La notte non fa più paura
Stefano Muroni e Walter Cordopatri hanno scritto con il regista Marco Cassini la sceneggiatura di La notte non fa più paura, proiettato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Riflessi.
Il film, che è stato presentato nel 2015 all’Istituto di Cultura Italiana a Bruxelles e ha già vinto diversi premi, racconta il terremoto del 2012 in Emilia attraverso i temi della paternità e del lavoro.
Cassini è alla sua opera prima, tutti e tre sono anche attori.
Cominciamo dalle basi: come è nato il film? L’esigenza pare ovvia: raccontare uno dei più grandi disagi degli ultimi tempi, il terremoto. Potete dirci di più?
Walter: È nato tutto da un’idea di Samuele Govoni e Stefano Muroni. Volevamo raccontare una storia forte. All’inizio era un cortometraggio, poi abbiamo scritto un soggetto, sempre assieme a Samuele Govoni e Stefano, che nel film è l’attore protagonista insieme a me. Ci siamo chiesti: perché fermaci a un corto? Così è nata per divertimento questa cosa di arrivare a un film. Ma eravamo soli, e la sceneggiatura non era ancora nemmeno scritta. Non c’era niente. Allora abbiamo detto: chi possiamo chiamare? E abbiamo pensato subito a Marco, perché ho sempre ritenuto che fosse la persona giusta per questo progetto. Da lì è partito tutto. Ci siamo messi a scrivere. Tre attori che provano a scrivere. Marco era già abituato, ma noi no, non avevamo mai scritto una sceneggiatura. Ed è stato bellissimo cimentarsi in questa cosa.
Nel riproporre la storia del terremoto in Emilia, però, avete avuto bisogno di trovare anche alcuni personaggi che potessero raccontarla. Come vi siete mossi in questo senso?
Marco: Volevamo che fosse un progetto importante, volevamo rendere omaggio alle vittime del terremoto in una maniera bella, quindi rispettandoli al massimo. Siamo andati dai familiari delle vittime e abbiamo chiesto loro: “Come è stato veramente?“. Come faceva Zavattini, una volta, che si fermava ad ascoltare la realtà delle persone.
Stefano e Walter, che sono degli attori e delle persone sensibili, hanno capito subito che questa sceneggiatura doveva avere un’impronta di realtà potente. In modo tale che poi la parola non risultasse costruita. A me piace chiamarlo “over-acting”.
Ovviamente non bastava questo, ci voleva una drammaturgia che avesse qualcosa in più. Abbiamo deciso volontariamente di creare dei momenti di sospensione che poi improvvisamente andavano a rompere gli equilibri. Questa cosa mi ricorda un po’ le situazioni che accadono nell’Amleto, in cui il personaggio a un certo punto, preso dai dubbi di tutto quello che accade, si chiede: “Ma che cos’è più nobile, soffrire per i sassi e i dardi, scagliati dall’oltraggiosa fortuna, o combattere con un mare d’affanni?“. Perché alla fine loro questo fanno. Quindi la sceneggiatura va a fondo e cerca di farci porre delle domande ancora più alte, se possibile. Che poi è il compito del cinema. Quando Antoine Doinel ne I Quattrocento Colpi corre verso il mare, non ci vuole raccontare questo? Non vuole affondare il pedale per arrivare dalla realtà al cuore?
Continuando a parlare proprio dei modelli che vi hanno ispirato per il vostro lavoro, qual è stato l’approccio alla scrittura del film in termini di documentazione?
Stefano: Il mio attore di riferimento per questo film è Gian Maria Volonté. Quando gli chiedevano: “Ma come fai a entrare e uscire da un personaggio?“. Lui rispondeva: “Io non entro o esco da un personaggio, io studio e mi documento“. Personalmente sono molto legato alla documentazione, e fra le mie esperienze ho anche la scrittura di un saggio storico sul mio paese. Dunque proposi di realizzare qualcosa a Samuele Govoni, il primo giornalista italiano che andò alle Ceramiche Sant’Agostino la mattina del terremoto. Iniziammo a sfogliare tutti i giornali dei quattro mesi precedenti, a rivedere tutte le testimonianze e tutte le foto. E da lì abbiamo scritto un primo soggetto che si chiamava Tute Blu. Avevamo intuito che il tema caldo dietro al terremoto era quello del lavoro, delle fabbriche, degli operai e degli imprenditori. Quindi, prima di tutto, volevamo parlare della crisi economica.
