Lascia stare i santi
Gianfranco Pannone è regista e autore, insieme con Ambrogio Sparagna, del film documentario Lascia stare i santi, presentato nella sezione Riflessi della Festa del Cinema di Roma.
Un viaggio lungo cento anni di storia antropologica, religiosa, sociale dell’Italia, attraverso i riti festosi di quelli che un tempo venivano chiamati gli umili: i contadini e i pastori che invece recano molta più cultura di quanto non si dica.
Ciao Gianfranco e grazie per questa intervista. Per cominciare ti chiedo, come usiamo nelle nostre interviste, di fare un pitch di Lascia stare i santi.
Cosa ricordano gli italiani dei propri avi, dei propri nonni, specie in riferimento alla religione popolare? Ricordano abbastanza? C’è una rimozione?
Forse non si può parlare di rimozione, però qualcosa si è perso. E ciò che proviamo a fare io e Ambrogio Sparagna in questo film è cercare il sacro che è dentro il mondo contadino e pastorale, che non è evidentemente solo un mondo di povertà, di miseria, come certe vulgate ci hanno fatto credere fino ai giorni nostri.
Invece è un mondo ricco di vita, di anelito al nuovo, e ricco di festa anche rispetto al rapporto con la Natura. E che infine “junghianamente” ci appartiene.
Tutto questo proviamo a farlo attraverso il canto popolare, legandoci a Sant’Agostino quando dice: «chi canta prega due volte».
Come ti è venuta l’idea del film? Cosa ti premeva raccontare?
Forse la molla principale di questo film parte dal fatto che le mie due nonne erano una contadina e una cittadina ed erano donne del popolo. La nonna cittadina era dei Quartieri Spagnoli, quella contadina veniva dalla campagna del nolano, e mi hanno trasmesso alcuni valori. Erano due donne semianalfabete, eppure secondo me – lo dico senza retorica – erano molto più sapienti di me.
È rimasto sempre molto forte il legame con i nonni, mi hanno anche trasmesso un sentimento religioso, che a Napoli è molto forte.
Più in generale, da quali istanze profonde traggono spunto le tue storie?
In un momento in cui si parla molto spesso di cattiveria, di cinismo, di scetticismo, a me interessa l’uomo. Mi viene da pensare al Manifesto Antropomorfico di Visconti: l’uomo è importante, l’uomo con le sue sofferenze, le sue speranze. Mi piace avere questo sguardo attento e al tempo stesso orizzontale sulle persone cosiddette comuni.
Il rapporto con l’uomo è fondamentale, ovviamente in uno sguardo che sia anche politico, ma che non deve essere mai ideologico, mai verticale. La politica serve come dialettica, ma deve sempre essere accompagnata – come la fede – da un interrogarsi continuo. Chi siamo? Perché siamo qua? Che cosa possiamo fare perché il mondo sia migliore per noi e per gli altri? È un pensiero socialista e cristiano al tempo stesso, che per me è fondamentale; e che in qualche modo io credo – e così anche Ambrogio Sparagna – necessiti di un viaggio nel nostro passato.
E infatti il mondo contadino e pastorale rappresentato in Lascia stare i santi, con i suoi canti, con il suo patrimonio musicale straordinario, si rivela capace di restituirci non solo delle emozioni ma anche una sapienza, che si arricchiva nel rapporto con la Natura e quindi – pensando a Giordano Bruno – in un rapporto più autentico pure con Dio.
Quali difficoltà avete incontrato nella scrittura di Lascia stare i santi?
Questo è un film prevalentemente di montaggio. La difficoltà era mettere insieme vari elementi, legati al passato e al presente, che non andassero a interferire l’uno con l’altro, ma che in qualche modo si impastassero in un unico respiro, direi atemporale. La difficoltà era in quest’impasto: mettere insieme il grande patrimonio audiovisivo del Luce – e non solo i cinegiornali, ma anche i documentari a colori degli anni ’50, ’60 e ’70 – con lo straordinario lavoro di ricerca musicale di Ambrogio e le voci di Fabrizio Gifuni e di Sonia Bergamasco, che interpretano brani di alcuni nostri grandi scrittori tra cui Gramsci, Silone e Pasolini.
Il contrappunto tra le “annotazioni dell’anima” di questi grandi scrittori e la partitura musicale diventa strumento di un linguaggio altro, che disgrega e ricuce a un livello tutto emotivo ciò che le parole non riescono a dire. Come siete arrivati a questa scelta?
