Era d’estate
Antonio Leotti ha scritto con la regista Fiorella Infascelli la sceneggiatura di Era d’estate. Inauguriamo con la sua intervista la nuova galleria di sceneggiatori presenti a Roma. Il film è l’ultima delle pre-aperture della Festa del Cinema e viene proiettato nella Sala Petrassi dell’Auditorium oggi giovedì 15 ottobre alle 21.
Ciao, Antonio, come ci descriveresti il tuo film? Qual è il cuore del racconto, il tema principale?
Lo definirei temerario. Cercare di inventare una dimensione intima di uomini come Falcone e Borsellino (e dei loro familiari), di restituire loro la complessità di ogni essere umano, contraddizioni, debolezze, temperamento, genialità, cadute, di sottrarli, insomma, alla loro dimensione monumentale, è la sfida del film. Per quanto riguarda il tema, ecco, non saprei come rispondere. Non credo che se ne possa isolare uno solo. Proprio per la natura dell’ipotesi narrativa, il film investe, o dovrebbe farlo, lo spettro, il più ampio e caotico possibile, dell’esistenza dei nostri personaggi.
C’è, fortissimo, il sentimento della morte che accompagnò sempre i due giudici al punto da costituire, com’è noto, materia della loro ironia. Ma è difficile affermare che si tratti di un tema, mi sembra più che altro un umore, uno dei tanti che, mi auguro, si possono trovare nel film.
Come è nato il progetto? E in che modo si è sviluppato?
È nato da un’idea di Fiorella Infascelli. Mentre girava il suo documentario Pugni chiusi sugli operai del petrolchimico di Porto Torres asserragliati per protesta nell’ex carcere dell’Asinara, scoprì che i due giudici avevano passato quasi un mese, l’agosto del 1985, sull’isola, si incuriosì e le venne in mente di raccontare una storia sugli unici 25 giorni che Falcone e Borsellino trascorsero ininterrottamente insieme con i loro familiari. La nostra collaborazione è nata da una scelta della Fandango che ha ritenuto che io potessi essere adatto a scrivere un film del genere. Ci sono voluti quasi due anni: il primo ci è servito per conoscerci e anche per superare il timore che entrambi provavamo nell’approcciare personaggi, o forse dovrei dire, persone come loro.
I protagonisti del film sono due personaggi importanti nella storia sociale e politica dell’Italia. Che tipo di lavoro di documentazione hai seguito? Hai sentito il peso e la responsabilità di metterli in scena?
Guidato da Attilio Bolzoni, ho letto tutto quello che potevo su quegli anni. Fondamentale è stata la lettura, seppur non integrale (si tratta di più di ottomila pagine), della sentenza-ordinanza del primo Maxi Processo: un romanzo sulla mafia, terrificante e meraviglioso, scritto a quattro mani da Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello, i quattro giudici del pool costituito da Nino Caponetto. Centinaia di personaggi vi sono raccontati con la limpida levigatezza di un linguaggio giuridico che a me apparve, fin da subito, geniale.
Come ti sei trovato a lavorare con la regista? Pensi che una stretta collaborazione tra scrittore e regista sia fondamentale per realizzare un buon film?
Non ci conoscevamo prima del film, sicché, come succede sempre, c’è voluto un po’ di rodaggio. Dalle nostre difficoltà, però, è nato un buon rapporto umano, siamo riusciti a parlare la stessa lingua, insomma.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, be’, che posso dire se non che, quando si lavora insieme, è probabilmente indispensabile una stretta collaborazione anche perché quello che si condivide, con l’andar del tempo, è un’intimità insolita. Dico sempre, forse esagerando un po’, che mi sono trovato a dire cose a registi e colleghi che non avevo mai detto nemmeno a mia moglie. E molte volte nemmeno a me stesso.
Cosa pensi che un regista dovrebbe imparare da uno sceneggiatore e cosa uno sceneggiatore dal regista?
Questo proprio non lo so. Spesso gli sceneggiatori possono essere narratori più esperti, è vero, ma resta il fatto che, per come si lavora in Italia, il film è del regista, è una creatura sua, così la gran parte del lavoro, almeno per quanto si riferisce alla mia esperienza, consiste nel cercare di capire cosa abbia in testa il regista e cosa dovrei fare per arrivare a scrivere il miglior copione possibile del suo film. Come sceneggiatore ho imparato un sacco di cose dai registi, per esempio ho imparato a cambiare idea, a essere paziente, a non arrabbiarmi troppo, e anche il senso dei miei limiti. Insomma, quando scrivo un film mi sento un artigiano: devo eseguire un manufatto e cerco di farlo meglio possibile con gli strumenti, più o meno affilati, delle idee e della scrittura.
Scrivere con il regista influenza anche la tua tipologia di scrittura?
