Gomorra – la serie
Stefano, come è nata La serie Gomorra?
Posso subito dire che la serie non è nata sotto i migliori auspici, perché i primi due tentativi di scrittura sono andati a vuoto. Io sono stato chiamato sin dall’inizio del progetto. Mi chiamò Fandango e cominciai a lavorare alla serializzazione del libro di Saviano, insieme a Leonardo Fasoli, con la consulenza di Giovanni Bianconi. Il primo tentativo era di fare una serie orizzontale tutta legata con episodi da 100 minuti, con un protagonista unico vagamente ispirato alla figura di Roberto Saviano. Po,i Sky ci rispose che in realtà avevano cambiato idea e volevano una serie fatta di 6 piccoli film autonomi. A quel punto, si è aggiunta anche Ludovica Rampoldi. Scritti daccapo i nuovi 6 soggetti, è entrato nel progetto Paolo Sorrentino. Che ha confermato il format della serie, ma ha cercato di dargli un’impronta tutta personale. Il primo soggetto lo scrisse lui e gli altri noi.
È così leggendario come si racconta questo soggetto di Sorrentino?
È andata più o meno così. Essendo l’headwriter, lo chiamai per dirgli che eravamo a ridosso della consegna e dei 6 soggetti mancava solo il suo. Due giorni dopo me lo ha mandato. Non credo di fargli un torto se racconto che, secondo me, lo ha scritto praticamente in quelle 48 ore. La prima volta che l’ho letto sono rimasto, da una parte, esaltato, dall’altra, mortificato. Perché era una scrittura meravigliosa. Faceva ridere e faceva piangere. Dal punto di vista visivo era una vera esplosione di immagini. Era semplicemente bellissimo. Ancora oggi, ogni tanto, mi capita di tornare a leggerlo.
Leggenda consegnata, cosa è successo dopo?
È successo che la visione sorrentiniana della serie era assolutamente originale, super-divertente, ma molto distante dal libro, forse troppo e questo avrebbe creato dei problemi alla rete con il marchio Gomorra. Sky aveva comprato un marchio e non lo si poteva smontare. E quindi si è di nuovo cambiata direzione: il matrimonio si è sciolto consensualmente. Il progetto sembrava nuovamente arrivato ad un punto morto. La maledizione di Gomorra, la chiamavamo.
E poi invece è rinato con l’arrivo di Stefano Sollima.
Era il nome giusto per ripartire di nuovo. Ed infatti, eccoci qua.
La squadra è rimasta la stessa?
Sì, con l’aggiunta di Filippo Gravino e Maddalena Ravagli, come sceneggiatori di puntata.
Abbiamo rielaborato il soggetto di serie, che è sostanzialmente consistito in un’unica grande operazione: cercare di collegare tutto il materiale che c’era, ma che era rimasto scollegato. Avevamo bisogno di serializzare di più e il modo più efficace è stato incentrare le vicende su un’unica famiglia. Di camorra.
I credits della serie dicono che c’è stato un headwriter e uno showrunner, rispettivamente tu e Stefano Sollima. Ci racconti come vi siete coordinati?
Quella di Sollima è sostanzialmente stata una direzione artistica, lui veniva alle riunioni di sceneggiatura, poi leggeva i materiali e li discutevamo insieme, ha seguito passo dopo passo le fasi e ha esercitato il suo potere di indirizzo. C’era una cifra artistica nella sua idea e nella scrittura questo doveva venire fuori. Sollima ci ha guidato e noi siamo andati incontro al suo immaginario.
Come ha funzionato il team di scrittura?
Ci siamo visti e incontrati molto, definendo, con una certa precisione, punto di partenza e di arrivo di ogni episodio, ma prima ancora, con la stessa precisione, punto di partenza e di arrivo di tutta la serie. Ma è stato un lavoro molto effimero, perché alla prova della realtà, tutto si è piegato. E molto materiale è stato buttato.
