Show me a hero
Sabato 14 novembre 2015 all’interno del Roma fiction fest si è tenuta una masterclass con Paul Haggis, preceduta dalla proiezione della prima puntata della miniserie “Show me a hero”, creata da David Simon, diretta da Haggis e prodotta dalla HBO.
Le masterclass del RFF sono condotte in forma di intervista, le domande vengono poste inizialmente dal giornalista cinematografico Marco Spagnoli e poi dal pubblico.
Fabrizia Midulla ha seguito la masterclass di Paul Haggis per la Writers Guild Italia.
La genesi della serie: quando il nome dello sceneggiatore è una garanzia.
La serie Show me a hero è stata tratta dal libro di una giornalista, Lisa Belkin, e scritta da due giornalisti: David Simon, già autore di The Wire, e William F. Zorzi. Haggis viene a conoscenza del progetto mentre è a Londra a lavorare su un ‘altra produzione, un film: la sua agente lo chiama e gli annuncia di avere uno script firmato da Simon. Si tratta del pilota di una mini serie tv, della quale a Haggis viene offerta la regia. Haggis dice all’agente di accettare immediatamente l’offerta: lo fa senza leggere neanche una riga dello script, per il semplice fatto che l’autore è quel David Simon del quale Haggis è grande estimatore e con il quale è da tempo che vuole lavorare. Dopo aver visto The Wire, infatti, Haggis considera Simon uno dei migliori sceneggiatori che ci sono in circolazione.
Quando i due si incontrano, David Simon è convinto che Haggis voglia curare la regia solo del primo e dell’ultimo episodio, ma Haggis lo sorprende dicendogli che ha intenzione di dirigere l’intera serie. Secondo lui la storia cresce dal secondo episodio in poi, diventando sempre più ampia e sempre più incalzante.
Il tema della serie, così attuale.
La serie racconta una storia realmente accaduta tra il 1987 e il 1994 a Yonkers, un comune nello stato di New York: nel 1987 la Corte federale degli Stati Uniti impone all’amministrazione comunale della cittadina la costruzione di nuove case popolari per le persone di colore anche nel quartiere abitato da bianchi.
Il giovane Nicholas Wasicsko (Oscar Isaac) diventa sindaco della cittadina proprio nella delicata fase politica che segue questo provvedimento federale e che vede il consiglio comunale spaccarsi tra conservatori e integrazionisti; tra tensioni, razzismo e giochi di potere legati all’edilizia, si procede verso la via della de-segregazione.
Da notare, per Haggis, è il fatto che questa storia non sia accaduta negli anni Sessanta, nel profondo Sud dell’America, ma invece nello stato di New York, e solo pochi anni fa.
La serie parla dunque di come noi ci rapportiamo agli immigrati, alle persone che sono escluse dalla società.
Haggis ha amato il fatto che il protagonista di Show me a hero entri in scena combattendo non a favore ma contro, l’inclusione dei neri nelle zone bianche della città (Wasicsko viene infatti eletto sindaco, in prima puntata, grazie al fatto di aver appoggiato l’appello contro la sentenza federale e dunque contro l’integrazione abitativa). Il protagonista cerca di tenere i neri fuori dall’area dei bianchi usando argomentazioni che apparentemente sembrano giuste, innocue: dice che non si tratta di una questione razziale ma economica. Questo tema degli immigrati e degli esclusi continua a riguardare tutti i paesi in tutto il mondo, per questo è interessante.
Tv e cinema. Il mondo visto a testa giù, per noi italiani: dal cinema le storie facili, dalla tv quelle difficili.
La cosa meravigliosa della tv di oggi (in America, ndr) è che fa quello che negli anni ’70, ’80 e ’90 faceva il cinema indipendente: ossia, occuparsi di dramas e social dramas.
Secondo Haggis, oggi nessuno produrrebbe il suo film Crash, perché oggi il pubblico dal cinema vuole solo lo spettacolo, le storie facili, vuole che faccia dimenticare i problemi. Con la tv, invece, noi spettatori (sempre in America, ndr) siamo più pazienti.