In senso tecnico, non credo. Penso che la prosa che si usa nelle sceneggiature debba obbedire a una specie di criterio economico secondo il quale solo quello che serve a descrivere l’inquadratura è davvero indispensabile. Ci può essere qua e là qualche concessione di natura quasi letteraria, ma la sceneggiatura è una scrittura di servizio, non ha nulla a che vedere con la libertà della letteratura. Bisogna però dire che ogni film ha una sua storia, perciò, per quello che invece riguarda il linguaggio cinematografico, l’influenza c’è eccome. In questo senso, ho sempre pensato che scrivere con i registi fosse in qualche modo un privilegio. Per altri aspetti, la considero invece una condanna.
In che modo venivano prese le decisioni su scene, personaggi e snodi narrativi? Tutte le scelte sono sempre state fatte insieme e di comune accordo?
Come dicevo sopra, non tutte le scelte del regista, in questo caso, della regista, sono state condivise.
Ho fatto una piccola battaglia, per esempio, sull’inizio del film: non mi piacevano e non mi piacciono le prime due o tre scene, quelle di set up, per intenderci, sono il retaggio di un vecchio modo di raccontare, una concessione sbagliata alla presunta disattenzione dello spettatore. Io vorrei sempre cominciare in medias res, senza fronzoli, senza premesse, preamboli o peggio, spiegazioni. Detto questo, mi sono inchinato alla decisione della regista. Ma questo fa parte del mestiere, credo.
La sceneggiatura di molti film italiani è firmata anche dal regista che però, a volte, non scrive di proprio pugno scene o dialoghi ma dà solo indicazioni lasciando il lavoro “sporco” agli sceneggiatori. Credi sia giusto? A cosa pensi sia dovuta questa corsa alla firma? Alla la necessità di sentirsi autori, a sottolineare il proprio potere e controllo sul film oppure ad altro?
Faccio fatica a generalizzare. Il contributo che può dare un regista, indipendentemente dalla scrittura, può essere fondamentale. Al contrario, un regista che, come recita la domanda, si mette a fare il lavoro “sporco” senza saperlo fare, può fare solo danni. Per ogni film bisogna cominciare da capo, trovare un modo, il migliore possibile. Ma non mi scandalizza affatto che il lavoro del regista sul copione possa essere esclusivamente di riflessione e di confronto con lo sceneggiatore, anche perché, mi sembra, è proprio questa la parte più dura del lavoro. La scrittura è solo una conseguenza. Poi potremmo parlare del narcisismo di molti registi, ma questo è un altro discorso. Certo, i casi di registi-narratori, cioè di registi che, invece di preoccuparsi esclusivamente del loro film (dove il pronome possessivo è il sintomo del guasto), si concedessero all’umile divertimento del racconto, sono davvero rari nel nostro paese. C’è un carrierismo tacito, talvolta ipocrita, che tende ad affermare la propria personalità, a mostrare esclusivamente una pretesa originalità a tutto discapito del film. Ecco perché forse, davanti a molti film italiani, ho sempre l’impressione di assistere a un discorso, qualche volta a un comizio, quello che vedo sullo schermo, insomma, è la presenza incombente del regista, un’esperienza davvero frustrante per me.
Riguardo la stesura delle sceneggiature, quanto ti affidi a strutture e archetipi narrativi e quanto lasci libera la tua creatività di esplorare una storia senza “regole” di sorta?
Come molti colleghi, ho una formazione che può essere ormai definita classica. Conosco strutture drammatiche e narrative, le ho studiate, digerite e dimenticate. Possono essere d’aiuto, lo ammetto, ma la capacità di abbandonarsi a una storia, di volerla raccontare a ogni costo, deve secondo me prevalere. Per rispondere alla domanda in modo compiuto, non posso così che adottare una soluzione “ecumenica”: vanno bene le regole, ma va bene anche cercare di usare quel poco di libertà che la natura industriale del nostro lavoro ci lascia.
Dopo la prima stesura, ti avvali dell’aiuto di editor o lettori di fiducia per avere un parere, suggerimenti e note per migliorare lo script nelle revisioni successive?
Al di fuori dei normali rapporti con la produzione, accade raramente. E me ne rammarico perché ci sarebbero un sacco di cose da imparare dagli sceneggiatori.
Ritieni che la stesura definitiva del copione debba essere per larga parte rispettata sul set o pensi che in fase di riprese modifiche ed intuizioni possano beneficiare alla riuscita del film? Ce ne sono state sul tuo film? Se sì, ce ne parli? E credi sia utile che almeno uno degli sceneggiatori sia sempre presente sul set?
Sono favorevole alla libertà in ogni sua forma e non penso mai di aver scritto un capolavoro, sicché, per quanto mi riguarda, una volta consegnata la stesura definitiva del copione, tutto può legittimamente succedere. Certo, se poi il film risultasse davvero insostenibile, inguardabile, distorto nei suoi significati principali, potrei sempre ritirare la firma. Ma per il resto, come ho scritto prima, la sceneggiatura è una scrittura di servizio, un testo che necessita, pena la perdita di ogni significato, di un’interpretazione, di una messa in scena che, di fatto, è una rilettura, una trasposizione di quanto scritto nella pagina.
Ci regali la tua scena preferita del copione? Perché l’hai scelta?