È una scelta che parte anche da un’esperienza precedente. Quando io e Ambrogio realizzammo “ma che Storia…” – che è una sorta di controstoria dell’Unità d’Italia – abbiamo in qualche modo lavorato anche su alcune contaminazioni. Nei “santi” non ce ne siamo dimenticati, ma anche abbiamo asciugato molto; quindi meno testo, musiche più selezionate, lavorare sulla semplicità. Oserei dire, stando in tema, una semplicità francescana.
Questo aspetto secondo me oggi è fondamentale. Bisogna cominciare anche a parlare di ecologia delle immagini e dei suoni. Siamo invasi da immagini e suoni spesso brutti, che ci distraggono. E il nostro film è molto influenzato da questa idea.
Attraverso questo viaggio nella devozione popolare italiana, affronti il tema del bisogno di assoluto che alberga nell’uomo. Secondo te quanto siamo cambiati da questo punto di vista nell’ultimo secolo?
Ci siamo presi tanto, nel senso che viviamo tutti meglio. Ora stiamo qui al calduccio in un bar a conversare e questo non va dimenticato. Però abbiamo anche perso tanto. Siamo molto più soli oggi. Una delle dannazioni della nostra epoca è la solitudine. Ed è una solitudine che dipende dal fatto che noi non andiamo oltre noi stessi. Non ci interroghiamo, siamo tutti quanti prigionieri del presente.
Ecco questo essere prigionieri del presente e l’essere distratti costantemente da tante sollecitazioni – lo vedo anche come padre – è un’autentica tragedia, che ci fa perdere il senso pieno della vita.
E credo che la fede possa essere molto utile. O quantomeno per il credente, ma anche per l’agnostico, per l’ateo, una ricerca costante e un chiedersi sempre cosa ci sia oltre noi stessi, secondo me è fondamentale. Bisognerebbe anelare a quella fede “naturale” che avevano i contadini e i pastori. Tutto questo oggi si è dimenticato e lo scontiamo in modo terribile. Però credo che sia anche tanta la gente che sta ricominciando a interrogarsi, a chiedersi se tutto quello che di materiale abbiamo, sia sufficiente.
È possibile che ciò sia anche dovuto al modo in cui la società dei consumi sceglie di raccontarsi, alla rimozione sistematica di realtà quali ad esempio la fame e dell’indigenza? Forse anche per questo motivo il sacro è divenuto un argomento scomodo da rappresentare?
Da questo punto di vista sono abbastanza ottimista perché credo che stia finendo qualcosa. C’è la consapevolezza nell’Occidente che non possiamo più permetterci di far finta di nulla rispetto alle miserie del mondo. Noi dobbiamo provare a stare nei panni dell’altro e per me che sono documentarista questo per certi versi è abbastanza facile dopo quasi trent’anni di “carriera”.
Poi ovviamente sono anch’io un borghese anche pigro, di quelli che ama starsene in poltrona – il che, per intendersi, non è di per sé una cosa brutta –, ma che magari a volte potrebbe fare di più. Tuttavia penso che il cinema non debba esprimersi sempre e soltanto attraverso la denuncia. Quindi è bene che arrivi un film attuale oltre che poetico come Fuocoammare, ma è bene che alcuni film riflettano anche su chi siamo, spingendosi anche nel nostro passato in un momento in cui non sappiamo più chi siamo.
La WGI intervista gli sceneggiatori anche per coprire un vuoto d’informazione; di solito ai festival si parla solo di registi e attori. Sebbene la questione non ti riguardi direttamente – perché sei anche regista del film – che ne pensi di questa abitudine? Ritieni che in Italia la categoria degli sceneggiatori sia sufficientemente tutelata e riconosciuta?
La frustrazione dello sceneggiatore l’ha raccontata molto bene Cesare Zavattini, quando diceva: immagina che a un certo punto io incontro una bella donna, comincio a fare l’amore, comincio a “scaldarla”… Poi arriva il regista, mi sposta e se la scopa lui. Questo per il grande Za è infine il mestiere dello sceneggiatore. Fortuna che lui prima di tutto fosse un grande scrittore!
E allora cosa dovrebbero fare gli sceneggiatori per, diciamo, portare a termine quanto hanno cominciato?
Secondo me c’è un’abitudine che non è positiva: gli sceneggiatori dovrebbero essere presenti anche nella fase di realizzazione del film, perché la sceneggiatura deve essere qualcosa di molto più mobile; e quindi secondo me lo sceneggiatore dovrebbe essere più presente sul set e anche in fase di montaggio. Cosa che non succede perché il nostro cinema, la nostra cultura di solito preferisce andare per compartimenti stagni.