E poi, in tv ci sono posti come HBO: secondo Haggis nessuna grossa casa cinematografica avrebbe mai finanziato un drama sul problema dell’alloggio pubblico, mentre invece HBO l’ha fatto. HBO è un luogo in cui ti vengono date possibilità che altrove non trovi.
È per questo che Haggis fa cinema ma continua anche a fare televisione: perché la tv permette di porre problemi difficili, come chi siamo noi come esseri umani.
Il rapporto con gli sceneggiatori. La lingua della razionalità e quella delle emozioni.
La serie è tratta dal libro di una giornalista, e anche gli sceneggiatori della serie sono giornalisti: per loro era molto importante far passare le loro idee; per Haggis invece era importante che quelle idee migrassero sul piano emotivo. Haggis ha discusso molto con gli sceneggiatori, hanno anche litigato, per questo problema: i giornalisti sono abituati ai ragionamenti intellettuali, mentre la tv e il cinema lavorano sul livello emotivo, il pubblico delle storie deve interessarsi, sentirsi coinvolto, empatizzare. In un film come Casino Royale, ad esempio, non è importante quanta action ci sia nella corsa che fa Bond da un punto a un altro: quanti ostacoli, quante esplosioni, quanti effetti speciali. Quello che conta è se ti importa di Bond.
Se non te ne importa niente, il percorso che compie, per quanto spettacolare, sarà solo un susseguirsi di esplosioni e colpi di pistola. Tutto sta nell’emozione.
Il rapporto con gli sceneggiatori/2. Haggis regista e basta.
“Show me a hero” è stato per Haggis il primo progetto che ha diretto senza averlo anche scritto. Ha voluto provarci proprio per questo, perché vuole imparare a essere un regista, e così si è trovato per la prima volta davanti a questa dicotomia con la scrittura: gli sceneggiatori erano gli autori, la storia era vera e loro ne avevano il controllo, e lui rispetta gli sceneggiatori e il loro ruolo… però lui doveva dirigere e aveva il problema di come girare e rendere emotive e visive certe scene che avevano tante informazioni ed erano molto espositive.
Ha risolto questo “problema” solo con gli attori, con la loro recitazione davanti alla telecamera. E poi sporcando le inquadrature per dare un’impressione di realtà. È questo l’importante, nella serie: non che una cosa sia realmente accaduta – non è un documentario – ma che lo spettatore la senta come tale, come vera, come se fosse lì anche lui. E così in ogni inquadratura ha inserito un elemento di disturbo, un errore: invece di comporre l‘inquadratura in modo che fosse perfetta e l’azione principale centrata, ha sempre messo qualcosa o qualcuno a ostacolare la visione, come se lo spettatore stesse guardando la scena sul posto, dal vivo.
Ancora sul tema. Il fallimento della politica.
Nella scena finale della prima puntata, (ATTENZIONE – SPOILING) lo squillo di un telefono fa da sottofondo a una conversazione del protagonista, appena eletto sindaco, coi suoi collaboratori. Sono tutti contenti, vittoriosi, sbruffoni… e non si curano del telefono che continua a squillare. Poi però qualcuno – la neo-fidanzata del protagonista – finalmente prende la chiamata: è una chiamata che annuncia guai.
La prima puntata si chiude così, con questo elemento di ansia che rovina la vittoria.
L’idea del telefono è di David Simon, e serve proprio per suggerire questo, al protagonista: sei fregato ancora prima ancora di cominciare.
Questa cosa qui ha a che fare con un altro tema della serie, che non è solo sociale, ma politico, e che è infatti il fallimento della politica in America.
Oggi la politica si fonda tutta sulla paura e sulle divisioni, specialmente in America ma anche nel resto del mondo. Lo si vede da quello che sta succedendo nel dibattito per le presidenziali (sempre americane), dove l’unico obiettivo dei candidati è fare in modo che qualcuno, di solito i bianchi, abbia paura di qualcun altro, di solito di pelle nera (oggi in America è il turno dei messicani, di essere quelli da temere e da escludere). Le persone finiscono per farsi influenzare davvero, soprattutto quando succedono fatti come quelli di Parigi (accaduti la sera prima della masterclass).
