Quando il romanzo si fa serie
Il 14 novembre al Roma Fiction Fest si è svolta la Masterclass moderata da Marco Spagnoli intitolata Quando il romanzo si fa serie, con Giancarlo De Cataldo, Andrea Porporati e Frank Spotnitz, autore di The man in the high castle, serie Amazon che si è aggiudicata il Premio RomaFictionFest miglior nuova TV Series/Limited Series/TV Movies.
Oggetto della conversazione sono stati i problemi legati all’adattamento e alla trasformazione di un romanzo in una serie tv con diversi episodi.
Alla sollecitazione di Marco Spagnoli, che chiede ai tre scrittori come la letteratura che si vede oggi in televisione sia diversa da quella precedente, Andrea Porporati, che per la RAI sta adattando Il nome della rosa di Umberto Eco, risponde per primo. Il nome della rosa racconta di un fanatico cieco fondamentalista che uccide perché vuole tenere nascosto un libro che insegna a ridere.
La ragione per cui le serie tv non possono prescindere dai romanzi risiede nel loro avere più strati. Le serie hanno la funzione che hanno i sogni nella vita di ogni individuo. Vanno a fondo e rielaborano passioni, pulsioni, tutto ciò che anima la profondità della psiche umana. Porporati cita Romanzo Criminale, la cui storia primaria sarebbe addirittura L’Iliade. Un gruppo di eroi che vanno alla conquista di una città, cosa che li perde e li trascina nella tragedia.
La funzione psicoterapeutica della serie si esprime nell’elaborazione delle pulsioni che vi sono dentro. Con il risultato di edificare la civiltà andando più in profondo di quello che solitamente si può fare.
Spagnoli chiede a De Cataldo di raccontare come Suburra, il seguito ideale su Netflix di Romanzo Criminale (Sky), abbia preconizzato i tempi. Lo scrittore per prima cosa cita l’autore de Il trono di spade quando afferma che il suo romanzo è composto da linee narrative non risolte, affermazioni contraddittorie, caratteri indefiniti. Un elogio dell’imperfezione insomma, denso di conflittualità profonde. Il tentativo di aggredire attraverso l’audiovisivo la complessità dell’esistenza. Per De Cataldo Balzac, Dickens, Dostoevskij, sono scrittori imperfetti che dimenticavano di aver assassinato un personaggio per ritrovarselo vivo e vegeto molte pagine dopo la sua morte, e tuttavia ne cercavano la motivazione profonda solo nella relazione con gli altri personaggi.
La grande opportunità che la nuova serialita’ offre è rompere, travolgere la meccanicità che ha afflitto gli autori negli ultimi anni. Per recuperare una felice, felicissima libertà creativa. Così ora si può attingere al mito, si possono mescolare i generi, all’interno di una meravigliosa confusione, raccontare la criminalità, la politica. Oggi è più esaltante realizzare le storie in tv piuttosto che al cinema.
La televisione sta diventando universale mentre il cinema sta diventando residuale.
Il film Suburra ridice il romanzo nello spazio di due ore di rappresentazione, ma non riesce a parlare alle multisale dove il cinema è ormai solo la saga di un eroe da cartone animato.
Sterminate praterie narrative si aprono a chi riesce a capire la grande saldatura tre la letteratura, i generi e il panorama produttivo delle televisioni.
Frank Spotnitz, già sceneggiatore e produttore di X Files, e ora showrunner di The man in the high castle, miglior nuova TV series nell’edizione del RFF di quest’anno, prodotta da Amazon con la partecipazione di Ridley Scott, adattamento del romanzo ucronico di Philip K. Dick La svastica sul sole, spiega di vivere il momento più entusiasmante della sua vita.
Le produzioni oggi prendono rischi e fanno qualcosa di originale: una produzione come The man in the high castle non sarebbe stata realizzata solo pochi anni fa.
Nell’adattamento del romanzo in serie tv, il racconto può essere visivo, ci si può fermare, si puo’ andare a fondo nel trasformarlo in una esperienza visiva. Il suono, la luce, influenzano la sua fruizione. Si tratta di un’esperienza più passiva ma al tempo stesso straordinaria. Si possono prendere le idee e manipolarle per dar loro più estensione e profondità rispetto al romanzo.
Il tema è: come si fa a mantenere la propria umanità di fronte alla disumanità.
La serie, piena di speranza, si basa su un’alternativa di storia: tedeschi e giapponesi hanno vinto la guerra sugli Stati Uniti. L’amore è più forte dell’odio ma alla fine vince sempre. L’ampio arco della storia porta alla giustizia.