Quando, infatti, con Sollima si è arrivati alla fase dei sopralluoghi, è stato lì e soltanto lì che abbiamo finalmente capito chi e cosa volevamo veramente raccontare. Che tipo di camorra. Che tipo di ambienti. Che tipo di umanità. E questo ha cambiato tutto. Perché rapidamente abbiamo capito che Scampia e Casal di Principe non sono la stessa cosa, come mondi, come interessi, come tipo di business, come psicologia dei personaggi.
Puoi farci un esempio concreto di come è cambiata la scrittura in funzione della realtà?
Parlavamo di affari, e trattavamo i nostri personaggi come camorristi tout court, quando i clan di Scampia e Secondigliano non sono camorra, letteralmente non sono camorra, non c’è affiliazione, sono sostanzialmente dei trafficanti. E quindi se tu vai a raccontare la camorra cittadina, parli di scippi, furti, rapine, usura, spaccio e pure appalti, ‘o sistema insomma. Quando parli di loro, invece, parli di impresari, tutti dotati di una spiccata capacità imprenditoriale. Studiare il funzionamento di una piazza di spaccio è un po’ come studiare il funzionamento di un’azienda che funziona e produce 24 ore al giorno, turni, paghe, welfare. E questo ti cambia tutto. A noi, ci ha cambiato l’arena della serie.
Ci sono famiglie storicamente radicate, raramente ci sono guerre per rubarsi i territori, raramente ci sono famiglie che perdono il potere. Sei a metà strada tra il far west e il medioevo, dove ci sono i feudi e questi feudi sono gestiti in maniera padronale, ma direi, più esattamente, imprenditoriale.
E quand’è che i copioni vedevano la parola fine?
Molta scrittura è avvenuta in parallelo con la produzione. Stefano ha cominciato a girare molti episodi, mentre ancora non erano scritti. E la scrittura si è nutrita del lavoro del set. Quello che lì si carpiva della realtà, finiva dritto dritto nei copioni.
Stefano telefonava: questa cosa non è precisa. Non può succedere che questo personaggio faccia questo. Anche solo dal punto di vista urbanistico. Non può fare questo spostamento.
E poi io, la sera, scendevo a Napoli e lavoravamo a set chiuso sulle modifiche da apportare. Ma materialmente le apportavamo, io e gli altri scrittori, il giorno dopo.
Quello che è riconoscibile, ad occhio nudo, è la scelta drammaturgica di raccontare solo una parte della barricata, quella dei criminali. È un’idea che stava nel concept sin dall’inizio o che è arrivata strada facendo?
Nella penultima impostazione seriale c’era ancora qualcosa. Per esempio, c’era una puntata dedicata al bene, con personaggio un magistrato. Raccontato in maniera trasversale certo, non come il classico “cacciatore”. Tutto era incentrato sulle difficoltà di un uomo di legge nel districarsi tra il bene e il male in quel mondo, quasi l’impossibilità di restare immacolati.
Ma da quando è arrivato Stefano, le figure positive sono scomparse.
Per il semplice fatto che una volta trovato il nucleo narrativo della serie, e cioè la famiglia Savastano, a noi interessava solo entrare lì dentro e restarci, indagando tutte le possibili direzioni. Senza guardarli da fuori, neanche solo un momento. Questo, ovviamente, ha creato dei problemi, per il marchio Gomorra e tutto quello che già si portava dietro dai tempi del libro e del film di Garrone e per le solite polemiche italiane. Voglio dire però, che per noi è sempre suonato come un limite dover mettere in scena il bene per poter raccontare il male.
E il bene dentro il male?
