Fino a qui tutto bene
Potete farci un pitch del vostro film in poche righe?
L’ultimo weekend di cinque ragazzi che hanno studiato e vissuto nella stessa casa, dove hanno consumato sughi scaduti e paste condite col nulla, lunghi scazzi e brevi amplessi, nottate sui libri e feste all’alba, invidie, gioie, spumanti, amori e dolori. Ma adesso quel tempo di vita così acerbo, divertente e protetto, sta per finire e dovranno assumersi le loro responsabilità. Prenderanno direzioni diverse, andando incontro a scelte che cambiano tutto. C’è chi rimane nella propria città, chi parte per lavorare all’estero. Il racconto degli ultimi tre giorni di cinque amici che hanno condiviso il momento forse più bello della loro vita.
Com’è nato il film? Cosa vi premeva raccontare?
Siamo stati chiamati dall’Università di Pisa a svolgere una ricerca sull’ateneo pisano. Da quelle interviste, da quella ricerca è nato Fino a qui tutto bene. Siamo rimasti colpiti dalla vitalità, innocenza e allo stesso tempo consapevolezza dei ragazzi che abbiamo conosciuto. Dopo qualche mese, ci è venuta in mente una piccola ma bella idea, per fare un film dai costi ridotti, ma dai contenuti importanti. Abbiamo rielaborato tutti quegli aneddoti divertenti e significativi, che ci avevano raccontato, e abbiamo provato a fare un racconto corale degli ultimi tre giorni di studenti fuorisede nella loro casa. Quello è stato il luogo dove questo gruppo di amici ha vissuto negli anni dell’università e delle borse di studio a singhiozzo, tipiche di questi tempi. Abbiamo cercato di non allontanarci troppo dalle storie di vita reale con cui eravamo venuti in contatto, ma allo stesso tempo abbiamo cercato di dare una forza, una vitalità e suggerire un lato ironico che amiamo molto inserire nelle nostre storie. Cinque amici, ognuno con un problema diverso: chi deve andare all’estero a studiare, chi deve tornare dai genitori, chi è costretto a rimanere a Pisa da solo…
Roan, quale peso dai all’elaborazione della sceneggiatura nella creazione dei tuoi film?
Molto grande. Ho studiato al Centro Sperimentale come sceneggiatore, tutta la mia prima parte di quella, che ho un po’ imbarazzo a chiamare “carriera”, è stata da sceneggiatore, quindi è ovvio che per me viene sempre prima il lavoro sui personaggi e sulla storia. Anche questo, pur se in maniera più soft de I primi della lista, è un film nato dalla verità, da un lavoro di ricerca documentaria. Tuttavia mi sembra che più vado avanti e più inizio a ragionare anche in scrittura più “da regista”. Sto più attento alle immagini che voglio vedere, agli attori con cui mi piacerebbe lavorare, alla difficoltà o meno di una scena da un punto di vista registico e in questo caso anche produttivo. Insomma mentre prima ero uno sceneggiatore che ad un certo punto è anche “costretto” a filmare quello che ha scritto, sto andando nella direzione di essere un regista che ha bisogno di una storia da mostrare. Speriamo di non finire a fare lunghe carrellate su colline kazake con una musica triste di sottofondo.
Come funziona Roan Johnson scrittore? Quali sono le tue abitudini quando ti metti al lavoro?
La scrittura non è per me un momento di grande serenità: la vivo come una fatica. Quando lavoro in gruppo sono più contento. Se scrivo da solo, metto musica a palla; vario molto, ma direi più che altro classica o elettronica. Posso ascoltare anche house e disco, mi agito sulla sedia. Potessi, ballerei. Ho bisogno di interrompere il processo molte volte. Caffè, the, liquirizia, tisana, facebook, twitter. Sono un pessimo scrittore in solitaria, insomma. In questo senso, scrivere due romanzi mi ha aiutato molto, è stata una palestra per arrivare poi a scrivere copioni con più facilità. Il romanzo è una maratona, il copione sono i dieci mila a ostacoli. Amo il dialogo. Le sinistre (lo so farò inorridire gli sceneggiatori più puri e letterari) le soffro e spesso le scrivo dopo. Se dovessi dire perchè sono diventato regista, è stato anche per questo. Sono un animale sociale, da gruppo, da festa, da set.
Roan, non hai scritto questo film da solo, ma con Ottavia. Come si è svolta la vostra collaborazione?
Come abbiamo detto, questo film è nato da alcune interviste fatte all’Università di Pisa a studenti e professori. Il primo video ha avuto un suo successo e l’Università ci ha chiesto di realizzare un documentario completo. Ma noi non avevamo trovato il “personaggio sociale” da seguire o un tema che ci interessava esplorare, perchè unico e importante. Quindi ci eravamo quasi arresi. Poi ad Ottavia è venuta l’idea (che fondamentalmente è l’idea del soggetto) per costruire un film molto low budget. In quel momento, le storie dei personaggi e i loro conflitti ci erano abbastanza chiari: il materiale umano della ricerca si mischiava alle nostre personali storie ( siamo tutti e due laureati all’Università di Pisa). Io e Ottavia abbiamo iniziato a scrivere, senza contratto e senza certezza di essere prodotti, anzi sapendo fin dall’inizio che avremmo provato ad autoprodurlo con pochissimi soldi, quindi la scrittura è nata quasi come un gioco. Stiamo insieme, viviamo insieme, lavoriamo su altre cose insieme, quindi ci capitava parlare di una scena o della parabola di un personaggio, un giorno che eravamo al mare, o davanti al computer… è molto difficile parlare di riunioni, o di una modalità di lavoro “tradizionale”. La chicca è stata che l’inizio della scrittura e il set, l’abbiamo fatto con Ottavia incinta del nostro primo bimbo. Quindi direi una gestazione del film e del bimbo, indimenticabile.