In questo senso le cose possono solo peggiorare, sempre di più.
Cristo ha detto ama il tuo nemico, ma noi non ci riusciremo mai. Si può amare quando si empatizza, ma noi non riusciamo neanche a capire, quello che è successo (fa sempre riferimento a fatti come Parigi). Tutto quello che vogliamo fare, oggi, è odiare. Non è la risposta giusta, ma purtroppo è così che stanno le cose.
Regia e scrittura: due piani di racconto.
David Simon ha dato a Haggis ampia e massima libertà nel girare. Era lì, sul set, ed era coinvolto nelle riprese ma lo ha lasciato fare. C’è stato rispetto reciproco dei ruoli, tra regista e sceneggiatore, che secondo Haggis è necessario.
Al cinema il regista non ha rispetto per lo sceneggiatore, in tv invece c’è più equilibrio (a volte è il regista, cui si manca rispetto). Quando c’è equilibrio le cose funzionano meglio.
Bisogna essere bravi a raccontare la storia da registi così come bisogna esserlo da scrittori perché la storia viene condotta su entrambi i piani, quello visivo e quello di scrittura. Ad esempio, rispetto alle scelte di regia: ci dev’essere un motivo per cui si piazza la macchina da presa in un certo punto, non basta che l’inquadratura sia cool, ci dev’essere una motivazione emotiva. Bisogna raccontare la storia con le inquadrature e con gli attori.
Le riprese hanno tempi diversi: al cinema, nel caso dei film indipendenti, si gira di solito 1 pagina in un giorno; nei grandi film, si gira da 1 a 2 pagine in un giorno; nella serie “Show me a hero” dovevano girare da 6 a 10 pagine in un giorno e alla fine di ogni giornata c’erano sempre altre cose da girare. In questo senso la serie è stato un set molto faticoso, però allo stesso tempo gli ostacoli a girare alcune scene nel modo in cui erano state scritte o previste (per l’indisponibilità di una location, per esempio) hanno spinto Haggis a trovare nuove e migliori soluzioni creative. Le cose importanti accadono sempre nel luogo sbagliato e mai nel luogo giusto: accade nella vita, quindi va bene anche per il set.
È importante anche sapersi affidare all’istinto degli attori, che in certi casi può essere migliore di quello del regista.
Il rapporto con gli altri e la solitudine dello scrittore.
Di natura Haggis si definisce un solitario e proprio per questo, come tutti i solitari, desidera essere parte di un gruppo.
Gli esseri umani sono questo, le loro contraddizioni, è questo il bello da raccontare.
Haggis è un introverso ma è un “introverso sociale”: gli piacciono le persone ma ne ha paura, anche. Alle feste può essere amabile e mettere tutti a proprio agio ma poi si ritira in camera sua a guardare la tv. È successo anche alla festa che lui e sua moglie hanno dato dopo la vittoria dell’Oscar.
Haggis ama scrivere ma lo odia pure, per esempio quando i personaggi non gli parlano, quando scrivi e sbagli e continui a sbagliare. Quando ci metti anni, per scrivere un film, come gli è successo. Però poi quando finalmente si chiude una sceneggiatura e tutto torna, è bellissimo.
Lo stesso vale per il lavoro di regista: può essere terribile, come quando tutto va storto e tutti chiedono la soluzione a te. Però è anche divertente. Gli piace moltissimo lavorare con gli attori, ama vederli quando fanno venire alla luce i loro personaggi, recitando, come se fossero artigiani che plasmano un oggetto… è una fortuna, poter assistere a questo.
La gelosia e l’invidia che fanno parte del gioco.
Lui è il creatore del mondo del “nuovo” Bond – ha scritto Casino Royale e Quantum of Solace – e se ne dichiara, onestamente, gelosissimo: il fatto che quei due film li abbiano girati altri, o che i successivi di Bond li abbiano scritti altri lo fa essere geloso, ma fa parte del gioco, del mestiere. Così come “invidiare” gli altri.
Secondo lui qualsiasi sceneggiatore e qualsiasi regista quando vede qualcosa di bello vorrebbe esserne stato l’artefice.