Sai, tutti hanno delle umanità. Fatalmente, quindi, raccontandole dal di dentro, nell’universo di tutte le loro emozioni, per forza di cose emergeva una umanità. Ma il nucleo seriale è proprio quello: noi abbiamo raccontato un universo di vittime, anche raccontando i cattivi potenti. Vittime del loro stesso mondo, del loro stesso modo di pensare, agire, amare, odiare. E non penso che a questa impressione si sfugga mai. I luoghi sono brutti, ci vivono con la paura, la diffidenza, hanno i citofoni d’oro, ma sono case che sono prigioni. Nella serie, prima empatizzi con un personaggio, poi quando anche questo fa una cosa riprovevole, ti chiedi ma come ho fatto ad attaccarmi ad uno così, e allora pensi di attaccarti al personaggio successivo e anche questo prima o poi ti delude, e così via, e intanto vai avanti nella serie.
Questo meccanismo rispondeva ad una scelta strutturale precisa?
Non lo abbiamo fatto a tavolino questo ragionamento, ma è stata una conseguenza dell’impostazione iniziale. Prendi Ciro Di Marzio, l’Immortale: all’inizio stai con lui perché perde il suo grande amico, praticamente un padre, e stai subito con lui e contro il boss Savastano senza pietà che li ha mandati a morire. Poi, pian piano, capisci che Ciro non è una vittima, anche lui è una belva, anche lui è sopraffatto da quelle logiche e la differenza con Savastano, alla fine, diventa impercettibile.
Cosa ne pensi del successo delle due raffinate parodie dei The Jackal? Voglio dire, a me è sembrato che paradossalmente, quei due video abbiano restituito quella leggerezza, quella vitalità, quello humour, persino quella comicità, tradizionalmente napoletana, che la serie aveva scelto di non avere. Come se Napoli, poi, comunque quel vuoto se lo sia voluto riprendere.
Sullo humour, non sono molto d’accordo. Ci sono vari momenti in cui io personalmente sorridevo, scrivendo o leggendo. Lo spirito di Salvatore Conte lo esemplifica bene, perché lui è uno che fa battute. O per esempio quando i Savastano stessi si chiedono, occhieggiando verso il giovane Genny: “E questo, da chi cazzo ha preso?“. Oppure quando sono seduti sul divano pieno di cimici. E poi quando abbiamo visto gli episodi con amici e troupe, si capiva che c’era una grossa voglia di sorridere.
“Sta senza pensiero” dove è nata, sul set o sulla carta?
Sulla carta. Ma non ti saprei dire esattamente come… Anzi, credo, può darsi, che sia venuta fuori da Nicola Giuliano, che ha risposto alla semplice domanda di Ludovica: “Come diresti non ti preoccupare, in napoletano?”. E la frase è nata. Non ne sono certo, ma è plausibile che sia andata così.
Veniamo all’articolo di Guia Soncini. Il succo è: gli sceneggiatori italiani vivono nell’800 e quelli del resto del mondo, nella contemporaneità, anche quando fanno period drama come Masters of Sex. E vengono fatti degli esempi di serie italiane giudicate come poco virtuosi. Casualmente, le due serie citate sono serie che hai scritto anche tu. Al di là della polemica, mi è sembrata un’occasione sprecata perché la Soncini avrebbe potuto rilevare un corto circuito non da poco: che in questa stagione, oltre alle due serie incriminate, firmi anche una serie di successo internazionale come Gomorra. Dove sta la verità?
Premetto che la Soncini è sceneggiatrice e trovo singolare che giudichi il lavoro degli altri colleghi. In generale penso che i paragoni siano impropri. Questo nostro amore non lo puoi paragonare a Master of sex, perché non puoi paragonare l’Italia con gli Usa degli anni 60. La serie nasce da un racconto che mi fece mia madre: mi disse come nel nostro palazzo vivesse una coppia di concubini e di come mia nonna le proibiva di rivolger loro la parola. Questa era l’Italia di quel tempo. E di questo parla la serie. Mi sembrava una metafora molto forte sulla diversità culturale e soprattutto era una commedia, non una commedia involontaria, come la definisce l’articolo.
Parlaci tu, allora, di questo cortocircuito tutto italiano, e raccontaci come cambia la tua scrittura da Gomorra a Questo nostro amore.