Ho scelto questa scena perché contiene il massimo dell’arbitrio degli autori e il massimo sforzo nel tentativo di dare voce, attraverso i nostri pensieri, ai nostri amati personaggi. Per questi motivi, perciò, la scena è da considerarsi paradigmatica rispetto all’intero film.
Leggi la scena di Era d’estate qui: ERA-DESTATE_scena
Nella tua carriera ti sei confrontato con generi cinematografici spesso diversi tra loro, ti piace questo eclettismo o c’è un genere che prediligi o che pensi sia maggiormente nelle tue corde?
Forse a torto, penso che la natura dello sceneggiatore sia eclettica di per sé. Se sei uno “story teller”, come si dice oggi, un artigiano della sceneggiatura, ogni genere, ogni storia può essere una sfida appassionante. Questo ti obbliga, o ti permette, di fare i conti con un sacco di cose che hanno a che fare col mondo dei significati, di farti un sacco di domande, di andare possibilmente oltre i tuoi limiti, e, in un’ultima analisi, ti consente di continuare ad imparare. Per questi motivi non ho preferenze, ho amato film di tutti i generi in vita mia e, per quanto la cosa appaia immodesta, non mi va di pormi più limiti di quanti già non abbia.
Parlando delle tue idee originali, come nascono di solito i suoi soggetti? Da una premessa narrativa intrigante? Dal mondo del racconto? O dai personaggi?
In genere, dai personaggi. Per me il paesaggio umano, forse perché ho vissuto per tutta la vita il contrasto tra la grande città e il piccolo, piccolissimo paese, e quindi una sostanziale differenza di rapporti umani, è una fonte inesauribile di idee. Poi ci sarebbe la questione famosa dell’urgenza personale, ma qui si entra in un ginepraio che è meglio non percorrere. Diciamo che mi accontento di trovarmi uno spazio, per quanto esiguo, all’interno del copione.
Come sceneggiatore, hai ormai un’esperienza ventennale, cosa e come è cambiato, in meglio e in peggio, il nostro mestiere nel corso degli anni? C’è qualcosa che non ti piace e che cambieresti nel modo di lavorare degli sceneggiatori in Italia e nei rapporti con registi e produttori?
Anche a questa domanda non so rispondere. Sarà per la mia scarsa propensione a guardarmi indietro, o perché mi riesce difficile generalizzare. Certo, se penso a vent’anni fa, qualche differenza la noto. C’è meno lavoro, per esempio, ed è sempre meno pagato. Banalità, direte, e a ragione. Forse vent’anni fa era maggiore il nostro peso all’interno di tutto il tragitto produttivo, forse eravamo più rispettati, può darsi. Resta il fatto che mi sono fatto l’idea che gli sceneggiatori italiani siano molto più bravi di quanto il panorama generale dell’audiovisivo italiano non lasci credere. Negli anni ’80 non era così, per esempio. C’erano i vecchi mostri sacri e la nuova generazione che non riusciva a smaltire la sbornia della Nouvelle Vague. La cosiddetta politica degli autori che probabilmente fu l’inizio del disastro.
Quale consiglio daresti a chi si approccia adesso a questa professione?
Di essere molto cauti. È una carriera difficilissima e che, credo, non possa più essere concepita se non in modo globale. Chi comincia in questi anni deve pensare di lavorare per il mondo, non per l’Italia. Le tecnologie cambiano e cambieranno, come hanno sempre fatto, il nostro mestiere. Sembra addirittura pleonastico sollecitare i giovani a vivere questa nuova dimensione del mestiere di sceneggiatore, loro lo sanno di sicuro meglio di me come funziona il mondo oggi.
Cosa ti aspetti da questa esperienza alla Festa del Cinema di Roma?
Niente di che. Non amo i festival, lo confesso. Anche se penso che, per “Era d’estate”, sia un passaggio obbligato, forse l’unica opportunità per arrivare ai media, per far conoscere il film in modo che riesca ad avere una sua, pur breve, vita.
La WGI intervista gli sceneggiatori per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Che ne pensi di questa abitudine? Ritieni che in Italia la categoria degli sceneggiatori sia sufficientemente tutelata e riconosciuta?
E ti senti tutelato anche dalle leggi sul diritto d’autore? O cambieresti qualcosa?
Una domanda difficile alla quale risponderò in modo probabilmente impopolare. Penso infatti che per pesare di più, individualmente e come categoria, dovremmo avere più potere. I sindacati come il vostro, sono uno strumento prezioso, questo è certo. Ma il potere si ottiene, oggi, avendo un maggior peso economico. Sarebbe ideale essere pagati di più, ma tutti noi sappiamo quanto questo sia difficile, soprattutto in un momento come questo. Non resta quindi che la partecipazione attiva ai processi produttivi, si tratterebbe cioè di trasformarci in produttori senza ovviamente abbandonare il nostro mestiere di sceneggiatori. Una strada tortuosa e impervia, ma possibile, penso.
Per il resto, personalmente mi sento abbastanza tutelato della leggi vigenti, l’importante è farle rispettare e non sempre si riesce.
L’intervista è a cura di Riccardo Degni