7 minuti
Toni, mi racconti la trama del film?
Il film parte da una pièce teatrale di Stefano Massini, ad oggi uno degli autori più importanti del teatro italiano, e racconta la storia di un gruppo di operaie di una fabbrica, una fabbrica tessile, che viene acquisita da una multinazionale francese, la quale convoca subito un Consiglio di fabbrica. Questa convocazione provoca immediatamente il panico fra le operaie: pensano che saranno spostate, o peggio ancora licenziate. Il Consiglio è formato da undici operaie, con una delegata che parteciperà alla riunione con la dirigenza.
Il film si divide nettamente in due parti.
C’è una prima parte che descrive il background dei personaggi e racconta l’attesa di queste undici donne, che sono lì in nome di altre trecento operaie, mentre Bianca, la loro delegata, partecipa alla riunione. Si raccontano i rapporti, le aspettative, le paure di queste undici donne. Finché a un certo punto Bianca esce, e uscendo porta ad ognuna di loro una busta, in cui è contenuta quella che è la richiesta della dirigenza. Una dopo l’altra le donne aprono la busta, leggono, e si mettono a ridere. Perché la richiesta è veramente assurda, a suo modo. Quello che chiede la dirigenza per lasciare tutto com’è, perché nessuna di loro venga toccata, è che rinuncino a 7 minuti della loro pausa pranzo. Naturalmente la prima reazione è quella di dire: assolutamente sì, figuriamoci, noi ci aspettavamo di essere licenziate, figuriamoci se non siamo disposte a rinunciare a 7 minuti. Però Bianca, che è stata dentro, che ha avuto modo di raccogliere in qualche modo gli umori della dirigenza, ha intuito qualcosa che non le quadra in questa richiesta, le sembra tutto troppo semplice.
Cosa vuol dire concedere 7 minuti?
Ecco, è a questo punto che il film entra davvero nel vivo e trova il suo riferimento in un altro grande film che è La parola ai giurati, in cui come qui tutto è giocato intorno a un tavolo. Man mano che il racconto va avanti si comprende meglio che cosa vuol dire concedere 7 minuti.
Intanto non si tratta soltanto di 7 minuti. Le operaie sono più di trecento, e se ognuna concedesse 7 minuti alla dirigenza, la dirigenza si ritroverebbe un numero enorme di ore da non dover pagare più.
E poi c’è un valore simbolico. Quello che dice Bianca è: se noi accettiamo questa cosa creiamo un precedente, perché avremo concesso qualcosa, e nulla vieterà loro di continuare a chiederci di concedere altro. E tutto questo ragionamento si dipana, fino ad arrivare ad un finale in cui man mano il gruppo che era prima compatto si va dividendo, prima in due, metà vogliono accettare la proposta e metà no, poi il discorso si sbilancia finché un solo personaggio si trova ad avere la responsabilità della scelta definitiva. E poi… e poi il finale non te lo racconto.
Il film è l’adattamento di un’opera teatrale. Mi racconti come avete lavorato, quali sono le differenze fra il testo teatrale e il film, e quali sono le difficoltà che avete incontrato nella trasposizione di un testo teatrale in un’opera cinematografica?
Il testo aveva una compiutezza che era difficile da smembrare. Questo è stato il primo impatto. E aveva un grande ritmo, una grande forza, proprio nella scrittura, che dovevamo in qualche modo adattare, ma rispettare.
Probabilmente la cosa più ardua da gestire è stato il riportare in sottotesto tutto quello che invece in un testo teatrale è esplicitato, perché il teatro appunto ha la forza della parola e della presenza scenica. Qui c’era da lavorare su delle sfumature.
Michele Placido voleva stare addosso ai personaggi, sentirli fisicamente, non necessariamente nella loro espressione verbale. Poi naturalmente c’era la necessità di uscire dallo spazio unico. Altrimenti il film sarebbe stato claustrofobico. L’idea è stata quella di creare un background dei personaggi, di raccontare la loro provenienza, quindi di creare un “prima”, un antefatto rispetto al nucleo narrativo del testo teatrale, che è appunto tutto concentrato nella nell’attesa e nella riunione poi con Bianca. Nel film si raccontano le vite dei personaggi, il loro rapporto col mondo esterno, tutto un vissuto che poi viene fatto deflagrare nello spazio della fabbrica, che diviene così luogo di sintesi di esistenze diverse.
Avete lavorato insieme all’autore?
Michele ha avuto frequentissimi scambi con Massini, il quale devo dire ci ha lasciato una grande libertà. Sono nati per esempio dei personaggi che non erano previsti nel testo originale. Non ci sono state divergenze di alcun tipo nella scelta del background dei personaggi, sempre sulla base delle suggestioni presenti nel testo, naturalmente. Quindi devo dire che è stato un rapporto molto armonico.
Da un punto di vista pratico, come è stata la suddivisione del lavoro? Facevate riunioni tu e Placido, tornavi a casa a scrivere, o scrivevate insieme?
