Troppa Grazia
Michele Pellegrini firma la sceneggiatura di “Troppa Grazia” insieme al regista Gianni Zanasi, Federica Pontremoli (Il Caimano, Habemus Papa) e Giacomo Ciarrapico (Boris, serie e film). Il film quest’anno ha chiuso la Quinzaine des Réalisateurs, la sezione indipendente del Festival di Cannes, dove Zanasi ha esordito nel 1995 con “Nella Mischia”.
Michele Pellegrini, innanzitutto grazie per aver accettato questa intervista! La sceneggiatura è firmata da diversi autori, qual è la giusta redistribuzione dei crediti? Chi ha scritto il soggetto e chi la sceneggiatura?
Il soggetto è opera di Gianni che poi ha lavorato in sceneggiatura prima con Federica poi con Giacomo e infine con me. A sceneggiatura finita, come al solito, Gianni ha di nuovo frullato tutto secondo il suo personalissimo modo di raccontare, la stessa cosa è stata fatta sul set, al montaggio… e alla fine la storia che si vede sullo schermo è una qualcosa che appartiene quasi esclusivamente a lui.
Ci fai un «pitch»?
Non so fare i pitch ma ci provo: Lucia vive da sola con la figlia e ha una vita incasinata, è una bravissima geometra ma fatica a trovare clienti, ha rotto con il suo uomo anche se continuano a volersi molto bene… Un giorno il Comune le assegna il compito di fare i rilievi su un terreno dove dovrà sorgere una grande opera architettonica. Il primo lavoro sicuro e ben pagato dopo tanto tempo ma scopre che qualcosa non va nel luogo dove si dovrebbe costruire, qualcosa su cui magari sarebbe utilissimo, per lei e per tutti, chiudere un occhio, ma per lei è un problema perché ha un senso della giustizia troppo profondo… e a complicare ancora di più la situazione da lei arriva la Madonna, anche se Lucia non è credente, e le dice: «Vai dagli uomini e dì loro di costruire una chiesa là dove ti sono apparsa…”
Secondo Edouard Waintrop, il delegato generale della Quinzaines, la vostra è «una commedia davvero folle»; cosa dobbiamo aspettarci?
Non so se avrei usato esattamente la parola “folle”, ma sicuramente è un film molto libero e originale sotto tanti aspetti.
Come è nato questo progetto?
Da Gianni, è stata una sua idea. Era rimasto colpito dalla visione di una donna che camminava in tutta solitudine in un centro commerciale e qualcosa gli è scattato dentro…
Oltre a temi di attualità sociale come la crisi economica, il precariato professionale ed esistenziale, la speculazione edilizia, ne affrontate uno sorprendente e alquanto inusuale per una commedia: il sacro; come siete arrivati a questa “apparizione mariana”? E come siete riusciti ad amalgamare temi così differenti?
È venuto naturale metterli insieme perché sono temi intrecciati l’uno all’altro e tutti minano la vita della nostra protagonista. Anche l’affiorare del “sacro”, per Lucia, appare in un primo momento come l’ennesima martellata destabilizzante… ma non è che a un certo punto qualcuno di noi abbia alzato il dito per dire: “a Lucia a un certo punto potrebbe apparire la Madonna!” perché appunto quell’apparizione faceva parte della storia pensata da Gianni fin dall’inizio. Non ci siamo posti dilemmi teologici, il personaggio di Lucia non ha quel tipo di sovrastruttura religiosa, o quel tipo di preoccupazioni, è chiaramente immersa nella cultura cattolica da quando è nata come qualsiasi italiano ma più che “un film sul bisogno del ritorno del sacro nelle nostre vite…” come ha scritto qualcuno, è una storia sul bisogno di tornare a credere soprattutto in noi stessi, di tornare a lasciarsi incantare dagli aspetti più straordinari e magici delle nostre esistenze.
Prima «The Young Pope», le serie tv di Paolo Sorrentino, poi «Io c’è» di Alessandro Aronadio, adesso la serie di Niccolò Ammaniti, «Il Miracolo», ed ora il vostro film; sembra che anche in Italia il sacro stia smettendo di essere tabù o appannaggio esclusivo di certe agiografie di santi tipiche della fiction generalista; è così?
Sì è un dato statistico interessante, anche perché poi non investe solo i film e le serie ma anche i romanzi, i fumetti… non credo ci sia di mezzo solo una maggiore possibilità produttiva quanto l’esigenza di sollevare i nostri racconti da quel realismo a tutti i costi che ha stancato un po’ tutti, autori e spettatori; in un’epoca in cui si parla tanto di ritorno al genere, non solo in termini economici e commerciali ma anche come opportunità espressiva, la nostro cultura cattolica ci viene in soccorso, rappresenta il nostro sovrannaturale dietro l’angolo, normale attingervi…
Michele, tu sei un collaboratore storico di Gianni, con lui hai firmato «Non pensarci» (sia il film che la serie omonima) e «La felicità è un sistema complesso»; com’è nato il vostro sodalizio? Che cosa vi accomuna? E com’è stato ritrovarlo per questo nuovo progetto?