Siamo partiti da un trattamento per un’idea di corto, ancora molto affine al documentario. La fortuna di scrivere in tre la sceneggiatura, poi, è stata quella di mischiare tre stili, tre prospettive, tre modi diversi di vedere la storia. Quando vedo il film ritrovo la mia parte nei dettagli documentaristici, la parte di Walter, “più sporca”, in quei dialoghi intimi e familiari tra moglie e marito, nella parte legata alla terra, più operaia. Invece la parte di Marco che, in un certo senso, ha salvato il film che altrimenti sarebbe diventato un docu-film, riguarda il buio, il silenzio, l’attenzione ai rumori, l’impronta visionaria e allegorica.
Questa è stata la nostra fortuna. Da soli avremmo realizzato un progetto un po’ “monco”, per così dire.
Questo di cui parli è uno dei valori belli e fondanti del lavoro dello sceneggiatore. Un ruolo che, di fatto, non è proprio della vostra formazione, e che per questo si confonde con i vostri altri ruoli di regista e attori, in questo film. Come vi siete trovati in vesti diverse?
Walter: Personalmente di sceneggiature non ne avevo mai scritte. Ho sempre avuto una grande passione per la scrittura, però.
Con Marco e con Stefano abbiamo fatto un bellissimo lavoro, secondo me raro. Tre attori possono correre un grande rischio: scrivere battute su battute, per noi, su di noi, come molti farebbero al posto nostro. È pericolosissimo. Noi abbiamo messo solo le battute essenziali, e tante volte siamo riusciti a cucircele in bocca.
Se devo fare un complimento al nostro film, va proprio al fatto che si tratta di un film “essenziale”. Non si dice niente di più del dovuto. Non ci sono battute false. Io me ne rendevo conto, in sceneggiatura: spesso eravamo fuori dalla normalità, eravamo sopra le righe. Ed è stato bello approfondire proprio questo aspetto, lavorando solo sulle cose che servono. Il resto abbiamo voluto raccontarlo con il visivo, con altro.
Una domanda per te, Marco: dovendo passare dalla sceneggiatura alla regia, ti sei trovato spesso di fronte alla necessità di rimettere mano al testo durante la lavorazione effettiva del film? Che tipo di rapporto c’è stato fra la fase di scrittura e quella della realizzazione?
Marco: Penso che questa cosa possa accadere in tutti i set. Perché ti può capitare di scrivere un film in cui, da sceneggiatura, un personaggio si trova ai piedi di una montagna, e questa montagna la deve scalare. Poi per motivi produttivi, di Film Commission o che dir si voglia, ti ritrovi con un pezzo di roccia che non è una montagna. E il regista ha il compito, così come l’attore, di portare la scena a casa, a prescindere. A me è capitato sempre.
Storaro dice che il grande film si fa con le location. È tutto vero. Anche dal punto di vista della sceneggiatura è così. Immaginate in un film come Carnage, di Polanski, a livello drammaturgico quanto poi è importante l’applicazione della location stessa.
Quello che vi voglio dire è che quando siamo andati sul set a girare alcune scene toccanti, in cui gli operai si chiedono “possiamo andare a lavorare, o qua ci crolla tutto addosso e ci ammazziamo da soli?“. Ecco, lì avevamo uno spiraglio di location che mi ha suggerito anche un certo tipo di riprese, il tipo di movimento che l’attore deve fare. E così come una battuta di un attore, anche l’idea di un regista deve venire meno, se hai il bene del film da porre in cima a tutto.
