a mettere in discussione la demarcazione, da guerra fredda, tra documentari e film di finzione. Nella nostra realtà mediatica, andrebbe tutto ripensato. E’ in fondo tutto entertainment e do a questo termine un significato esteso che comprende anche prodotti non di pura evasione. Personalmente trovo molto più divertenti, emozionanti e coinvolgenti alcuni documentari che tanti film di finzione. In realtà bisogna fare documentari con gli strumenti di storytelling usati abitualmente per fare film di finzione e viceversa: fare film di finzione partendo da una rigorosa documentazione sui fatti, sul mondo che si vuole raccontare. Quando questo non avviene si hanno documentari che lasciano indifferenti e film di finzione che lasciano perplessi.

Parliamo di distribuzione: come sai bene, le sale attraversano una profonda crisi, mentre Netflix distribuisce contemporaneamente anche sul web il film che ha prodotto. Tu che ne pensi?

La risposta a questa domanda sarebbe lunga e complessa. In questa sede mi limito a dire che come spettatore vorrei avere il maggior numero di opzioni possibili per vedere quello che mi attrae. E’ chiaro che, in questa rivoluzione di consumo dei contenuti che si sta attuando grazie alla rete, va tutto ripensato, anche la fruizione in sala. Probabilmente per ogni film si dovrebbe prevedere un percorso diverso, mirato alle caratteristiche specifiche del film. Ma comunque la si veda, sia per i film che puntano alla sala come fonte principali d’incassi, sia per le opere più di nicchia che possono avere uno sfruttamento diverso, sedersi in tanti al buio a provare delle emozioni insieme può essere sempre “fico”. Uso questo termine “fico”, perché qui si gioca secondo me il futuro della fruizione collettiva dei film. E’ “fico” andare in quel posto a vedere quel film? Questo farà la differenza.

Entro dicembre dovrebbe essere approvata una nuova legge sul cinema che preveda una tassa di prelievo alla francese e un centro unico per il cinema. Che ne pensi?

Non posso rispondere a questa domanda perché non ho letto abbastanza e non ho tutti gli elementi per giudicare. Il che mi fa venire il sospetto che forse bisognerebbe coinvolgere maggiormente tutti gli addetti ai lavori ma anche i cittadini, gli spettatori, per metterli al corrente di quello che si intende proporre.

Tu ti occupi da anni di cortometraggi, li hai realizzati come regista, li hai prodotti, li selezioni per festival, li acquisti per una tv satellitare. A Venezia in molti si sono lagnati che i corti sono soldi buttati, che non fanno rientrare dei costi e che considerarli solo un biglietto da visita per “piazzare” il regista è un sistema ad estinzione. Tu che ne pensi?

Credo che questa sia un’ opinione molto gretta e provinciale. I corti continuano ad avere un mercato nel mondo, e anche in Italia, dove sono regolarmente acquistati, ad esempio da Studio Universal, il canale pay per cui lavoro, e da altre realtà satellitari e del digitale terrestre. Inoltre sono sempre più le aziende private, gli sponsor o le iniziative sociali che investono sui corti. Ti parlo di progetti d’eccellenza. La forma breve si è in realtà espansa aldilà dei confini del semplice biglietto da visita per aspiranti registi e , nelle sue svariate declinazioni, soprattutto seriali, è dominante nel mercato audiovisivo della rete.

La WGI pensa che anche in Italia, per dare fiato all’industria cinematografica, bisogna rispettare la triade autore, produttore, regista e non schiacciare tutto sull’unico ruolo del regista. Tu che ne pensi?

Penso che non bisogna essere dogmatici perché i casi sono tanti. Il rispetto è dovuto a tutti coloro che partecipano ad un progetto creativo ma chi ne è la forza trainante e il fulcro non è necessariamente una triade, dipende dalle circostanze. Per tornare a S is for Stanley, se non ci fosse stato un regista come Alex Infascelli con la sua forza propulsiva, la sua visione e la sua tenacia, non ci sarebbe stato questo film.

L’intervista è a cura di Giovanna Koch

Scrittori a Roma – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla Festa del Cinema di Roma (16-24 ottobre 2015).
Le foto sono messe a disposizione della stampa da filmitalia.org, che ringraziamo.

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