Cita un film che non ha ancora visto, “Trumbo”, che racconta la storia di uno sceneggiatore di Hollywood negli anni del maccartismo. Uno sceneggiatore che vede la sua carriera stroncata dal fatto di essere sulla lista nera dei comunisti ma che trova il modo di rialzarsi e tornare al successo. Uno sceneggiatore molto coraggioso… Ecco, lui avrebbe voluto molto aver scritto o girato quel film.
Il filo rosso nel lavoro di Haggis: la domanda che ogni scrittore deve farsi.
Gli piace fare cose diverse, però nel suo lavoro c’è un filo conduttore, qualcosa che accomuna tutti i film o le serie che scrive o dirige, che sia Bond, o Crash, o altri: c’è sempre una domanda, al centro della storia, alla quale lui non sa rispondere, qualcosa che lo disturba.
Persino in Bond, ha voluto trovare questo elemento. Anche se era un personaggio già dato, già noto, già scritto, gli ha chiesto quello che avrebbe chiesto a qualsiasi altro personaggio con quelle caratteristiche e cioé: …okay, qual è il tuo problema con le donne? E si è risposto che forse Bond aveva il cuore spezzato. Da qui poi è nata la scena della partita di poker in Casino Royale in cui Bond si innamora di Vesper Lynd, semplicemente attraverso un gioco di sguardi in cui l’uno e l’altra si vedono per come sono e si accettano.
Un altro esempio, il suo secondo film “Nella valle di Eliah”. È molto importante per un artista poter dire la sua, specialmente sulla guerra nei periodi di guerra, invece Hollywood tratta gli artisti come fossero idioti, chiede a tutti di starsi zitti, di non entrare in questioni che non li riguardano, di non avere idee politiche.
In quel periodo scendeva in strada a protestare contro la guerra (parla della guerra d’Iraq, ossia la seconda guerra del Golfo, durata dal 2003 al 2011), ma nessuno prestava attenzione a quelle proteste. Lui cercava una storia per dire qualcosa sulla guerra, perché fa parte del suo lavoro farlo. Ma quale storia? Non voleva semplicisticamente parlare male dei soldati e dire che sono persone cattive, perché ovviamente non è vero. Voleva una storia vera e cominciò a parlare con un sacco di persone che erano state in Iraq per i primi tre anni e poi erano rimaste ferite ed erano rientrate a casa. E ha scoperto una storia, che riguarda qualcosa che le truppe hanno l’ordine di fare e cioè che se stai guidando un veicolo dell’esercito che fa parte di un convoglio, e qualcosa si frappone tra te e il veicolo davanti a te, tu non ti devi fermare, hai l’ordine di non fermarti. E questo ordine ha senso perché se ti fermi, possono saltare fuori persone con delle armi che sparano o lanciano bombe contro il tuo veicolo e possono uccidere te ma anche i tuoi compagni nel tuo veicolo e quelli dietro di te che si sono fermati a causa tua. Quindi non puoi fermarti perché metti a rischio tutte queste persone. Quindi si tratta di una buona regola, TRANNE nel caso in cui quel qualcosa che si frappone tra te e il veicolo davanti sia un bambino. Che succede, se davanti a te spunta un bambino e si ferma davanti al tuo veicolo? Cosa fai, se l’ordine è andare avanti ma davanti a te c’è un bambino? Hai diciassette anni, hai tre secondi per decidere… ti fermi, o non ti fermi? Haggis dice che lui non avrebbe saputo prendere quella decisione. La decisione tra la vita del bambino o quella dei suoi compagni, in TRE secondi. Nel momento in cui ha scoperto questa cosa, che non avrebbe saputo prendere questa decisione, ha saputo di avere la storia da raccontare.
È troppo facile per uno scrittore dire oh, io lo so cosa avrei fatto… io so come va il mondo e adesso ve lo spiego. È meglio se gli scrittori, e i filmmaker, trovano qualcosa cui non sanno rispondere e che permette al pubblico di farsi delle domande e entrare in conflitto.