Spagnoli cita gli sceneggiati Rai degli anni sessanta che contribuirono moltissimo all’alfabetizzazione e all’unità linguistica del paese. Svolgendo una funzione didattica forse ancora più importante di quella offerta dalle università.
Porporati: quando bisogna tradurre l’opera in un racconto è necessario tradirla per restarne fedeli.
Un romanzo è un’opera che si serve del linguaggio verbale mentre la televisione accosta immagini e suoni. Quanto più si riesce a trovare in Guerra e Pace la propria Guerra e Pace, quanto più lo sguardo è soggettivo, tanto più il racconto sarà universale. Romanzo criminale, Faccia d’angelo sono storie profondamente italiane, folk, per questo sono universali. Porporati non è d’accordo sul concetto della divulgazione applicato all’attualità. La RAI allora svolgeva una funzione altissima, ma oggi un’opera è molte opere, e si fonda sulla complessità.
Il trono di spade non è altro che una storia shakespeariana sul potere dell’Inghilterra ai tempi della Guerra delle due Rose. La serie non è stata costretta dalle regole come gli editor delle reti italiane impongono, piuttosto ha costruito un mondo di cui ha colto il cuore, evitando la meccanicità delle regole. Imponendosi a un pubblico di massa, attraverso percorsi complessi, contraddittori, confusi, che proprio per questo arrivano a tutti, sono personali e universali. Il nucleo bruciante, violento, forte, conturbante del romanzo La svastica sul sole gli ha cambiato la vita, aggiunge Porporati. Al mattino tira delle monetine per cercare di orientarsi nella sua vita. Dal romanzo ha preso l’abitudine di consultare l’oracolo cinese. Bisogna cercare le formule al di là delle regole e dei manuali che hanno oppresso gli sceneggiatori per tanti anni. Questi manuali si sforzavano di fornire le strutture con ricetta. Ma questa è un’imbecillagine colossale. Per Porporati De Cataldo stesso è stato oppresso dai manuali quanto lui.
E conclude con l’esempio di come ne Il nome della rosa abbia scelto di ispirarsi al manuale del bravo inquisitore di Bernardo Gui, dove si spiega come si fa a trovare il demonio. Gui ha trovato il demonio, lui il demonio lo trovava veramente. Solo che il demonio non esiste.
E’ esattamente quello che facevano i manuali, promettevano di trovare lo spiritello che permette di scrivere un bel film. Ma questo spiritello non esiste.
De Cataldo è d’accordo: bisogna seguire le correnti oscure che animano la narrazione, al di là delle tecniche manualistiche. Lui stesso ha cambiato il finale di Romanzo Criminale perché quello prevedibile e corretto gli era insopportabile. Così infine, contravvenendo alle regole, ha punito il personaggio dell’antagonista. Perché è la narratività, la storia, che detta legge.
Le storie sorreggono la nostra esistenza, Campbell, che va studiato come intelletuale e non come manualista, Campbell monumento della cultura di destra, ha scritto che i miti aiutano a vivere meglio.
De Cataldo racconta la storia persiana dove l’oceano è un mostro maligno, e l’unico antidoto è mandare un narratore che lo tenga tranquillo, perché quando ci si distrae, l’oceano sommerge la terra e gli uomini.
Si è aperta una finestra, non solo per gli scrittori, ma anche per i produttori e per i network.
I manuali danno un corpus di regole che si possono gestire senza diventarne succubi. La libertà creativa che c’è in The man in the high castle deve diventare una libertà creativa d’industria. De Cataldo conclude con un appello: “Signori tv dovete rischiare. Senza rischio questi (gli americani) ci lasciano cento anni indietro.”
Frank Spotnitz ricambia la gentilezza di De Cataldo e racconta l’aneddoto dove a Londra, sei mesi prima, il tassista gli chiede cosa ha scritto. E alla risposta, replica che a lui X files non lo ha mai interessato. Il tassista inglese guarda Romanzo Criminale.
Spotnitz parla della tv che ha visto da ragazzo. Era uno spettatore ossessivo della televisione: Twiligth Zone, Star Trek e Mission Impossible, le serie più potenti. C’erano emozioni e idee sotto la narrativa che rimanevano con lui. Che intrattenevano, ma poi restava la voglia di pensare. FS. sostiene che servono valori nutritivi. C’è bisogno delle storie per sopravvivere. La vita è così complicata, e ciascuno ha solo la sua unica storia, mentre le storie elaborate nelle serie TV danno le esperienze delle altre storie, degli altri.
Migliori sono le storie che si raccontano, più è possibile rendere il mondo in cui si vive. E’ questa la missione delle televisioni.