Premetto che ci sono cose che vengono più o meno bene e molte esulano dal nostro controllo di scrittori, il production value è qualcosa su cui noi abbiamo difficilmente voce in capitolo. Personalmente, mi gratifica enormemente pensare di riuscire a scrivere per il pubblico di Un’altra vita, che corrisponde al 25% di share. Questo pubblico è probabilmente il segmento di ascolto più anziano della televisione italiana ma non cambia nulla, perché al di là di accortezze e sensibilità diverse, il mio piacere resta lo stesso che mi può dare il pubblico di Gomorra. Non è che le cose le faccio in maniera diversa, il pubblico è diverso e lo so, quindi so che devo trovare un equilibrio tra il pubblico più giovane e quello meno giovane.
Quello che trovo superficiale, in questa critica, è che finisce per dimenticare che il pubblico è tutto e il contrario di tutto, cioè contiene ragazzini di 7 anni fino agli adulti di 80 e ci deve essere prodotto per tutti. Il problema non è Don Matteo, ne sono sicuro, il problema è il troppo poco del resto, delle valide alternative. In pratica, non è tutelata alcuna forma di biodiversità. E il salvatore non può essere Sky, che riesce a produrre uno forse due prodotti all’anno. Tutto questo è un problema sicuramente di offerta culturale, ma anche di professionalità, perché in un panorama così asfittico diventa difficile creare una professionalità diffusa.
Variety ha da poco annunciato un nuovo progetto seriale targato Cattleya-Sollima-Saviano-Bises ed è tratto dall’ultimo libro dello scrittore casertano Zero zero zero. Due cose saltano subito all’occhio: uno, che si tratta di una co-produzione con Canal Plus e, due, che non c’è ancora nessun broadcaster italiano.
Hai visto bene. Infatti il progetto nasce sull’onda del successo internazionale di Gomorra e Cattleya decide di provare a sviluppare una idea a partire da Zero Zero Zero e chiama me. Vado a passare del tempo a New York con Saviano e mettiamo insieme il concept della serie. Cattleya, bypassando qualunque broadcaster italiano, ha venduto il concept. Con i suoi soldi è andata direttamente sul mercato internazionale e ha trovato Canal Plus.
Lo sviluppo creativo della serie, al di là del concept, verrà affidato a voi scrittori italiani?
La richiesta di Canal Plus, per fortuna, è proprio questa: un’apertura di credito totale verso il team creativo italiano. E infatti dopo il concept, il soggetto di serie l’ho scritto io insieme a Leonardo Fasoli. Poi, trattandosi di un multistrand transnazionale – c’è il Messico, gli Usa, per esempio – il processo di scrittura sarà italiano e verranno successivamente chiamati scrittori stranieri, perché intervengano sui copioni per adattare il linguaggio alle diverse realtà.
La Wgi difende una categoria che in Italia è poco tutelata, poco riconosciuta. Cosa ne sai, cosa ne pensi?
Penso che forse non ci sia ancora bisogno di un sindacato specifico per la nostra categoria di sceneggiatori. In un universo fragilissimo come il nostro audiovisivo, una categoria che tenga dentro anche i registi e in generale figure professionali più visibili e popolari di noi, è d’aiuto a tutti. Temo d’altra parte che, per come è organizzato il sistema produttivo italiano, la WGI faccia molta fatica a fare il proprio lavoro, e a diventare come la Guild americana.
Diritto d’autore, ti senti tutelato?