Lo sceneggiatore più pericoloso è lo sceneggiatore tecnico, è lo sceneggiatore che sa fare il suo mestiere e basta. Secondo me chi scrive il cinema deve avere una buona dose di inventiva e il bravo regista – se è un bravo regista e se ha, diciamo, una personalità – non può desiderare uno sceneggiatore che sia soltanto un bravo esecutore. Il regista che teme lo sceneggiatore di personalità, è un regista debole, secondo me. Penso, invece a Felini e ai suoi compagni di viaggio, che certo non temeva: Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Tonino Guerra…
Ma tu ti senti tutelato anche dalle leggi sul diritto d’autore? O cambieresti qualcosa?
Io credo che non siamo sostanzialmente tutelati. Anzi adesso c’è un gioco al ribasso molto forte ed è difficile persino preservare le proprie paghe, tutelare se stessi in modo dignitoso. Credo che per i giovani sia un disastro assoluto, che questa storia degli stage e degli stagisti sia certo importante, non al punto di diventare una… strage, come sta succedendo. E credo che piuttosto bisognerebbe mettersi tutti intorno a un tavolo e rivendicare i diritti che ci appartengono.
Questo è proprio lo spirito con cui è nata la WGI, cioè parlare dei contratti “nudi e crudi” e di tutelare i diritti degli sceneggiatori così come prevede la normativa sul Diritto d’Autore, che spesso viene disattesa nella sua applicazione pratica.
Sul documentario è ancora peggio. Per esempio, c’è questo aspetto che io trovo molto grave: esiste una scrittura del documentario, contrariamente a quanto pensino i neofiti. E per la televisione esistono i dossier, i trattamenti.
Ma tutto questo lavoro di scrittura i produttori – e non solo in Italia – tendenzialmente non lo pagano più. Cioè, noi sulla fase di ricerca e di scrittura di un documentario, una fase delicatissima, non siamo più pagati. È un lavoro che invece va tutelato e che è importante, perché una buona preparazione, una buona scrittura sicuramente aiutano un film a crescere meglio, esattamente come per il film di finzione.
Una domanda sulla SIAE. Lo Stato italiano, pur accogliendo la normativa europea che permette agli autori di scegliere una collecting di loro gradimento, ha deciso di non modificare la condizione di monopolio della SIAE. Potrebbe però esserci una riforma interna della SIAE stessa. In vista di questa possibilità, tu che tipo di gestione vorresti per i tuoi diritti d’autore? In altre parole, c’è qualcosa che cambieresti della gestione attuale?
Non so dirti perché il governo abbia bloccato questa possibilità di allargamento. Ma trovo che non sia comunque giusto. Io sono iscritto alla SIAE e, seppure lateralmente, sto partecipando all’interno di Centoutori anche a quel tentativo di cambiare l’assetto interno della SIAE, che molto spesso non ha tutelato il mondo dell’audiovisivo, magari a vantaggio della musica.
Detto ciò, rivendico il fatto che possano nascere anche dei nuovi organismi sostitutivi della SIAE. Perché credo che un po’ di concorrenza aiuterebbe tutti noi a farsi venire delle idee, a non impigrirci. Non bisogna abbassare la guardia in questo momento, è un passaggio storico molto pericoloso, perché nel mondo del lavoro con la scusa della crisi a mio giudizio si sta abbattendo una scure che riguarda sia i compensi che i diritti d’autore. E su queste cose bisogna essere vigili.
Ti faccio l’ultima domanda rituale sul nuovo progetto di legge per il cinema. Da poco è stata votata in Parlamento la nuova legge cinema, secondo la quale la parte più rilevante dei finanziamenti di sostegno alla produzione – circa l’80% – andrà ridistribuita tra coloro che hanno incassato di più nel corso dell’anno precedente. Cosa ne pensi?
Io penso che non si è trovata la forza nel mondo del cinema di mettersi tutti quanti intorno a un tavolo e cercare di capire quali fossero i diritti e i doveri rispetto alla nuova legge che avrebbe dovuto – almeno si era detto all’inizio – diventare realtà sulla base sul modello francese. Qualcosa è rimasto dello spirito originario, ma dov’è la tassa di scopo? Esiste realmente? E perché la quota sui cosiddetti indipendenti è così bassa? Giusto poi chiamare un’opera d’autore più complessa “film difficile”? E perché il reference system infine va in una direzione che in qualche modo avvantaggia i film che hanno incassato di più, quando il problema reale di tutto ciò è quello della distribuzione nelle sale, specie dei film d’autore?
Mi sembra che la legge rispetto allo spirito iniziale qua e là sia stata un po’ troppo ritoccata e trovo alcuni passaggi (anche di principio) di questo pur importante passo in avanti piuttosto discutibili.
Grazie Gianfranco e “ch ’a Maronn t’accumpagn”, a te e al tuo film!
Hai detto bbuono [ride].