Viggo Mortensen: l’ho visto l’altro giorno alla Festa del Cinema di Roma e ha detto: “ho letto una sceneggiatura in cui David Cronenberg descriveva la scena di un film. Ci trovavamo in una sauna, poi sono arrivati due killer e improvvisamente è cominciato uno scontro”. Basta. Da sceneggiatura erano tre didascalie. Nel film, la scena è durata cinque minuti e mezzo, ci sono stati due morti, e il tutto si è chiuso con un occhio trafitto da un coltello con del sangue che ne usciva fuori. A livello di colore, il contrasto era fortissimo.
Se vedi quel film ti ricordi proprio quella scena.
Marco: Esatto! Questo per dire che il regista, in quel momento, ha visto l’attore e ha avuto un’intuizione. Un film si fa così, con un lavoro di equipe, in team.
Spostiamoci proprio sulla Festa del Cinema di Roma, una realtà che riunisce in sé il cinema nostrano e quello internazionale. Come pensate si ponga la filmografia italiana, ad oggi, nei confronti del resto del mondo?
Stefano: Io amo tanto il cinema italiano dagli anni ‘40 agli anni ‘70. Siamo stati i più bravi del mondo. Non possiamo studiare la storia dell’Italia senza passare da quel trentennio di grandissimi registi. Che poi non erano registi, erano proprio intellettuali, artisti. Quindi credo che, al di là dei numeri, una volta c’erano 800 film, ma dieci capolavori. Oggi ci sono 180 film, ma zero capolavori. E invece dovrebbero essercene.
Nel nostro piccolo stiamo vedendo che il nostro film, che è un film modesto, senza produzione, senza distribuzione, è stato comunque presentato da Bruxelles al Valdarno, alla Camera dei Deputati, alla Festa del Cinema di Roma, e sono molto contento di questo. Se un film vale, anche se hai trentamila euro, anche se c’è la crisi economica, ma non c’è crisi di idea, puoi arrivare alla Festa di Roma.
E poi credo che la gente abbia veramente voglia di riflettere attraverso il cinema. Cito solo un fatto: a Medolla c’era un ragazzo che alla fine del film è arrivato tremante da me e ha detto “guardi, io la ringrazio perché è da quattro anni che non entravo in una sala cinematografica, perché avevo paura dei rumori, del suono, avevo paura di un attacco di panico. Però ho detto… arriva nel mio paese un film sul terremoto dell’Emilia: non vado a vederlo io, che sono di Medolla, comune terremotato? Insomma, l’ho visto e sono arrivato alla fine senza avere attacchi di panico. Volevo dirle che questa sera, grazie al film, sono guarito.” Questo è il cinema che, secondo me, se non cambia la Storia cambia almeno le storie quotidiane.
Per concludere, cosa vedete nel futuro del film?
Walter: La cosa bella di questo Festival è che, se andiamo a vedere, penso che il nostro sia l’unico film dove sono presenti, all’interno dello stesso, tutti attori o maestranze sotto i 35 anni. Quindi è una manna dal cielo, perché nel nostro paese riuscire a fare un film con tanti giovani professionisti è molto raro.
Negli altri paesi i diplomati nelle migliori scuole sono eccellenze vere. Perché in questo paese non è così? Quindi credo che il nostro lavoro sia di buon auspicio, perché quest’anno è riuscito in qualche modo a farsi notare raccontando una storia che non è commercialissima, non è fatta con attori famosissimi, non ha un regista famosissimo, e non è fatta con un milione di euro. Quindi mi auguro che sia al più presto nelle sale cinematografiche, perché abbiamo vinto Festival, siamo qui, ed è bellissimo, ma questo film deve andare nelle sale. Ci auguriamo al più presto di trovare una bellissima distribuzione, che sia giusta e che possa dare soddisfazione al nostro film.
Ve lo auguriamo anche noi.
Stefano: Nel titolo c’è anche un augurio a noi giovani, alla nuova generazione che sta arrivando, perché alla nostra generazione è stato insegnato che bisogna avere paura del buio. Invece speriamo che con questo film, al di là del terremoto, si capisca che veramente la notte non debba più far paura.
Il concetto è che non dobbiamo più avere paura del futuro, ma è il futuro che deve avere paura di noi [ride].
Marco: venite a vedere il film e poi scriveteci. Ci farà soltanto piacere.