Mi fa molto soffrire l’idea che cedo tutti i miei diritti. Una volta che ho partorito un’idea, non ho altro diritto che far togliere la mia firma di fronte ad uno scempio, senza un ritorno economico dalla mia opera nei successivi possibili sfruttamenti. Francamente trovo intollerabile che la nostra posizione creativa si riduca a quella di meri prestatori d’opera. Considera, poi, che i produttori tv non rischiano nulla di proprio, perché lavorano con i soldi del broadcaster e però loro sono i detentori esclusivi dei diritti, tranne il fatto che a volte li cedono alle reti. C’è un senso di frustrazione molto forte. La stessa frustrazione che si prova nel non avere la massima libertà creativa. Che è un problema che va di pari passo al problema dei crediti. Se tu ti appoggi ad una persona che di mestiere crea delle storie e tu ne hai fiducia, devi lasciargli il massimo di libertà creativa, perché tanto poi il produttore entra comunque in un miliardo di scelte che sono fondamentali. Se io non ho riconosciuto un credito professionale che mi permetta, dopo aver creato un personaggio, di partecipare contrattualmente alla scelta dell’attore, del regista e a una serie di altre scelte produttive, noi saremo sempre in quell’angolino lì dove sei all’oscuro di quello che succede e dove puoi essere sostituito da chiunque, tanto al massimo ti garantiscono la firma. Anche questa è una delle cause della poca innovazione, della poca eccezionalità della nostra tv. Siamo sempre nella mani di qualcuno che ha la presunzione di conoscere il segreto del successo e invece il segreto del successo non ce l’ha nessuno.
Cosa ne pensi della tendenza tutta italiana di adattare format stranieri di ogni tipo?
Penso a quanto siamo produttivamente modesti qui in Italia, perché se c’è un paese dove la famiglia è centrale è il nostro, e trovo assurdo che per fare i Cesaroni siamo andati a pescare in Spagna. La proliferazione di format stranieri su patrimoni narrativi che sono nostri, è intollerabile. Non c’è un autentico mercato delle idee che valorizzi quello che abbiamo e quello che potremmo avere.
Ti è capitato di ricevere dei rifiuti per delle idee originali che hai proposto tu?
Proposi di fare una serie dal libro di un amico magistrato che si chiama Storia di un giudice (Einaudi). Era il racconto autobiografico di questo Pm che a ventiquattro anni, come primo incarico, venne spedito a Locri a fare il sostituto procuratore. Erano i tempi della fiction berlusconizzata di Del Noce e mi venne risposto che non era proprio adatto alla linea editoriale, solo prodotti “edificanti” mi si diceva.
Altre volte, invece, è successo il contrario. Penso a Il capo dei capi, dove ricevemmo solo tre note tecniche in croce laddove sì che ce ne sarebbe stato da smussare, e infatti eravamo esterrefatti per la libertà concessa. Pensavamo che prima o poi sarebbero arrivate le note, e invece non arrivarono.
Come funziona Stefano Bises?
La musica ho imparato da poco ad ascoltarla mentre scrivo, perché per anni mi è sempre sembrata come una distrazione. Ora ascolto la radio e gioco a scacchi online, anche 15 partite consecutive. Quindi, come vedi, il tempo di lavoro effettivo è incalcolabile per questo motivo. In generale diciamo che cerco di essere quanto più rigoroso possibile. Mi sveglio ogni mattina alle 6:30 per leggere i giornali, preparo la colazione ai bambini, li porto a scuola e poi lavoro. Della scrittura, preferisco la parte solitaria, lo coltivo come se fosse un momento di bellezza, una cosa benedetta. Le riunioni mi restano indigeste, quelle con i miei simili le tollero di più, ma in generale preferisco stare da solo. Per essere produttivo devo avere la mia giornata davanti, nei tempi contingentati non funziono. Lavoro meglio la mattina che la sera, la notte alle 11 c’ho la febbre, sonno mortale.
Ci regali una scena? Ce la commenti?
Scelgo questa SCENA GOMORRA, perché la considero la più violenta di tutta la serie, anche se non contiene alcuna delle tante forme di violenza fisica raccontate. Una donna che sta assaporando il gusto del comando che, mangiando, spiega a un “colletto bianco” che ha sbagliato, che si deve uccidere per rimediare ai suoi sbagli. La scelgo anche alla luce della realizzazione: perfetta.