Non solo questi tre film ma anche la serie che era stata tratta per Fox proprio da Non Pensarci e almeno un paio di copioni di film che poi non si sono mai fatti… ci siamo conosciuti quando io facevo ancora il Centro Sperimentale, nel 2000 o forse nel 2001, lui stava cercando uno sceneggiatore per scrivere un nuovo film dopo A Domani e tramite un amico in comune si ritrovò fra le mani una mia sceneggiatura. La lesse e ci trovò dentro una sola scena interessante, una scena di una pagina in un copione di oltre cento! Però mi volle incontrare proprio per parlare di quella scena. Gli sono stato simpatico e da lì è iniziata la nostra collaborazione.
Qual è stato il vostro metodo di scrittura?
In realtà, come ho accennato prima, non c’è mai stato un vero e proprio lavoro di squadra fra noi sceneggiatori, abbiamo, come dire, lavorato a staffetta con il regista, anche se poi io, che sono stato, cronologicamente, quello che ho tirato la volata finale a Gianni prima delle riprese mi sono di tanto in tanto confrontato sia con Federica che con Giacomo.
Avete lavorato sapendo già quali attori avrebbero interpretato i personaggi? In caso affermativo, come questo ha influenzato il vostro lavoro? Diversamente, il cast scelto dal regista ha corrisposto alle vostre aspettative?
Sì! Almeno per quanto mi riguarda sapevo che Lucia sarebbe stata Alba. E a quel punto abbiamo lavorato sulle potenzialità espressive di un’attrice straordinaria come lei.
Quanto tempo è passato dall’ideazione del primo soggetto alla stesura definitiva della sceneggiatura? In generale, quali sono i vostri tempi di scrittura?
Io non sono esattamente un centometrista della sceneggiatura ma Gianni è famoso per far passare almeno cinque anni fra un film e l’altro… questa volta invece è stato velocissimo. Credo che dall’idea del film alle riprese non sia passato più di un anno.
Qual è stato l’iter produttivo del film? Quando verrà distribuito in sala?
Il film è stato prodotto dalla Pupkin di Rita Rognoni che è anche la montatrice di questo e di tutti i film di Gianni. Ma sono coinvolti nella produzione anche la IBC di Beppe Caschetto e RAI Cinema. Verrà distribuito dalla BIM in Italiane per quanto riguarda l’estero ne sta curando le vendite la Match Factory…
Siete stati coinvolti nella fase di montaggio? Ritenete che uno sceneggiatore andrebbe coinvolto in quella che, a tutti gli effetti, è una vera e propria riscrittura del film?
Per quanto mi riguarda ho assistito a diverse versioni di montaggio. E ogni volta Gianni e Rita (Rognoni, la montatrice) hanno avuto la pazienza di ascoltare quello che avevo da dire. O almeno mi hanno dato questa impressione. Io credo che, nel rispetto dei ruoli, uno sceneggiatore seduto davanti all’AVID abbia sempre qualcosa da dire e il non coinvolgerlo mi pare soprattutto uno spreco. Non vale solo per il montaggio ma per una buona parte delle varie fasi realizzative di un film o di una serie. E qui lo so a cosa stai pensando, al fatto che nel nostro sbilenco sistema produttivo, ovviamente per quando riguarda la serialità, manca ancora una figura di riferimento come quella dello showrunner…
Gli autori in Italia continuano a lavorare in condizioni ben lontane dall’essere ottimali: assenza di compensi minimi, lavori sottopagati, diritti secondari ceduti obtorto collo, pensioni impossibili da maturare, assenza del controllo creativo nella serialità, giusto per fare alcuni esempi; solo colpa del sistema o un po’ anche nostra?
Una volta si poteva dire che era nostra perché eravamo divisi, adesso non più e questa è un’ottima notizia. Però ora è il momento di elaborare proposte intelligenti, rivoluzionarie ma anche fattibili, che possano riformare un sistema produttivo ancora imbalsamato in vecchie dinamiche, un settore dove in pochi sono davvero disposti a investire e a rischiare su qualcosa di nuovo e per questo fatica a dare alle storie e agli autori la giusta importanza… come ho appena accennato, il fatto che un po’ tutti i produttori storcano il naso di fronte alla parola showrunner, soprattutto quando è associata a uno sceneggiatore, la dice lunga su quanto siamo indietro.
WGI e 100autori, le due principali organizzazioni degli sceneggiatori italiani, stanno tentando di fare un percorso assieme per cambiare lo stato attuale delle cose; che cosa, concretamente, ritenete che si dovrebbe fare?
Proverò a essere telegrafico: rimanere uniti e pretendere più controllo creativo sui nostri lavori. E fare in modo che il successo commerciale di un’opera sia un vantaggio anche per chi l’ha scritta e pensata.
Michele, grazie per il tempo e la disponibilità. Non mi resta che farvi in bocca al lupo per l’uscita in sala e invitare tutti quanti ad andare a vedere al cinema «Troppo grazia»!