Ci sono state tre fasi di lavoro. C’è stata una prima fase in cui abbiamo cercato di capire come andava affrontato il testo. Abbiamo fatto insieme delle letture per individuare i punti di rottura, le parti su cui andare a lavorare. E poi è cominciata una fase in cui Michele si è messo in gioco non solo come regista e sceneggiatore, ma anche come attore. Abbiamo lavorato molto sulla psicologia dei personaggi, e abbiamo cercato di trasformare ciò che era solo dialogo in azione. Questa è stata la fase più corposa. Poi è cominciata una terza parte, in cui è entrato in gioco il cast del film.
Il lavoro con le attrici ha avuto un grande peso. E’ una tecnica che ho visto sempre mettere in atto da Michele, da quando lo conosco. Quella di mettere il testo in mano agli attori e fare in modo che gli attori anche lo distruggano, lo stravolgano, ma per farlo diventare proprio, per fargli perdere le connotazioni letterarie.
Ognuna delle attrici ha portato la sua visione del personaggio. In questo senso sia Michele che Massini stesso hanno lasciato loro la massima libertà.
Questa per me è stata la parte più interessante del lavoro. Dopodiché si è trattato di riportare queste suggestioni nel testo e di restituirle in forma di sceneggiatura. E’ un film che è nato veramente da una condivisione, e credo che questo si senta moltissimo.
Tu sei anche e soprattutto un regista, anche se in questo film ricopri il ruolo di sceneggiatore puro. Non è la prima volta, per cui volevo da te un parere sui due ruoli, quali sono per te le differenze, se ci sono, e cosa hai imparato, se hai imparato qualcosa.
In realtà ogni volta il rapporto con la sceneggiatura diventa per me una messa alla prova anche come regista. Chi lavora con lo sguardo è sempre tentato di piegare le esigenze della storia alla propria visione. Il fatto di dover fare i conti con la scrittura, con quelle che sono le regole, le esigenze strutturali, credo che in qualche modo mi abbia messo in condizione di tenere in considerazione elementi a cui da regista probabilmente avrei dato meno peso. Quindi ora so che con la storia, con la scrittura bisogna fare i conti ed è un passaggio fondamentale perché poi il lavoro da regista possa avere davvero una compiutezza.
Tornando alla trama di 7 minuti. Ancora oggi, nel 2016, siamo qui a parlare di fabbriche, di diritti dei lavoratori…
Oggi più che mai. Continuano a esserci dismissioni di fabbriche, casse integrazioni. E’ un tema di cui in altri tempi si è parlato moltissimo e che oggi viene passato spesso sotto silenzio, ma che continua a essere estremamente attuale. L’operaio è un po’ fuori moda come figura, ma continua a essere uno dei pilastri della nostra società e della nostra economia.
Non soltanto operai, ma operaie. Una storia di donne…
Sì. Questo è il vero valore aggiunto del film. Quasi sempre il tema del lavoro viene raccontato in chiave maschile. Ma la storia della classe operaia in Italia è soprattutto una storia di donne. Molte delle occupazioni delle fabbriche le hanno fatte loro. Mentre gli uomini andavano a trattare con i sindacati, battevano i pugni sul tavolo, chi si esponeva nelle manifestazioni erano soprattutto loro, le donne.
Devo dire, negli ultimi anni ci sono altri film che ne hanno parlato, il penultimo film dei Dardenne, per esempio, racconta la storia di un’operaia e chiaramente ci sono delle assonanze. Anche se quella dei Dardenne è una visione, come dire, lacerata, mentre qui, comunque, ci sono donne che cercano una pacificazione. Sono lacerate all’inizio, sono spaventate, ma alla fine cercano di instaurare un rapporto con la realtà che possa essere pacificato.
Visto che parliamo di diritti dei lavoratori, volevo farti una domanda che da sceneggiatore e socio fondatore della WGI mi sta molto a cuore e che esula dal caso specifico di questo film. In generale, il regista lavora a strettissimo contatto con tutti i reparti della lavorazione di un film. Fotografia, scenografia, costumi, montaggio—riunioni su riunioni. Col direttore della fotografia il regista spesso pianifica l’intero film inquadratura per inquadratura. Eppure non si sognerebbe mai di firmare la fotografia. Invece in Italia si dà per scontato, almeno nel cinema, che il regista debba firmare sempre e comunque la sceneggiatura, anche se non mette mano alla tastiera. Perché, secondo te?
Perché abbiamo avuto la politica degli Autori. C’è un retaggio storico che assegna al regista l’autorialità del film. Credo però che sia una tendenza che si sta smorzando negli ultimi anni, quantomeno idealmente, poi nella pratica, certo, si entra in dinamiche di scambio lavorativo più complesse. Però credo che le nuove generazioni dei registi abbiano molto chiaro qual è il peso degli sceneggiatori all’interno dei loro film.
7 minuti sembrano pochi, ma rappresentano qualcosa di molto più grande. Anche una semplice firma sui titoli di testa può sembrare poca cosa, ma forse meriterebbe un dibattito più approfondito, proprio come ci hanno insegnato queste undici donne…
Assolutamente. Si parla di lavoro. Bisognerebbe cominciare a considerare la questione in termini di lavoro, prime che di autorialità. Forse basterebbe questo.