La funzione terapeutica, salvifica, della serialità è dunque ribadita come primaria e conferma l’idea dei due scrittori italiani. Questa funzione profonda convive sì con il piacere dello spettatore ma è un piacere al servizio dell’identità. Della necessità di conoscenza. E’ la grande lezione degli americani. Che a ben vedere hanno intelligentemente mutuato tutto questo dalla più antica tradizione narrativa europea.
Spagnoli ricorda che secondo Freccero la funzione che ha avuto il romanzo dell’ottocento e del ventesimo secolo appartiene oggi alle serie televisive. Le serie sono diventate la letteratura di questi anni. Dickens per disapprovare il lavoro minorile, oggi farebbe una serie tv.
Porporati introduce il tema della necessità dello showrunner. La produzione di serie è stata costretta a inventare una nuova figura: lo showrunner, appunto, il direttore creativo dell’opera a partire dalla scrittura fino ad arrivare al missaggio finale. Colui che dà un’unità, ricerca lo sguardo personale in un’opera collettiva. Si tratta di una rivoluzione produttiva. Le produzioni sono più a basso costo, è necessario dunque razionalizzare le risorse. Chi meglio dello scrittore può farlo? Scrivere in modo che il denaro disponibile sia valorizzato al massimo. In modo da difendere la forza della storia dall’inizio della scrittura fino alla fine, alla composizione della musica.
De Cataldo dice della necessità di raccontare in modo non noioso, e di come questo sia compito dello showrunner, i film non possono essere di tutti, non si deve più accettare la regola per cui l’autore è solo una parte, una piccola parte del processo creativo e produttivo, non bisogna più accettarlo.
Spagnoli ricorda a Spotnitz che in X Files preconizzò l’11 settembre.
Spotnitz conferma. Un romanzo è solo lingua, e trascende la tecnologia, se la lingua è bellissima può essere vecchia di quattromila anni. Quello che fanno gli sceneggiatori oggi durerà meno.
Gli scrittori vogliono rappresentare la giustizia.
In una serie è possibile esporre i temi nel modo che si vuole.
E’ come una psicoanalisi esterna: “Io osservo gli altri, i personaggi, se lo faccio bene con onestà, i personaggi non mi obbediscono, loro perseguono la loro verità, ineluttabilmente. Non ho le risposte, io scrittore condivido con te la mia domanda. Sto facendo una conversazione con il pubblico, la più vera possibile. Quando si fa l’adattamento, deve essere personale, deve riguardare l’autore il più possibile, più si è dentro più avrà importanza per il pubblico: la sfida diventa politica, rapidamente. Lo spettro politico è molto più ampio in una serie più che nella vita. Quando si scrive, si tenta di raggiungere la verità umana che è più grande della politica. In Hunted ho voluto con me scrittori di diverse provenienze. Uno veniva da un ambiente privilegiato. Una era un’indiana proletaria, il terzo era un moderato. Dopo violentissimi scontri, infine, gli scrittori, nonostante la loro provenienza sociale, si sono trovati tutti assolutamente d’accordo su come si sarebbero comportati i personaggi.”
La drammaturgia ha superato la politica.
A una domanda dal pubblico De Cataldo spiega che in italia durante la realizzazione di una sua serie lui è uno tra i tanti e non è come se fosse uno showrunner in america.
Porporati conferma. Ad avere in mano lo scettro del comando, oggi è il produttore.
Lo showrunner ha la gestione anche del budget oltre ad essere colui che scrive. E’ una figura che segue la serie artisticamente e produttivamente dall’inizio alla fine. I produttori in Italia non hanno la competenza tecnico artistica per gestire una sceneggiatura in chiave artistica. Non cercano la massima resa spettacolare dello script con quel budget a disposizione, tendono solo a salvaguardare il budget.
In america la sigla costa quanto una puntata, si pensi a True Detective, che ha una sigla spettacolare con immagini della Lousiana. Dà l’atmosfera che il film vuole trasmettere, lo showrunner ha deciso di spendere molti soldi per girare una sequenza molto bella che apre tematicamente la serie. In Italia questo non succede. I produttori sono esecutivi, sono i guardiani del rispetto del budget.
De Cataldo aggiunge che mentre un film è al 90% del regista, una serie tiene molto più in conto lo scrittore. Le soluzioni sono tutte concordate con lui. Così è stato in Romanzo Criminale e così è ora in Suburra.
L’ultima domanda è per Frank Spotnitz: Perché ancora Philip K. Dick?
Perchè era un anticipatore. Così complesso, pone enormi domande su cosa vuol dire essere umani.
Mai come oggi ci sentiamo di dire che ben oltre l’intrattenimento, cercare e rappresentare l’umanità è la funzione primaria dello scrittore di serie TV.