Gli inizi della carriera, le ultime cose (Third person) e il cinema italiano.
Haggis amava il cinema fin da quando era ragazzino. Gli piacevano tutti i film, da Hitchcock ai film horror con Vincent Price. Ma è solo quando, da adolescente, ha visto i film dei registi della new wave italiana e francese – Antonioni, Pasolini, Godard, Truffault, Fellini… – che è rimasto veramente colpito: davvero si possono raccontare le cose così? Rigirarle da sopra a sotto e raccontarle così? È stato lì che ha deciso che avrebbe fatto cinema anche lui.
È per questo che ha fatto il suo ultimo film, “Third person”, un film che sapeva che nessuno avrebbe visto o avrebbe voluto vedere. È un omaggio al film-making. Oggi non abbiamo più pazienza con quel tipo di film-making… vogliamo solo risposte, le vogliamo scritte chiare, sottolineate e ripetute due o tre volte… E così si è detto: perché non fare un film in cui ci sono molte più domande che risposte? Un film in cui tu devi pensare, devi uscire dal cinema e discutere con i tuoi amici per capire di che diavolo parli… Una cosa strana da fare a questo punto della carriera ma… era una cosa che lo stimolava.
A questo punto Haggis si è incartato, ossia nel tentativo di difendere un suo film obiettivamente poco riuscito ha cominciato a essere contorto e oscuro. Quindi tutta la pippa su Third person la ometto. Se qualcuno invece avesse colto questioni illuminanti che io non ho colto è benvenuta l’integrazione. In conclusione di questa parte qui, Haggis dice che…
Nessuno sa veramente chi è. Noi non sappiamo chi siamo, e ne siamo affascinati. È quello che succede in “Crash”: tu pensi di sapere chi sei, e invece non ne hai la minima idea. Per questo Haggis ama i temi che esplorano noi stessi, e le nostre vite: perché noi pensiamo di sapere così tanto su di noi, e invece sappiamo pochissimo.
Un po’ di training motivazionale per gli sceneggiatori e i filmmaker.
Sta al singolo filmmaker decidere di cosa occuparsi e, eventualmente, scegliere di parlare di qualcosa di cui nessuno si occupa, di fare scelte insolite. Lui ricorda di aver visto – a un festival, probabilmente – “Hotel Rwanda” ed esserne rimasto molto turbato, commosso. Così ha chiamato lo sceneggiatore e regista, Terry George, per chiedergli come mai avesse fatto questo film: George è un irlandese, il film parla di un genocidio in Africa… come mai ha avuto il coraggio di farlo? Perché proprio lui, che non è un filmmaker africano, di colore? E George ha risposto, semplicemente: perché nessun altro lo stava facendo. Ed era una cosa che lui voleva fare.
È per questo che Haggis incoraggia i filmmaker a smettere di pensare a cosa vende e di dedicarsi invece a ciò che sta loro a cuore, di raccontare alle persone le storie che sembra che nessuno voglia sentire.
Quando ha scritto Million dollar baby e Crash ha provato per cinque anni a venderli. Nessuno li voleva, tutti li hanno rimandati indietro. Ogni studios in città (Los Angeles), ogni casa di produzione, in due paesi diversi. Million dollar baby è su una ragazza che fa boxe e sull’eutanasia: chi avrebbe dovuto farlo? E seppure l’avessero fatto, chi sarebbe andato a vederlo? Chi vuole vedere la storia di una ragazza che fa boxe e poi si vuole uccidere? Nessuno! Crash, uguale: non ha un personaggio centrale principale, non solo parla di razzismo e di intolleranza ma rimprovera i liberali, di queste cose. Chi può voler vedere questa roba? Ma a lui stavano molto a cuore, queste storie. E così ha continuato a proporle incessantemente finché, per Crash, non ha trovato qualcuno che gli ha dato dei soldi per farlo e, per MDB, ha trovato Clint Eastwood che voleva farlo.