Ottavia, a quali generi/modelli vi siete ispirati?
Non abbiamo pensato a dei modelli all’inizio. Dall’idea alla prima stesura della sceneggiatura, siamo andati molto veloci e liberi. Sveliamo un segreto, che non andrebbe detto: non abbiamo mai scritto un soggetto di questo film. Solo quando eravamo a metà strada ci siamo messi a riflettere su modelli che ci potessero rinfrancare nelle nostre scelte, più che agire da apripista. Di sicuro c’è il sapore di una certa commedia indipendente estera, da Little Miss Sunshine, a Clerks a Juno, all’Appartamento Spagnolo ,ma anche italiana, penso a Tutti i santi giorni, Ovosodo, Si può fare…
Ottavia, quanto è cambiato il copione sul set, rispetto allo script? Per quali ragioni?
Non tantissimo, nonostante un film così low budget, la struttura è rimasta identica a come l’avevamo scritta. C’è stato qualche taglio minimo e ovviamente dei cambiamenti nei dialoghi, che però, devo dire, sono cambiati più in fase di prove e provini che non sul set. Comunque direi che il 70% perfino forse l’80% del film può essere ritrovato nell’ultima versione del copione.
Roan, sei regista dei prossimi due tv-movie, tratti dai romanzi di Marco Malvaldi, per Sky. E hai lavorato nel processo di scrittura. Tu che sei stato ai due poli della tv, quella generalista della serie Raccontami e quella satellitare de I delitti del Barlume, cosa ne pensi della tv italiana?
La qualità e il successo della serialità americana e internazionale in generale, ha smosso molto le carte. Talmente tanto che perfino la nostra televisione, che sembrava essere in qualche modo indenne a qualsiasi cambiamento, si è dovuta smuovere. In questo processo credo che sia stata fondamentale Sky, che dovendo riuscire a contrastare un duopolio imbattibile, ha avuto il merito di rischiare molto con serie come Boris, Romanzo Criminale, e adesso Gomorra. E a quanto sembra, anche se con molta lentezza, qualcosa sta veramente cambiando anche nel panorama italiano.
La WGI fa queste interviste per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Roan, che ne pensi di questa abitudine?
Credo che sia inevitabile che si parli di attori (che sono ovviamente la parte più spettacolare e più vendibile per i media) e del regista, che tra l’altro in Italia scrive spesso la sceneggiatura con altri. Tuttavia mi sembra che il riconoscimento degli sceneggiatori stia diventando sempre più importante, in particolare per la figura dell’headwriter, nelle serie tv, che anche in questo specifico caso vengono in aiuto al cinema. Se potessi dare un piccolo contributo al dibattito (che possa avere in effetti qualche ricaduta pratica), mi piacerebbe che alle conferenze stampa fosse previsto che gli sceneggiatori fossere interpellati di più, anche rispetto agli attori. Mentre il red carpet e le interviste televisive sono per i protagonisti del film, durante la conferenza stampa si dovrebbe fare più attenzione alla scrittura.
Cosa pensi della situazione del nostro cinema in questi anni?
Eh, domanda da un milioni di dollari e da cinque cartelle. Ti voglio parlare dello specifico caso di Fino a qui tutto bene: fare un film senza passare dai canali produttivi ufficiali, cioè RaiCinema e Ministero, è molto molto difficile. Spesso anche ottenere il contributo del ministero non ti garantisce la produzione del film. Dobbiamo uscire da questo monopolio, che in qualche modo fa da imbuto alla creatività. Come? Le soluzioni sono molteplici e difficili da realizzare, ma credo che uno dei pregi del “sistema Italia” sia che ci sono sempre eccezioni e eccellenze che trovano in modi impensabili la strada per fare buoni film. Altrimenti, visti i limiti del nostro sistema (che le associazioni giustamente sottolineano) non si capisce come siano potuti nascere i vari Sorrentino, Virzì e Garrone e altri. Dobbiamo lottare per capire come queste eccezioni siano nate e fare delle leggi perchè si ripetano il più possibile.
E tu, Ottavia?
Vedo molti film piccoli fatti col cuore, vedo film coraggiosi, onesti e sinceri ma li vedo uscire con pochissime copie e toccare solo tangenzialmente le sale di provincia. Credo che il nostro cinema dovrebbe essere tutelato molto di più, e che si dovrebbe fare uno sforzo perché anche un ragazzeto che vive in una piccola città, abbia la possibilità di scegliere se vedersi un blockbuster americano o un piccolo film italiano che gli parla di qualcosa che gli è più vicino. Insomma, dovremmo mettere tutti nella condizione di poter scegliere che cosa vedere in sala: adesso non mi sembra che sia così.
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