Quello che serve è la passione. Non importa che si tratti di una social issue, a lui piacciono film di tutti i tipi… e poi si può nascondere la social issue dentro qualsiasi altro film. Comunque, si possono porre altri tipi di domande. Per esempio: cosa farei per amore? Quanto mi spingerei oltre, per amore? Insomma non deve necessariamente essere qualcosa di politico, dev’essere qualcosa che ci sta a cuore. E poi bisogna andare a farla: stop making excuses… just do it. Basta, dire che nessuno vorrà quella cosa: certo che non la vogliono, sei tu che devi fare in modo che la vogliano.
Citando qualcuno, Haggis dice che se qualcosa ti piace, vuol dire che non è nuova. Se vuoi fare qualcosa di nuovo, e coraggioso, ti devi aspettare, anzi devi sapere con certezza che a qualcuno potrà non piacere, che sarà difficile trovare finanziatori. È il duro del nostro lavoro, funziona così.
Dritte per gli amici attori.
Quello che Haggis cerca in un attore è lo stesso che tutti cerchiamo nella persona di cui poi ci innamoriamo: ossia, che quando ci sta davanti sia abbastanza coraggiosa da essere vulnerabile. È molto difficile, essere così coraggiosi e mostrarsi realmente, fare in modo che chi ti guarda negli occhi veda la tua anima. Gli attori che lo sanno fare sono meravigliosi… Significa togliersi l’armatura. E la cosa pazzesca è che lo devono fare in un’audizione. Davanti a una pagina. è difficilissimo.
Lui non scrive mai per un attore ma per i personaggi. Scrivere per un attore significa fargli un cattivo servizio: vuol dire che stai scrivendo per qualcosa che ha già fatto, mentre gli attori vogliono fare cose nuove, cimentarsi in sfide che non hanno ancora affrontato.
Il coraggio è LA qualità degli attori. Il coraggio di rivelare se stessi.
C’è una differenza sostanziale comunque tra un attore e chi vuole solo diventare famoso, ed è una cosa che si vede, che viene fuori anche nei provini.
Ovviamente quando si prepara un film e si fa un casting tutti sanno cosa vogliono: il regista, il direttore della fotografia, il produttore… Ma è bello quando arriva un attore che ti sorprende, che scompiglia le carte… A lui, per “Show me a hero”, è successo con Carla Quevedo, l’attrice argentina che interpreta la fidanzata di Wasicsko. Lei era sbagliata, per quel ruolo, già per il solo fatto di essere argentina (deve interpretare un personaggio americano). Ma Haggis l’ha voluta subito. Perché lei ha la qualità di spezzarti il cuore, che era ciò che gli serviva. “Show me a hero” è una storia terribile, drammatica, lui aveva bisogno di qualcuno a cui ci si affezionasse, qualcuno che spezzasse il cuore. E lei era quel qualcuno. È una qualità della persona, proprio, non dipende necessariamente da quello che un attore fa in un provino. Esistono attori che ai provini danno il peggio di sé, e poi sul set sono magnifici. E vice versa. Perché l’audizione è un contesto strano… ancora meno vero di un set. È un contesto duro…
Per finire, ancora sulla politica.
Alla fine le case popolari sono state costruite, a Yonkers, e in qualche modo hanno funzionato, non ci sono stati problemi, le persone che dovevano andarci ci sono andate e si sono integrate. La situazione è migliorata, quindi. Ma non va ancora bene, per niente.
Il costo politico dell’operazione è infatti stato altissimo, per cui si è smesso di costruire alloggi popolari di quel tipo, e quelle torri in cui si ghettizzano i poveri esistono ancora. E non c’è volontà politica di continuare quel progetto di integrazione. E questo non va bene: la politica non può evitare la povertà, ma deve garantire la dignità degli individui. Più dei soldi, è questo che conta: la dignità. Ogni essere umano merita la dignità. Se tu togli a una persona la dignità, quella persona si rivolterà contro di te, ti combatterà. Ed è a questo, che dobbiamo prestare molta attenzione, nel mondo attuale.
Il modello di integrazione rappresentato da quegli alloggi di Yonkers è giusto, va proseguito. Al contrario, sono da condannare gli edifici-ghetto in cui i poveri non hanno privacy, non hanno via di fuga, non hanno dignità.